Questa felicità
Questa felicità promessa o data
m'è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove il molteplice nell'unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo
Il pensiero m'insegue in questo borgo
cupo ove corre un vento d'altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.
Sono tra poco quarant'anni d'ansia,
d'uggia, d'ilarità improvvise, rapide
com'è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L'albero di dolore scuote i rami...
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l'opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d'incontri effimeri e di perdite
o d'amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedito tra l'eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.
"Credi, credi di conoscermi" recita lei quasi parlando al vento
e osserva controsole la polvere
strisciare sullo stradone deserto.
"Appartieni troppo a te stesso" insiste ad accusarmi
prolungando la pena dell'indugio
quella parte di lei che ancora combatte
avvilita e altera nella macchina ferma.
Ma le suona falso l'argomento
e ne scorgo sul cristallo la larva
che spenge d'un sorriso
dimesso le parole appena dette.
"Oh di questo hai anche troppo sofferto" aggiunge poi quasi portando fiori
sul luogo, un'orticaia, dove mi ha crocifisso.
"Vanamente" mormoro più che dal rimorso
toccato da quel tono
di persistente, doloroso affetto;
e ora vorrei non le sembrasse indegno
cercare in altri la causa
del suo male, fosse pure il mio torto.
"Vanamente" e mi viene non so se dal ricordo
o dal sogno un'immagine di lei
gracile, impalata nella sua altezza, che guarda un fiume
dall'argine e, poco oltre la foce,
la lacca grigia del mare oscurarsi.
"Lascia perdere" dice lei con la voce di chi torna
dopo un'assenza di anni sul luogo stesso
e raduna le spoglie lasciate in altri tempi, dopo lo scacco.
"Perché non è in nostro potere richiamarci"
mi chiedo io sorpreso che sia lì, ferma, sul sedile accanto.
"Che intesa può darsi senza luce di speranza?
Perché la speranza è irreversibile" commenta
il suo silenzio rigido senza più lotta
mentre abbassa risoluta la maniglia
e getta un'occhiata di squincio al casamento, alto, che tra poco la inghiotte.
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zinith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi
sogno che la cosa esclami
nel buio della mente
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo sii
luce, non disabitata trasparenza...
La cosa e la sua anima?
O la mia e la sua sofferenza?
Vola alta, parola.
Ah tu non resti inerte nel tuo cielo
e la via si ripopola d'allarmi
poiché la tua imminenza respira contenuta
dal silenzio di lucide pareti
e dai vetri che fissano l'inverno.
Camminare è venirti incontro, vivere
è progredire a te, tutto è fuoco e sgomento.
E quante volte prossimo a svelarti
ho tremato d'un viso repentino
dietro i battenti d'una antica porta
nella penombra, o a capo delle scale.