Il maestro di setticlavio

L'uno insisteva timidamente:

"Eppure, maestro, mi scusi. In fondo è un buon giovine. Ha un gran capitale in quella sua voce da Mirate".

L'altro ripeteva risolutamente:

"No, no e poi no. Tu non capisci niente. Gli basterebbe mangiarsi quel po' di dote. È uno scavezzacollo. Povera Nene!".

L'uno stava alla coda del pianoforte, in piedi, con la testa bassa; l'altro seduto alla tastiera. Al di là dell'uscio chiuso si sentiva una vocina soave canterellare.

Il meno vecchio, quegli che stava in piedi, era alto di statura, magro, sbarbato; aveva intorno a sessant'anni, ma ne mostrava di più, sebbene i capelli fossero tuttavia folti e quasi neri, ed i denti grandi, quando l'ampia bocca si apriva, apparissero tutti regolari e candidi. Vedendolo passare in cotta fra gli altri cantori nella lunghissima fila della processione del Corpus Domini, che in quegli anni aveva ancora luogo attorno alla piazza di San Marco, sembrava tale e quale uno dei cantori dipinti l'anno 1496 da Gentile Bellino nel gran quadro della processione famosa delle Reliquie. Un veneziano puro e pretto. Naso lungo aquilino, mento grosso un poco sporgente, labbra sottili. Cantava il basso profondo, scendendo al Do sotto, toccando appena il Re sopra; e non ostante gorgheggiava con facilità, interrompendosi spesso per ischiarirsi la gola con tanto fragore, che pareva una cannonata. Conduceva spesso i suoi allievi a cantare in coro nella cappella di San Marco; ma prima voleva che andassero in un bacaro[1] a berne un quartuccio per uno (egli faceva qualche ritornello) ed a mangiare un'aringa, appena scaldata sulla graticola, perché giurava che le aringhe salate ripuliscono, e ingigantiscono la voce. Quando, di botto, cacciava fuori una nota, tremavano le piccole invetriate della bettola.

L'altro, che diceva risolutamente di no, era un vecchietto piccolo, snello, vispo, pulito, di ottant'anni passati, con un'aureola d'argento intorno alla fronte senza rughe, con le guance nude rosee, e due occhietti in cui si leggeva la bontà serena. Allievo del Furlanetto, cantava da tenore; e ancora, socchiudendo appena le labbra, lasciava uscire una vocina flebile flebile; intonatissima, limpidissima, che pareva scendesse dall'alto. Da cinquant'anni aveva l'ufficio di maestro dei cori nella cappella.

Il basso, Luigi Zen, non sapeva fare sul pianoforte altro che qualche accordo. Cercava ben bene le note una ad una, poi, contento di averle alla fine trovate, si sfogava a pestar sui tasti; e intanto gli scolari attendevano che il secondo accordo nascesse sotto le lunghe dita. Finivano per cantare senza nessun accompagnamento, salvo le battute d'aspetto picchiate dal maestro fragorosamente coi piedi e con le mani e contate a gran voce.

L'accompagnamento lo faceva sentire di quando in quando il maestro dei cori, Annibale Chisiola, in casa sua, sopra uno strumento, che stava tra il gravicembalo e la spinetta; e le bianche mani del vecchietto andavano sulla tastiera senza scosse, senza scatti, mentre le dita, incurvate sotto le palme, non pareva si muovessero affatto. Eppure le scale, i trilli, i gruppetti, gli arpeggi si succedevano con una precisione, una rapidità, una scorrevolezza ammirabili. Le più intricate fughe delle partiture manoscritte erano sgrovigliate all'improvviso. I canoni, le imitazioni, i moti contrari assumevano sotto quei dorsi convessi delle piccole mani una chiarezza lampante.

Se il canto degli allievi procedeva liscio sopra l'accompagnamento, che udivano per la prima volta; se i duetti ed i terzetti andavano innanzi senza intoppi, la faccia dello Zen raggiava di consolazione. Il Chisiola, indulgente, bisbigliava:

"Non c'è male. Proprio benino. Bravi figliuoli".

Ma talvolta interrompeva per dare un consiglio, per correggere uno sbaglio, per far ripetere un passo, ed allora lo Zen, rannuvolandosi, prendeva le difese del proprio scolaro, e rifaceva il canto con il suo vocione portentoso, sicché il vecchietto finiva per turarsi le orecchie, dicendo:

"Si sente che l'hai proprio mangiata oggi l'aringa salata". Il basso Zen era conservatore arrabbiato. Per esempio, non poteva soffrire le opere del Verdi: ne diceva un mondo di male, specialmente del Rigoletto, allora fresco fresco; resisteva, finché poteva, al desiderio dei giovani, quando volevano studiarle; si bisticciava perciò anche col Chisiola, il quale gli aveva insegnato a cantare quasi mezzo secolo addietro. Un giorno che, a proposito di uno scolaro, baritono verdiano per la pelle, la questione s'era incalorita più del solito, il vecchietto roseo, fissando in volto il suo bisbetico discepolo con uno sguardo di rimprovero affettuoso, gli disse:

"Il Verdi, sai, vale quanto il Rossini, il Cimarosa od il Furlanetto" e l'altro, scandalizzato, alzava le spalle, ghignando.

"Tu vorresti" continuava il maestro "che il mondo si fosse fermato agli anni della tua giovinezza, quelli degli amori e della presunzione; ma, vedi, fra noi e la musica c'è questa differenza, che noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo e siamo mortali (anzi' io me ne sto già mezzo in sepoltura), mentre la musica è eterna".

Lo Zen abbassò la testa, come un can barbone scottato; poi se ne andò nello sguancio di una finestra, ove un giovinetto stava ripassando da sé, con la musica sotto gli occhi, un allegro, che diceva: Amor perché mi pizzichi, mi pizzichi, mi pizzichi perché? e continuava: Amor perché mi stuzzichi, mi stuzzichi, mi stuzzichi perché? Il basso borbottò nelle orecchie del giovinetto, credendo di parlare sottovoce:

"È un sant'uomo. Darei gli ultimi anni della mia vita per allungare la sua. Ma in musica, per Bacco, è un carbonaro".

"E tu" replicò sorridendo il vecchietto, che aveva l'udito fine "sei un sanfedista".

Per una cosa lo Zen si sarebbe fatto squartare innanzi di cedere: pel metodo di legger musica. Aveva da essere il setticlavio, non altro che il setticlavio. E se qualcuno gli faceva osservare che oramai tutti leggevano col metodo comune, egli, fremendo di bile, tuonava:

"Non è possibile. Asini hanno da essere senza il setticlavio. Il setticlavio è il vangelo della musica: la sola vera credenza". Quando poi uno gli domandava che cosa fosse il famoso metodo, egli, assumendo un'aria soddisfatta e mettendosi a sedere, principiava:

"In quattro parole te lo spiego, perché la cosa è lucente come il sole. Dimmi, quale è la tonica nella chiave di Do?".

"Il Do".

"Bene. E il Mi che cosa è?".

"La terza".

"E il Si?".

"La settima".

"Ora senti, dal Do al Mi che salto si fa?".

"Di terza maggiore".

"Dunque quando dici Do Mi dici e canti una terza maggiore".

"Sicuro".

"Quando canti Si Do che intervallo fai?".

"Di mezzo tono".

"Dunque quando dici Si Do come Mi Fa dici e canti un mezzo tono".

"Certamente".

"Adesso rispondi. Se nel tuo maledetto sistema di lettura, che chiamano comune, canti, per esempio, in chiave di Re, il Do Mi che cosa diventa?".

"Una terza minore".

"E il Mi Fa o il Si Do?".

"Un tono intiero d'intervallo".

"Oh, vedi, vedi che miserabile, che infame confusione. Si legge una cosa e si canta l'altra. Non c'è più regola, non si capisce più nulla".

"E come ci si rimedia?".

"Nel modo più semplice di questo mondo. Chiama sempre Do la tonica, sempre Mi la terza, sempre Si la settima e così via tutte le altre note della scala in qualunque tono tu debba cantare, e l'imbroglio sparisce, e gl'intervalli corrispondono sempre agli stessi nomi delle medesime note".

"Ma gli accidenti?".

"Gli accidenti sono accidenti, e si vedono scritti chiari e tondi quali eccezioni alla regola. Il proverbio dice appunto, che le eccezioni confermano la regola".

"Ma bisogna dunque imparare a leggere in tutte le chiavi?".

"Certo, e non sai leggere tu in due? E non ci sono degli strumenti, che obbligano a leggere in tre? La voce umana è sì o no il più nobile degli strumenti?".

"È il più nobile, senza dubbio".

"Ergo dev'essere il più difficile. I pigri vadano al diavolo".

"Scusi, maestro, ma le modulazioni, i cambiamenti di tono, che non si trovano scritti in testa al pezzo?".

"Te li trovi da te, in nome del cielo, con un poco di pazienza, con un tantino di pratica d'armonia. Poi ti senti solido, ti senti incrollabile come il campanile di San Marco".

E il vecchio lungo, entusiasmato, schizzava scintille dagli occhi, e solfeggiava tuonando:

"Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do".
La fanciulla, che canterellava in un'altra stanza, mentre i due vecchi si bisticciavano sul conto della musica verdiana, la Nene, era figliuola della figlia d'una sorella del maestro Chisiola, il quale, non avendo nessun altro parente sulla terra, concentrava nella dolce nipote, rimasta orfana sin da bambina, tutti gli affetti di padre e di madre, anzi di nonno e di nonna. E la fanciulla lo aveva sempre chiamato nonno. Ella non mancava mai alle funzioni cantate di San Marco, grandi e piccole, nei dì di festa e nei giorni di lavoro. Conduceva il nonno fino a' piedi della scaletta, che sale alla cantoria dei cori, quella dalla parte della sagrestia; poi se ne andava dritta dritta, a passi corti e frequenti, nella cappella a sinistra dell'altar maggiore, e si metteva a sedere in un angolo buio, raccogliendo le vesti per occupare il minor spazio possibile, tenendo il libro di preghiere aperto sulle ginocchia, e rimanendo con gli occhi bassi, finché il nonno, dopo la messa cantata, la benedizione od i vespri, non andava a pigliarla, camminando tale e quale come lei a passetti solleciti e uguali.

Veramente da un poco di tempo la ragazza non fissava sempre lo sguardo sul libro o sugli intrecci del pavimento di marmi e di porfidi; ma lo alzava spesso alla cantoria, la quale, a stare nel cantuccio della cappella, si vedeva tutta dal sotto in su. Apparivano appena di tratto in tratto le teste dei cantori di prima fila, spesso nascoste dai fogli di musica spiegati sul leggìo o tenuti innanzi agli occhi con le due mani.

Del maestro Chisiola, corto di statura, non si scorgeva che la fronte bianca circondata dai capelli d'argento, sebbene, quando non c'era orchestra, egli montasse davanti all'organista sul rialzo del maestro di cappella; e indicava le battute agitando un grosso scartafaccio, con cui picchiava forte i quarti sul parapetto della cantoria, massime se mutava il tempo della musica, se il canto affrettava e se alcune parti dovevano entrare. Gli stava accanto, a sinistra, lo Zen, primo basso, che faceva rimbombare anche nei pieni le sue lunghe note profonde, vibranti come pedali d'organo, mentre la grande bocca si apriva al pari d'una caverna sotto al naso imponente.

Fra tutte quelle facce sbarbate di uomini attempati o di vecchi spiccava il volto del giovane tenore, soprannominato Mirate dal nome d'un tenore grande e grosso e di potentissima voce, che faceva furore al teatro della Fenice. Portava con alterigia un bel paio di folti baffi neri ed il pizzo lungo, segni della sua indipendenza dalla fabbriceria e dai canonici; non vestiva la cotta, non andava in processione e non cantava nelle funzioni dozzinali. Già i parrochi delle altre chiese lo ricercavano, già se lo strappavano per le messe solenni nei dì di sagra anche nelle pievi della vicina terraferma, già egli aveva aperto delle trattative segrete con qualche agente teatrale per gettarsi nel mare magno del palcoscenico. Doveva condurre il negozio misteriosamente per questa cagione, che s'era legato con uno strozzino a dargli metà di tutti i propri guadagni, finché non saldasse con novemila svanziche un debito di tremila, fatto durante i due anni in cui aveva studiato il canto presso il maestro Zen, cui veniva in aiuto il maestro Chisiola. I maestri non gli erano costati un soldo, ma bisognava pur vivere, e senza troppe angustie. Ora lo strozzino non si fidava di lasciarlo andare lontano da Venezia, pel timore di non saperlo acchiappare mai più.

Figlio d'un gondoliere e d'una lavandaia, era stato egli pure barcaiuolo di traghetto. Cantava a orecchio, facendo strabiliare i forestieri, segnatamente gli inglesi, che menava in gondola; e, celebre fra i suoi compagni di barca, trionfava in una società di cantori, quasi tutti orecchianti come lui, che andavano la sera in un battello, ornato di palloncini variopinti, a cantar cori in Canal Grande, sotto le finestre dei principali alberghi. Una delle più recenti canzonette principiava: Vieni la barca è pronta - vieni l'auretta spira...

Il giovane gondoliere era stato ammirato più volte dal soprano della cappella di San Marco. Questi non aveva nulla di comune con i rotondi soprani di cappella Sistina e di alcuni drammi di Metastasio: misero, verdastro, rachitico, era riuscito a produrre sei figliuoli brutti e cachetici, proprio il ritratto suo, e per i quali avrebbe coniato moneta falsa. Poco mancava in realtà che non ne coniasse: faceva di tutto. Nella cappella era entrato quale basso profondo; ma poi, sciupatasi la voce, passò a cantare in falsetto, quando la musica esigeva il contralto o il soprano: e, a sentirlo, pareva assolutamente una donna. Ma la paga era magra, ed i figliuoli, benché mezzi storpi, avevano un appetito da lupi. S'appigliò alle anticaglie: comperava ceramiche fesse, mobili tarlati, stoffe sfilate, avori slabbrati, ogni sorta di ferramenta arrugginite, e, se gli capitava per un tozzo di pane, qualche oggetto da museo. La bottega di straccivendolo s'alzava via via alla dignità del ferravecchio, del rigattiere, dell'antiquario. Risparmiati un po' di quattrini, li cominciò a prestare senza rischio a certi impiegati imperial-regi, o previo deposito di vecchi oggetti, che gli restavano spesso pel decimo del loro valore. Finalmente rischiò l'affare con Mirate, perché lo strozzino era lui.

Qui al soprano mancò la consueta prudenza. Il giovinotto avrebbe dovuto seguitar nel mestiere del barcaiuolo; senonché, non potendo attendere al remo tutta la giornata, il soprano si impegnava di anticipargli una svanzica al giorno per un anno e mezzo o per due, finché non avesse imparato sufficientemente a cantare. Dopo, sui primi guadagni, il tenore doveva restituire tre volte tanto: intorno a 1600 o 2200 svanziche al più. Visti i tempi inclinati alle dispendiose cerimonie ecclesiastiche, tenuto conto della voce meravigliosa, due anni, anche lasciando stare il teatro, dovevano bastare ad estinguere il debito, sanzionato, del resto, con contratti fittizi regolarissimi.

Nei primi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bella stagione: Mirate vogava la sera, studiava di giorno; il soprano copiava con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Ma presto il remo gli principiò a pesare: diceva che quell'esercizio faticava il petto, che il respiro si faceva troppo frequente, che l'espirazione diventava corta. Il maestro Zen gli dava ragione: la gondola fu ceduta, e la svanzica non bastò più. Il padre e la madre del futuro grand'uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddoppiarono il lavoro: quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte. Il bucato della biancheria nuova del figliuolo, di bella tela fina cucita dalla mamma instancabile, si faceva a parte, essendo oggetto di cure speciali per la lisciva, per il sapone, pel modo delicato, quasi a dire rispettoso, di torcerla, di batteria, di sciacquarla, di tenderla. Il bianco lucente di quelle camicie con il largo goletto, con il davanti piegolinato, con i polsini che coprivano metà delle mani, non sembrava mai abbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollo, dal quale la famiglia attendeva gloria e ricchezze. Egli di giorno in giorno gonfiava sempre più, e diventava nervoso. Bastava una macchietta gialla del ferro, un goletto poco inamidato, perché, bestemmiando, sbattesse a terra innanzi alla madre due o tre camicie, che la poveretta, con gli occhi umidi e le labbra sorridenti, raccoglieva e tornava a lavare e a stirare. Lo stanzino, ch'egli occupava accanto alle due cameracce terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua persona; non rifiniva di lamentarsi che per andare in piazza di San Marco o dal maestro gli toccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque una buona stanza nel centro, in Frezzeria, dove con i suoi gorgheggi metteva sossopra il vicinato. Da allora in poi andò tre volte la settimana dal barbiere, desinò all'osteria, mutò i compagni, frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spillare qualcosa.

Ci voleva altro? Il rinfranco veniva dal soprano, il quale, dopo avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva incatenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di rimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più di andar a chiedere con questa scusa o con quella; mandava a dire all'altro che venisse, e subito. Le chiamate avevano luogo, per solito, verso le dieci della mattina, mentre il tenore era ancora a letto.

"Mi occorrono quattrini".

"Non ne ho".

"Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire, altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione".

"Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto".

"Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per cento".

"Non lo farà, ti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lo facesse, che cosa ne importerebbe a me?".

"Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque sbandito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una melodia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci bene, l'umidità del carcere, la mancanza di moto, l'arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti, il cattivo mangiare, e sopra tutto l'avvilimento: in una settimana sarei bello e spacciato".

E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di camicia e mettendosi i calzini.

"Anzi" replicava l'altro con lo sforzo di un sogghigno, che in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa "anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di gattabuia, al pari d'un canarino, più grasso e più canoro".

"Giacobbe figlio d'Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi, massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musica, pastiglie pettorali, eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitato, in grazia delle serenate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella mia prossima gloria, come confidi tu, mio protettore generoso".

Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si accomodò i solini e la cravatta.

Intanto l'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé. Finalmente disse:

"Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le dugento lire".

"Oltre la mesata, s'intende".

"Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi rovinare, se no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di sei figliuoli. A proposito, ieri pensavo a te".

"Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oro, che hai fatto meco".

"No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie".

"Così subito?".

"Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato nell'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe gettare l'amo".

"Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo innamorato mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve essere una dote...".

"Sicuramente".

"La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza nemmeno il disturbo di aspettare qualche anno".

"Sei ingrato".

"E chi è la bella?".

"Ora non te lo voglio più dire".

"Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe".

Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentre accompagnava il vecchio, ed anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusione, trattandosi di un affare lontano, non diceva né sì, né no. Avrebbe guardato e pensato meglio.

I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s'era dato, e la nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalterata l'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma nell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora si compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spavalderia, degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi con lui.

Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una settimana dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S'è visto come il nonno rispondesse con una negativa tanto risoluta ed asciutta, che lo Zen non ebbe più ardire d'insistere. Il rifiuto stupì e addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospiravano insieme; ma offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con interessamento la modesta fanciulla, giurando a sé medesimo che di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.

Quando Nene seppe della richiesta e della ripulsa, si pose a ridere come di cosa bizzarra, che non la riguardasse. Le piaceva la voce del giovinotto, che da parecchi giorni ammirava in chiesa, e prima aveva udita alcune volte in casa, ma dalla camera accanto, perché il nonno non la bramava presente mentre c'erano gli scolari. Si rammentava che, sentendo discorrere di lui e dirne un gran male, aveva osservato come non si potesse poi pretendere che, da un giorno all'altro, un gondoliere diventasse un signore per bene; si ricordava pure i suoi occhi neri insolenti, che, incontrandolo, le facevano abbassare lo sguardo con un senso di strano timore.

Del resto, la fanciulla non aveva mai pensato al matrimonio. Era vissuta sempre fra il nonno e la serva, una ottima donna, che le voleva un ben di vita e ch'era stata domestica di sua madre. Da quattro anni divideva la sua giornata fra lo studio del canto, nel quale la sua voce non robusta, ma estesa e morbida, era riescita ammirabile di agilità e di grazia, ed i fiori del piccolo orto, chiuso da alti muri di cinta, in uno dei quali s'apriva verso il canale l'arcata della riva d'approdo. Un poco di tempo lo dava alla cucina, per comporre con le proprie mani, piccole e polpute, qualche manicaretto, che piaceva al nonno. Non usciva con altri che con lui, leggeva poco, cuciva poco, faceva trine e ricami: era soddisfatta di sé e della vita.

Dalla cantoria il tenore, durante i riposi, piombava giù ai piedi dell'altare di San Clemente delle occhiate incendiarie, che incontravano gli sguardi della Nene, la quale si sentiva ogni volta una lieve trafittura nel cuore ed una fiamma al viso, che lo faceva diventar di carminio. I capelli, più rossi che biondi e naturalmente ricciuti, circondavano la fronte non alta e le guance paffute, lasciando vedere le delicate orecchie, da cui pendevano due perle piccine. Quando il tenore cantava con gli occhi alzati alla cupola d'oro popolata di santi bizantini, allora si scorgevano fra le tumide labbra della fanciulla, del color di ciliegia, i denti candidi tutti uguali, e un leggiero fremito scorrerle per le membra rotonde, e gli occhi cilestri non grandi assumere una nuova espressione di vivacità e di sentimento. La ragazza si andava trasformando: diventava inquieta e, non di rado, impaziente: sembrava cresciuta di statura.

Era giunta fino ai diciott'anni senza avere mai guardato dentro nel proprio animo, senza essersi mai resa nessun conto della propria coscienza, poiché alle pratiche religiose, alle preghiere, alla confessione attendeva con gravità umile, ma così per usanza, come operazioni di un rito, il quale avesse la sua radice ed i suoi intenti al. di sopra, al di fuori di lei. La fede era tanto indiscussa, la morale così bene ridotta a precetti ed a formule, che il pensarci diventava inutile: non già che ai gradini dell'altare, di contro alla grata del confessionale, prostrata innanzi al Crocifisso della sua cameretta non sentisse una viva emozione, ma era cosa sentimentale o fantastica, non meditativa. Né il nonno, il quale non contava nella lunga vita una cattiva azione od una cattiva intenzione da espiare, aveva mai parlato alla nipote dei doveri e della dignità della donna. Gli sarebbe parso di mancare di rispetto alla virginità se avesse creduto necessario di ammaestrarla per via di consigli o di libri sulle tentazioni del godimento, sulla malvagità e la ipocrisia di molti uomini, e rispetto alle seduzioni interiori della passione e del desiderio, come intorno ai fatali inganni ed agli ancora più fatali sopori della coscienza. Egli stesso era vissuto senza mai sgarrare, ma come un orecchiante della virtù.

La prima volta che Nene scrutò nel proprio petto, vi trovò una immagine d'uomo profondamente impressa, la quale non le ragionava rispettosa di matrimonio e di maternità, non le bisbigliava sommessa le soavi canzoni dell'affetto ideale, ma parlava sfacciatamente di ardori ancora vaghi ed oramai irresistibili. La fanciulla, seduta nell'ombra cupa del piccolo chiosco dell'orto, tutto coperto e circondato di fresca edera arrampicante, si lasciava vincere dai fantasmi dei desiderii inconsci, ripetendo di tratto in tratto, come stupita di sé medesima: "Eppure, se il nonno avesse risposto di sì, io non lo vorrei sposare!".

Si destava in lei, contemporaneamente all'amore, la vanità. Ammirava la propria voce, notava i pregi del proprio modo di canto, si guardava nello specchio, ora tentando di lisciare i capelli rossi ricciuti, ora arruffandoli, e dolendosi delle macchiette verdastre di lentiggini, che picchiettavano l'incarnato del viso e delle spalle, e la pelle lattea del collo e del seno. Confessava a sé stessa di esser piuttosto corta di statura; ma si giudicava tutta ben fatta dalla testa ai piedi, e meglio grassa che magra. Talvolta, è vero, invidiava gli occhi neri quanto il carbone della sua pettegola vicina, la Gigia, perché supponeva che le bionde con gli occhi neri dovessero esercitare un terribile fascino; poi subito si confortava, notando come le pupille celesti s'accordino ammirabilmente con l'oro rossigno della capigliatura, e, benché più mansuete, non sieno meno potenti. Metteva spesso i suoi migliori abiti, che dianzi giacevano nell'armadio, il suo più grazioso cappellino, già destinato alle messe dei giorni solenni; chiamò una sarta, suggeritale dalla Gigia, per rimodernare le fogge dei vestimenti antiquati, e pregò lo zio di comperarle il raso cangiante per un abito nuovo alla moda. Sbagliava i punti dei ricami e delle trine, che ogni tanto buttava nel cestino e ripigliava svogliata. Passeggiava nell'orto, anche durante le ore più infuocate di quell'estate caldissima, sbadigliando, aspirando con le larghe narici del naso leggermente camuso gli effluvi acri e salsi del vicino canale, ed i profumi dei fiori, mezzo disseccati nei loro vasi, perché ella non si curava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceva l'olezzo delicato della vaniglia, dei gerani, dei pelargonii, dei gelsomini, degli amorini; preferiva, da poco, l'odore inebbriante della gardenia, del garofano, della tuberosa.

Una mattina di buon'ora, facendo fischiare in aria una sottile vermena di salcio, quasi volesse staffilare qualcuno, spiccò netto dallo stelo il grande fiore d'un giglio, che le sembrava troppo alto: in quell'istante si sentì alla porta di casa una furiosa scampanellata. Andò ad aprire. Era il maestro Zen, che, senza nemmeno salutar la fanciulla, corse dritto, tutto trafelato e sbuffante, nella camera da studio del Chisiola, ed asciugandosi il sudore sul volto con un fazzoletto a fiorami pavonazzi, sudicio di tabacco, esclamò:

"Maestro son disperato".

Il vecchio lo guardò sorridendo amorevolmente, come si farebbe innanzi alle buffe disperazioni di un bimbo, e chiese:

"Si tratta del setticlavio?".

L'altro continuava:

"Sono rovinato, sono rovinato, maestro, se ella non mi soccorre!".

Allora il vecchio diventato serio, disse:

"Via, in che cosa posso aiutarti? Sai che ti ho sempre voluto bene, come ad uno de' miei più vecchi discepoli".

Lo Zen s'era posto a sedere, accasciato, presso ad un tavolino, su cui stava una caraffa d'acqua, e ne aveva bevuto due grandi bicchieri:

"Ecco... ma prima ella mi deve promettere di non dirmi di no".

"Promettere così ad occhi chiusi non posso. Ho molta fiducia nel tuo cuore, ma pochissima nel tuo cervello. Dio sa in quali pasticci ti sei cacciato".

"La colpa non è mia, glielo giuro. Non è di nessuno. Se n'è immischiato il diavolo".

"Dunque?".

"Dunque ella sa, o forse non sa, perché è un pezzo che non vengo da lei, ed ella non legge i giornali: avevo promesso pubblicamente, solennemente di dare questa sera con i miei allievi un concerto per gli azionisti della mia scuola di setticlavio e di canto, invitandovi i gazzettieri della città".

"Un concerto! Sei dunque infedele al tuo amico pianista, oppure hai imparato a trarti d'impaccio sulla tastiera?".

"Maestro, mi corbella? Con queste mani da granchio! Ma sapevo troppo bene ch'ella non avrebbe approvato il mio impegno, anzi avrebbe tentato di dissuadermene. Non volevo mancarle di rispetto col resistere a' suoi consigli. Pregai dunque il nostro organista di San Marco, il quale, a patto d'intascare venti svanziche anticipate, ha consentito volentieri. Si fecero le prove, tutto andava a gonfie vele..."

"Ed ora all'ultimo momento, l'organista s'ammala, e vieni da me a pregarmi di sostituirlo".

"No, maestro. Ella non esce di casa la sera, e poi con questo caldo, in una sala affollata! Non vorrei proporle una cosa che le potesse far male, se credessi di dovermi gettare in acqua con un macigno al collo. Del resto, l'organista sta benone".

"E allora?".

"Peggio che un accidente all'organista, mille volte peggio: s'è infreddata la Carlottina Bianchi, ch'ella conosce, la mia più ammirabile allieva, quella che legge musica col setticlavio spedita e franca quanto un prete il breviario, la mia speranza, la mia stella. Ieri all'ultima prova non istava bene. Stamani, prima di venir qua, vado da lei; la trovo a letto con la febbre, una tosse da spaccar le costole, un cataplasma sul petto, e tale abbassamento di voce da non poter pronunciare una sillaba. Il medico dichiara che, se non seguono altri malanni, fra due o tre settimane potrà cantare. Io intanto sono spacciato. Senza la Carlottina vanno in fumo quattro pezzi sopra otto, i più belli; e poi Mirate, che mi ha accompagnato sin qua, giura di non aprir bocca se non può cantare il terzetto della Lucrezia e il duetto dell'Elisir d'amore. Così perdo anche O sì per voi già sento, ch'egli dice da Dio. Rimandare il concerto è impossibile. I giornali, aggirati dagli altri maestri di canto, i quali vedono di mal occhio la mia scuola gratuita, mi sono tutti contrari: la 'Lira' mi bistratta, la 'Gazzetta' mi stritola, il 'Sior Antonio Rioba' mi canzona. Domani sarebbe già troppo tardi. Gli azionisti..".

"Li chiami azionisti! Vorrai dire i contribuenti alle spese della scuola. Quanti sono ora?".

"Sarebbero ottantasei, impegnati con la firma a dare sei svanziche l'anno; ma di ottantasei, indovini, maestro, quanti hanno pagato. Sedici, sedici soltanto, e dopo quante sollecitazioni! Pensare che se avessero pazienza di aspettare che gli allievi diventassero tutti cantanti le azioni guadagnerebbero il cento per cento, a dir poco. Invece me le rimandano accompagnate da sarcasmi o da contumelie. Insomma, un concerto con i miei sette scolari basta a mettere in luce la verità, a sbugiardare i giornalisti, a confondere gli altri maestri di canto, a moltiplicare gli azionisti..".

"Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti!" soggiunse il maestro Chisiola, sorridendo con tristezza.

"Debiti ne ho parecchi, maestro; ma, per dire il vero, ci penso poco. A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo la scuola, e il nolo del pianoforte e della musica. Continuerei volentieri, come faccio da due mesi, a mangiare una volta al giorno pesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un solo quartuccio di vino".

"Povero amico mio, vittima del setticlavio! Dimmi alla fine come posso aiutarti".

Lo Zen, che sapeva come la propria domanda avrebbe sorpreso e addolorato il maestro, esitò un momento, poi rapidamente rispose:

"Permettendo alla signorina Nene di cantare questa sera, in luogo della Carlotta".

Il vecchio nonno si rannuvolò. Guardava in faccia lo Zen tacendo, come se nuove idee, nuovi timori gli confondessero la mente. Fece per rispondere, ma la parola parve troncata da un altro pensiero triste. Già la nipote, durante le ultime due settimane, lo aveva turbato nelle sue aspirazioni e nelle sue consuetudini, poiché dianzi si era andato via via persuadendo che nulla avrebbe alterato mai la serena pace della casetta e dell'orto; e come egli, presso alla fine de' suoi giorni, sentiva l'anima schiva da ogni agitazione mondana, così sperava dovesse essere nel cuore della giovane, la quale non conosceva ancora la vita. L'istinto dell'affetto gli figurava il primo passo nella via della vanità quale una voragine, in cui sarebbe presto scomparsa l'esistenza solitaria e felice della fanciulla e di lui. Fece uno sforzo sopra di sé e, aperto l'uscio, chiamò:

"Nene".

Appena la ragazza fu entrata, il vecchio continuò con voce tremolante, e interrompendosi spesso per respirare: "Senti, mia cara, l'amico Zen ti chiede un favore, una cosa che non hai fatto mai sino ad ora, e che ripugna certo alla tua indole delicata e restia. Vorrebbe che tu cantassi in un concerto questa sera, in compagnia di alcuni suoi discepoli, fra i quali il così detto Mirate, per sostituire Carlottina Bianchi, improvvisamente ammalata".

"Signorina Nene, dica di sì" interruppe lo Zen: "la mia vita è nelle sue mani".

"Sì, canterò" rispose la fanciulla, calma e sicura, senza nemmeno badare allo Zen, che gongolava e le baciava le mani. A un tratto il basso profondo, picchiandosi la fronte, si rivolse al vecchio: "Maestro, mi scordavo un incarico ricevuto or ora dal tenore, qui sulla porta. Desidera farle sapere che la richiesta di matrimonio fu un brutto imbroglio del soprano, nostro collega nella cappella, quell'usuraio lurido, indegno di appartenere all'onorato corpo dei cantori di San Marco. Egli sperava di combinare il negozio per certe sue ragioni d'interesse, mentre all'incontro Mirate è innamorato matto di un'altra: non mi ha detto di chi".

La notizia fu di qualche sollievo al vecchio: la fanciulla invece l'accolse con altera incredulità. Avvicinatasi ai nonno per di dietro, gli diede un bacio sui capelli bianchi, bisbigliandogli:

"Vedo che la mia risoluzione ti affligge. Perdonami. Sarebbero proprio riescite inutili tante tue cure per insegnarmi a cantare, se dovessi continuar tutta la vita a gorgheggiare con gli usignuoli dell'orto. Vedrai, mio buon nonno, che ti farò tanto onore".

Nene conosceva i pezzi che doveva eseguire. Bastò una prova rapida in casa del maestro Chisiola, il quale, scordandosi un poco delle ubbie di prima, dava volentieri qualche savio suggerimento, e non sapeva vincere una certa compiacenza nell'ascoltar la nipote. Dopo finito un rondò del Cimarosa, rinzeppato di agilità e di trilli, il vecchio non poté trattenersi dall'esclamare:

"Brava".

Lo Zen farneticava di giubilo. Anche l'organista, tondo, sbarbato, un faccione da corcontento, súonava con ardore, non ostante alle sue mani rattrappite nell'uso quotidiano della piccola tastiera dell'organo, e cercava i pedali, che non c'erano, pestando sul pavimento.

Il concerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del famoso soprano, che tutti maledivano, ma che, lesto e ficchino com'era, o per via di prestiti o per altri servizi, si rendeva quasi sempre indispensabile. Stretta e lunga, la sala pareva un ampio corridoio, male illuminato da poche lampade ad olio pendenti dal soffitto basso, ove avevano lasciato dei larghi cerchi di filiggine. Prima delle otto già era quasi piena di un pubblico vario: impiegati, bottegai con le loro mogli e figliuole; bellimbusti amici di Mirate con alcune ragazze un po' scollacciate, qualche prete con le sorelle vecchie vestite di bruno; né mancavano parecchi signori della nobiltà, senza le dame, qualcuno cioè di quegli ultimi sedici azionisti, che continuavano a pagare la loro quota. I giornalisti ed i maestri di canto stavano in piedi, nel fondo, ammiccandosi, parlandosi nell'orecchio, indicando l'uno all'altro le più belle fanciulle, e ridendo, ghignando alle barzellette ed ai motti di questo o di quello.

Nene sembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondanti, tirati alti sul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del volto, in cui spiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di neve; la persona non alta, ma formosa; sopra tutto quella sua nuova espressione di fermezza e di contentezza, le davano un aspetto singolare ed attraente.

Il vecchio nonno, che aveva voluto per forza trascinarsi fin là, e s'era messo a sedere nella stanza destinata ai cantanti, presso all'uscio, il quale conduceva al palco rialzato di due gradini, non si saziava di guardar la nipote; e quando, durante i pezzi in cui cantava e dopo la cadenza, scoppiavano gli applausi lunghi, ripetuti, fragorosi, ed era chiesto con entusiasmo il bis, dagli occhi del nonno scorrevano giù per le guance le lagrime. Poi abbracciava la nipote, dicendole tra i singhiozzi:

"Nene, mia cara Nene, come sono contento di te!".

Finito il concerto ed uscito il pubblico, in una svolta buia delle scale, scendendo, Mirate circondò col braccio sinistro la fanciulla alla cintola e, tenendole con la mano destra il mento, le diede un vigoroso bacio sulle grosse labbra, che rimasero aperte e fidenti.
I giornali veneziani si occuparono del concerto. Tutti lodarono la nipote e allieva del maestro Chisiola, insistendo però nell'avvertire che qui la scuola dello Zen non ci entrava proprio per nulla. Mirate fu giudicato con poca benevolenza: voce potente, di buon timbro, abbastanza intonata, ma fredda e grossolana; cantante immaturo, più da chiesa che da teatro; insomma, qualità preziose, ma scuola pessima. Gli altri allievi, messi in un fascio, venivano tartassati spietatamente. Conclusione: gli azionisti buttavano via i loro quattrini per far sciupare le belle voci o far cantare dei cani. Il giornale teatrale, "La Lira", se la pigliava poi col setticlavio, accusando questo metodo di molti peccati: incertezza nella intonazione, perplessità negli attacchi, pesantezza nel modulare; e negava assolutamente che gli scolari dello Zen sapessero leggere a prima vista. Proponeva un giudizio, pronunciato da cinque maestri, due eletti dallo Zen, due dalla direzione del giornale e il quinto dai primi quattro insieme.

Lo Zen, fuori di sé per il dispetto di tante censure e per il timore di vedersi togliere la sua amata scuola, ma più che altro per causa delle imputazioni contro il setticlavio, abboccò subito; e scrisse al giornale una lettera, stampata immediatamente, con cui accettava la proposta, si riserbava di indicare due nomi, e si dichiarava disposto a soggiacere alla sentenza se, cosa impossibile, gli dovesse riescire contraria. Corse dal maestro direttore della cappella di San Marco a pregarlo di essere uno degli arbitri. Questi, uomo prudente, rispose:

"Vi pare! Nella mia posizione, farmi dei nemici fra i maestri e fra i giornalisti! Grazie della fiducia, ma non vorrei rovinarmi". Corse dal giovine e celebre direttore d'orchestra al teatro della Fenice, che gli strinse cordialmente la mano, lo fece sedere in poltrona, gli offrì una chicchera di caffè, ma rispose:

"Ben volentieri, maestro Carissimo, se non ci fosse un ostacolo. Io ignoro assolutamente che cosa sia setticlavio".

"Oh, non importa, in un quarto d'ora la metto in grado di esserne professore. Il metodo splende da sé, come il sole. Quale è la tonica nella chiave di Do?".

"Le sono riconoscente, maestro, veramente riconoscentissimo di volermi istruire, e la pregherò anzi di farlo un'altra volta. Ma le sembra che uno possa impancarsi da arbitro in una materia che conosce a mala pena e da poche ore e per sola teoria? Bisognerebbe essere troppo sfacciati".

Tali ad un dipresso furono le risposte degli altri maestri, cui lo Zen si rivolse. Il pover'uomo era già stato tre volte alla casa del maestro Chisiola; ma questi, un po' indisposto dopo la sera del concerto, non voleva assolutamente vedere nessuno. Non sapendo dove dar del capo s'avviò a gran passi verso la bottega dell'antiquario usuraio e soprano.

Le faccende dello Zen s'imbrogliavano. Ai quattrini suoi, quando ne aveva in tasca, ed a quelli degli altri che si faceva prestare, non attribuiva nessuna importanza; e stupiva nel vedere la gente affannarsi per guadagnare e per ammassare. Il suo stipendio di primo basso nella cappella di San Marco era sequestrato da parecchi mesi; gli azionisti della sua scuola gratuita gettavano appena, in un anno, un centinaio di svanziche, e dagli allievi, anche se gli avessero offerto danaro, non avrebbe accettato un soldo, ma veramente, invece di offrire, chiedevano, ed egli, se aveva, dava, o, mentre era al verde, li conduceva al bacaro a mangiare ed a bere, finché l'oste gli faceva credenza. Qualcosa beccava cantando nelle sagre, perché la sua voce rimbombante piaceva ai preti; qualcosa spilluzzicava correggendo bozze di stampa per una tipografia, componendo sonetti per nozze, per nascite, per ricuperata salute, per prima messa, per regresso di parroco, per l'applaudito quaresimalista come per la furoreggiante Tersicore, per il negoziante, che apriva bottega di vestiti fatti, come per il bottegaio, che aveva ricevuto un carico di baccalà. Un giorno gli viene in mente di pubblicare un giornale in dialetto per mettere in sempre maggior luce il setticlavio e dire al prossimo la verità: fortuna che in meno di un mese il foglio era bello e sotterrato. Un altro giorno annunzia su tutte le cantonate della città la Storia del canto dall'antichità fino ad oggi, raccoglie firme e quote di associati: l'opera rimane alla prima faccia della prefazione.

Scriveva più sciolto in versi che in prosa, ma il meglio era la poesia vernacola, in cui apparivano qua e là l'ironia sferzante, la canzonatura ridente dei migliori poeti veneziani; scriveva sempre alla bottega da caffè, in quella del sottoportico dei Dai, quasi seppellita dal ponte vicino, in quella sotto i portici di Rialto, accanto al mercato, ove, splendendo fuori il sole, ci si vedeva appena, ed i sensali, i venditori, i compratori in giacchetta od in maniche di camicia si bisticciavano insieme romorosamente, o rallegravano i contratti di bicchierini con indiavolato baccano. Nel bugigattolo, che portava il sonoro nome di Caffè della Gloria e che stava tra una bottega di straccivendolo e un botteghino del lotto, il calamaio era formato da una chicchera slabbrata priva di manico, nella quale lo Zen trovava l'ispirazione.

L'antiquario soprano stava contrattando con una donna pallida, mentre lo Zen entrava ansante nella bottega. Si trattava di una Vergine col Putto in braccio, alta due palmi, tutta in avorio, su cui si scoprivano le tracce di dorature e colori, e nello zoccolo si leggeva una epigrafe del trecento.

"Anni addietro" diceva la donna sommessamente, con gli occhi lagrimosi "anni addietro avrei potuto pigliarne cinque marenghi; e non volli, perché questa Madonna era tanto cara alla mia povera mamma, e, quando la pregavo, sorrideva anche a me; come sorride ora".

"Insomma, le vuole le quindici lire?".

"Almeno venti me ne dia".

"No" e l'antiquario si rivolse allo Zen, che s'impazientiva. La misera donna uscì; ma, dopo qualche minuto, ricomparve, e, posando la statuetta lentamente sopra una tavola ingombra di ciarpami d'ogni sorta, mormorò:

"Se la prenda: i bimbi m'aspettano con il pane".

Intascò il denaro e fece per andarsene; ma, trattenuta da un rimorso, tornò indietro, prese in mano la figuretta con delicatezza paurosa, accostando le labbra tremanti al viso soave in atto di baciarlo. Uscita finalmente dalla bottega si asciugava le lagrime, mentre correva dal fornaio.

"Oh, appunto, se non capitavi sarei venuto io a destarti" brontolò l'antiquario, guardando lo Zen; e gli domandò in tono brusco:

"Non pensi a pagare?".

"Ho altro per il capo io. Volevo chiederti un consiglio, perché sei uomo avveduto e so che, in fondo, mi vuoi bene. Leggi la 'Lira?'".

"Capisco. Ti sei accorto di avere fatto una delle tue solite bestialità, accettando la proposta del giudizio musicale, e vorresti rimediare".

"No davvero. Venivo a sentire da te un parere circa i due nomi di autorevoli maestri, cui potrei indirizzarmi".

"Quanti t'hanno detto di no fino ad ora?".

"Facciamo il conto" e pronunciava i nomi, e numerava sulle dita: "Sette".

"Puoi stare certo che per l'una ragione o per l'altra, col bel garbo o villanamente, tutti, in conclusione, ti risponderanno del pari. Smettila, smettila col tuo setticlavio".

"Intanto non potresti accettare tu?".

"Io? Sei matto. Ma lasciamo stare per ora queste baggianate. Intendi di pagare sì o no? Sono stato io la bestia di mettermi innanzi col proprietario della sala ove hai tenuto il famoso concerto, col fornitore delle seggiole, con quello delle lampade, e via via: una ottantina di svanziche".

"E non mi hai svergognato in faccia a tutti i nostri compagni della cappella, facendomi sequestrare lo stipendio? Paga con quello".

"Mi canzoni? Lo stipendio era già sequestrato più di mezzo; sicché, per riavere le somme, che ti prestai da amico troppo disinteressato, dovrò pazientare la bellezza di quasi due anni. Siamo vecchi, caro collega, e se non si perderà presto la vita, si perderà certo la voce. Begli affari ho fatto con te e con Mirate!".

"Pensiamo dunque a un rimedio".

"Hai nulla?".

"Nulla. Anzi fra una settimana rischio di farmi cacciare di casa, sequestrare i pochi mobili, e portar via il pianoforte e la musica. Che cosa sarà della mia povera scuola?".

"Mi avevi parlato, tempo fa, di una somma che certi tuoi conoscenti t'avevano spedito, non so da quale cittaduzza, per la stampa di una strenna, scritta da essi, e che dovrà uscire gli ultimi giorni dell'anno. Mancano ancora cinque mesi".

"Mi tempestano di lettere, aspettano ansiosamente di giorno in giorno le bozze, minacciano di venire a Venezia. Bisogna pure che io consegni il manoscritto al tipografo, e ritrovi il denaro già sfumato".

"E il pianoforte?".

"Non è mio, lo sai bene. Lo ho a nolo mensualmente".

"Sì, ma se tu trovassi da venderlo, non potresti continuare a pagar la mesata, finché ti riescisse di saldare al proprietario il prezzo totale dello strumento? Perderesti qualcosa, ma non si può avere nulla per nulla".

"E come farei senza pianoforte a insegnare il setticlavio?".

"Pigliane un altro a nolo, da un altro negoziante, s'intende".

"Di questi affari non capisco niente. Salvami la scuola: ti domando soltanto questo. Mi fido di te".

"Troverò io il compratore. Ad un patto però, che il mio nome non debba essere pronunciato in nessun caso. Me lo prometti?".

"Lo giuro" e lo Zen, dopo qualche altra parola, uscì con la testa alta, il passo snello, zufolando un'arietta allegra, come se avesse assicurato la scuola per l'eternità. Della "Lira" oramai si dava poco pensiero.
Era un caldo d'inferno: l'estate si sfogava. Mancavano due giorni alla sagra del Redentore, e già gli operai dell'arsenale stavano connettendo nel canale della Giudecca il lungo ponte di barche, il quale serve a congiungere, durante la solennità, le Zattere al tempio; già i più solleciti rivenduglioli e barcaiuoli cominciavano a piantare le baracche e ad addobbare i battelli.

Nella notte del Redentore, fra le scelte compagnie di cantori figurava da quattro anni la scuola dello Zen, che faceva sentire, oltre alcune barcarole e serenate delle opere teatrali, anche certi vecchi madrigali ed una canzone fresca fresca, scritta apposta da qualche giovine compositore veneziano. Era più di un mese che lo Zen esercitava gli allievi; ma la canzone nuova, una marinaresca a tre voci, che doveva far epoca, gli era stata consegnata allora, appena quarantott'ore prima di doverla eseguire. Il tenore, s'intende, era Mirate, cui anche premeva farsi sentire da un impresario spagnuolo, il quale faceva un giro in Italia a scritturare cantanti. La parte del basso, tutta a note di accordi e pedali, riesciva adattissima allo stesso Zen con le sue canne da organo ambulante. Quanto al soprano, per cui occorreva un usignuolo, tanti erano i trilli, i gruppetti, le volate, i gorgheggi, Carlottina Bianchi, anche se non fosse stata ammalata, sarebbe ad ogni modo apparsa insufficiente. Una unica virtuosa poteva trionfare in sì ardue difficoltà: la Nene. Solo a figurarsi il terzetto uscire dalle tre gole, il maestro Zen si sentiva venire l'acquolina alla bocca.

Senonché v'era un ostacolo grave, forse insormontabile: persuadere l'ombroso Chisiola a lasciar venire la nipote in barca, di notte, insieme con parecchi giovani, senza la vigilanza del nonno, che non avrebbe potuto reggere al disagio, e tutt'al più con l'accompagnatura della vecchia e miope donna di servizio. Lo Zen, consultato Mirate, nella fantasia del quale la fanciulla rimaneva, dalla sera del concerto in poi, impressa quale un bocconcino da principe, decise di non affrontare da sé la fortezza, mandando invece ad espugnarla l'alleata, perché non dubitava che Nene sarebbe entrata subito nella lega. Bastarono, infatti, poche parole dello Zen, dette in furia nell'entrata della casa.

"Lasci fare a me, maestro" esclamò la ragazza, e salì alla stanza del vecchio. Il vecchio non voleva; resisteva alle moine, alle preghiere; parlava della propria responsabilità; non si fidava della testa dello Zen e della oculatezza della fantesca; aveva piena fiducia nel senno della nipote, ma temeva lo scandalo.

"Si tratta di un'ora o due, nonno".

"Nemmeno dieci minuti".

Allora Nene diventò, di botto, tanto pallida che fin le labbra s'erano fatte livide, e ripeteva:

"Lasciami andare, nonno, lasciami andare".

Il vecchio, sgomentato dal nuovo tono minaccioso di quella voce, nella quale non aveva dianzi conosciuto altro che mansuetudine, e dal nuovo lampo iracondo di quegli occhi, in cui s'era assuefatto a leggere soltanto la dolcezza e l'affetto, chinò la testa, mormorando:

"Va' pure, e ricordati la tua santa madre".

La mattina del Redentore il vecchio volle vedere insieme lo Zen e Maria, la donna di servizio. Li tenne in camera quasi mezz'ora, ed uscirono entrambi commossi.

Mirate aveva voluto presiedere lui all'ornamento della barca, la quale sembrava una pergola galleggiante, dalla cui verdura scendevano lampioncini di vari colori e lunghe fettucce di carta rossa e turchina. I sedili erano coperti e rammorbiditi da vecchi cuscini stretti e lunghi di stoffa fiorita, la quale dai larghi strappi lasciava uscire l'imbottitura di stoppa. Già vi stavano seduti i cantanti, due suonatori di chitarra ed il compositore della marinaresca, un giovinetto biondo e sentimentale. Lo Zen non poteva rimanere fermo: a ogni momento s'alzava, facendo dondolare la barca, picchiava il capo in un palloncino, sfondava la volta fronzuta, pestava ora questo ora quello. I tre rematori durarono fatica a condurre nel rio stretto e curvo il grosso battello, il quale, mentre echeggiavano i rintocchi di mezzanotte, si fermò alla riva d'approdo, innanzi all'orto del Chisiola. Il vecchio non aveva voluto coricarsi: pareva rassegnato, anzi desiderò di accompagnare ancora una volta sul pianoforte la musica, che Nene doveva cantare e che ella, per non affaticar la voce, accennava appena.

Nene, incurvandosi, raccogliendo le vesti, mise il piedino sul trasto[1] e, ridendo, fece un salto nella barca, seguita dalla grave Maria, che dovette essere quasi alzata di peso. In pochi minuti furono nel Canale della Giudecca. All'uscire dal rio cupo e silenzioso apparve come uno spettacolo d'incendio. I fuochi di bengala rossi gettavano fiamme sui palazzi e sulle case delle Zattere, sui prospetti e sulle cupole dei templi, sul popolo infinito, che si pigiava nelle fondamenta, sugli alberi delle navi ancorate presso alla riva; e innumerevoli ombre d'uomini e di remi, gigantesche, interminabili, passavano rapide sulle facciate incandescenti, mentre il fumo denso saliva in un cielo profondamente scuro. Poi, spenti i fuochi, si riaccendevano le stelle in alto; e sulla laguna comparivano a miriadi i lumicini, che si inseguivano, si rincorrevano, e si specchiavano, oscillando, nei brevi spazi d'acqua lasciati liberi ora qua ora là. Poi ancora scoppiavano e crepitavano i razzi, ricominciava la pioggia di scintille, ripigliavano i fuochi di bengala bianchi e verdi, che facevano splendere ogni cosa di luce argentea, finché tornava l'inferno dei fuochi rossi con i demonii neri, di cui si scorgevano proiettati sulle pareti un braccio teso, una mano aperta, un profilo di testa, che occupava lo spazio d'una casa, due gambe a rovescio, che oltrepassavano il tetto, oppure degli intrecciamenti di masse informi e confuse come battaglie fantastiche; e quanto più il vivido lume si avvicinava alla figura, che mandava l'ombra, tanto più questa s'ingrandiva fino a diventar smisurata, ed allora, in un attimo, sfumava via per lasciare luogo alla incalzante ridda delle altre. Era una trasformazione sfolgoreggiante di forme, di tinte, di luci, in cui di quando in quando si apriva uno squarcio di tenebre tanto fitte, che si credeva di avere la repentina visione dell'infinito; e in mezzo a quella festa abbacinante ci si sentiva attratti a cercare con gli occhi in alto o in basso il mistero di coteste macchie nerissime.

Intanto nelle fondamenta delle Zattere e della Giudecca il passeggio della enorme folla era impedito dalle baracche e dalle tende, ove, vociando a più non posso, vendevano ogni sorta di roba, specialmente vino, liquori, gelati, aranci, frittelle, galani inzuccherati[2], e grandi mazzi di finocchio in seme. Il ponte di piatte[3] scricchiolava sotto i piedi dei passanti, che dovevano procedere lenti e fermarsi a ogni poco, tanta era la calca; scricchiolavano sull'acqua i battelli, le gondole, i sandoli, le barche d'ogni genere, che, non ostante alla maestria ed alle bestemmie dei rematori, si urtavano come se dovessero sconquassarsi. I ferri lucidi delle prore davano il cozzo nelle forcole[4], che in quella ressa non potevano più servire al loro uso; ed i remi o stavano inoperosi o giovavano a formare cuneo tra le bande delle barche vicine. In certi momenti si sarebbe potuto passare a piede asciutto dalle Zattere alla Giudecca su quel brulicame di piccoli navigli, che si muovevano tutti insieme, lentamente, maestosamente, a seconda dell'acqua in riflusso; in certi altri momenti si poteva credere di trovarsi nella frenesia degli abbordaggi, degli arrembaggi d'un combattimento navale. I barcaiuoli mostravano i pugni, si dimenavano furiosamente, minacciavano di saltare sopra le gondole per ammazzarsi: e tutto finiva in burletta quando il motto canzonatorio d'un compagno, gridato con accento buffo, faceva sbellicare dalle risa i popolani, i gondolieri e i contendenti medesimi. Nel tutt'insieme un baccano indiavolato, un pandemonio allegro e indescrivibile. Ma ecco principiano in un battello i canti: già gli accordi si odono dai più vicini, già si comincia a chiedere silenzio, già si tace, si ascolta, ed i suoni si diffondono in uno spazio via via maggiore, disturbati soltanto da qualcuno che grida zitto, e dai frastuoni lontani, fra i quali si distinguono le voci fesse dei rivenditori ambulanti.

Il gran trionfo fu per il concerto dello Zen e specialmente per la marinaresca a tre parti: i battimani non finivano più, si voleva il bis, si acclamavano i cantanti, si vociava: fuori il compositore, che, pallido e raggiante, dovette rizzarsi in punta di piedi sui dorso della poppa. Nene e Mirate, nella melodia patetica, la quale andava a successioni di seste, si stringevano forte le mani e si guardavano fissi negli occhi; lo Zen aveva mangiato la sua brava aringa salata. Esaurito il programma, Nene, verso le due, avrebbe desiderato di tornare a casa, tanto più che alla Maria minacciava un po' di mal di stomaco per cagione del dondolìo della barca; ma una occhiata di Mirate ed un invito dello Zen, ch'era stato accettato con entusiasmo da tutta la comitiva, vinsero facilmente la riluttanza della fanciulla.

Lo Zen dalla vendita del pianoforte non suo aveva cavato, per mezzo dell'amico antiquario, intorno a trecento svanziche, di cui un centinaio, poco più, era rimasto nelle sue proprie tasche. Gli pesavano. Veramente, durante il giorno, gli era corsa nella fantasia la fisima di pagare un qualche acconto dei molti debiti; ma quei buoni giovanotti avevano cantato tanto bene, dovevano avere la gola tanto arida, che il non offrir loro un po' di cena sarebbe parsa una crudeltà.

Andarono dunque tutti nel giardino Checchia alla Giudecca, meno la Maria che, non sentendosi bene, pregò di essere lasciata in barca, dopo avere con le lagrime agli occhi sollecitato la padroncina a sbrigarsi per timore che il povero nonno fosse sveglio e stesse in angustia.

Il giardino vastissimo era tutto a pergolati bassi, che formavano una serie di piccoli viali coperti, ove, intorno alle frequenti tavole lunghe e strette, stava un mondo di gente a cenare. L'illuminazione consisteva nei soliti fanaletti e lampioncini penzolanti e in candele circondate da cartocci di vari colori, per proteggerle dal ventolino, che rinfrescava ed esilarava dopo la soffocante giornata. Il canto e gli applausi avevano aguzzato l'appetito persino della fanciulla nei capelli rossi della quale l'auretta scherzava; e si lasciava fare nell'orecchio da Mirate, seduto al suo fianco, le più audaci dichiarazioni d'amore e sorrideva e sospirava e beveva il vino, che il tenore le versava spesso dal boccale panciuto, su cui stavano dipinte certe rose non meno pavonazze delle chiazze della tovaglia. Dopo il salame ed i polli arrosto capitarono le frittelle: i giovani cantanti mangiavano e nello stesso tempo guardavano i due innamorati, ghignando sotto i baffi e parlando tra loro ad alta voce in gergo furbesco; i chitarristi tacevano, divoravano e mettevano in saccoccia; lo Zen aveva afferrato il maestrino, autore della marinaresca, il quale era giunto a Venezia da pochi giorni raccomandato al maestro dai suoi amici scrittori della strenna, e gli stava snocciolando le virtù del setticlavio.

"Quale è la tonica nella chiave di Do?".

"Il Do".

"Mi canti una terza maggiore".

"Do Mi".

"Una minore".

"Re Fa".

"E la tonica nella chiave di Re?".

"Re".

"Niente affatto".

"Come?"

"È sempre il Do".

"Non intendo".

"Intenderà subito. Faccia il salto di terza".

"Re Fa".

"È una terza maggiore o minore?".

"Maggiore".

"Signor no".

"Ella stesso mi diceva dianzi ch'è minore".

"Minore nella chiave di Do e maggiore in quella di Re".

"E Do Mi?".

"Nella chiave di Re è minore".

"Oh confusione, oh babilonia! Sempre gli stessi nomi hanno da essere e sempre i medesimi intervalli. Stia a sentire" e il maestro continuava imperterrito il ragionamento, e si sgolava solfeggiando: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do.

Intanto Nene, che aveva le fiamme al viso, si era alzata, umida di sudore, e al braccio di Mirate, girando nei pergolati più tranquilli, s'allontanava. Uscirono dal cancello posteriore, che non metteva sulla via, ma in un campaccio disabitato. S'avanzarono nelle tenebre e nel silenzio sull'erba alta: Nene traballava. Il cielo s'era annuvolato; se non fossero stati i bagliori, che di quando in quando guizzavano sull'orizzonte, cielo e laguna si sarebbero confusi in una oscurità sepolcrale. I rumori distanti, i pallidi riverberi dei lumi oltre il muro di cinta facevano sembrare più cupa la nerezza e la taciturnità del luogo, ove non pareva più di essere accanto a Venezia, di vivere nella realtà di questo mondo. Un gatto si cacciò fra i piedi della fanciulla, scappando; ella cadde sull'erba.

"Hai paura?" le domandò il tenore.

"No" rispose Nene, e gli stese le braccia, perché la rialzasse.

Il vento, che fischiava, stava spegnendo le candele sui deschi, malgrado il riparo dei cartocci, e faceva scappar la gente, quando Nene, sul cui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso di prima, tornò alla tavola con Mirate. Lo Zen, sorseggiando l'ultimo mezzo boccale, continuava a disputare sul setticlavio; ma il maestrino, appena vide comparire i due giovani, colse la buona occasione per salutare in fretta e darsela a gambe. Gli altri se l'erano svignata prima, non senza una certa curiosità di sapere ove si fossero cacciati Giulietta e Romeo. Avevano anzi cercato, invano, di scovarli.

Il battello con i lumi tutti smorzati e il grande felze[5] di verdura e la Maria sopita e i barcaiuoli morti dal sonno, aveva un aspetto sinistro. Attraversò il canale della Giudecca fra poche barche piene di donne e d'uomini briachi, mentre scoppiava l'ultimo razzo e s'accendeva l'ultimo moccolo di fuoco di bengala. Passando sotto un ponte, nel rio stretto e buio, udirono un corpo cadere sui gradini e due persone, che s'erano fermate a guardare, dirsi fra loro:

"S'è rotto il capo: vedi quanto sangue".

"No, è vino. S'alzerà domattina".

Cominciava la pioggia a goccioloni. Nene aveva freddo e tremava.

In quel frattempo il nonno non trovava pace. Dacché Nene era montata in barca egli aveva ripetuto cento volte a se stesso: "Ho fatto quanto potevo. Che colpa ho io se la ragazza non somiglia a sua madre e a sua nonna? Da chi ha ella ereditato tanta disobbedienza, tanta ostinazione, tanta vanità, tanta smania per gli svaghi mondani? Potevo io chiuderla in un convento o serrarla in una prigione? Ho l'animo tranquillo, proprio tranquillo". E sentiva dentro una inquietudine, una impazienza, che non si ricordava di avere provato mai. Era andato a letto, aveva spento il lume, s'era rivoltato da tutte le parti: le materasse pungevano. Allora aveva preso la risoluzione di tornare a vestirsi; era sceso giù nell'orto. Tendeva le orecchie: le foglie stormivano.

Poi, traversata l'ortaglia sino alla riva e alzato il grosso saliscendi arrugginito, che mandò un acuto cigolío, aveva aperto. S'era appoggiato allo stipite: fissava l'acqua nera sotto i piedi. Si udivano a distanza i rumori della festa, le grida allegre; si vedevano i razzi, i riflessi dei fuochi. A poco a poco sui gradini bagnati e sdrucciolevoli i grossi topi ricominciarono le loro corse, senza curarsi del vecchio, il quale rimaneva immobile e assorto. Anzi un sorcione finì per tentare di rodergli le pantofole, ricamate da Nene. Allora il vecchio si riscosse, e rientrò, passo passo, in casa. Si pose a sedere innanzi al pianoforte e suonò, senza pensarci, alcune battute della marinaresca, le quali ancora gli ronzavano nelle orecchie; ma si interruppe tosto, seccato da quella musica scipita e triviale. Frattanto gli correvano nella mente certi ricordi della sua giovinezza: un amore profondo e calmo per la figliuola del suo maestro, finita etica di vent'anni, in memoria della quale aveva composto, la sera stessa della morte, una marcia funebre. Cercò di rammentarsela; provava, riprovava; i primi accordi non venivano, ma certi brani del canto sì; poi di nuovo s'annebbiava la seconda parte, svaniva la cadenza. Ma a forza di studiare, la marcia tornò tutta intera, tale e quale, nella memoria e sotto le dita del maestro, che ne provò una viva compiacenza, quasi una sensazione di gioia.

Una barca, che passava con gravi tonfi di remi e strepiti di gente avvinazzata, destò il vecchio dai cari sogni lontani; andò alla finestra; gli tornò la spina nel cuore. Guardava e, dopo un istante, riguardava l'orologio. Non si fidava della lancetta; contava sulle dita le ore e i quarti, quando suonavano e ribattevano al campanile vicino.

"E non torna!" ripeteva "Non torna! Non si rammenta più del suo povero nonno!".

Poi s'affaticava a ragionare:

"Le mie sono fisime da rimbambito. Che male c'è, in fondo, nel cantare e nel farsi sentire, nel desiderare un passatempo onesto, nel volere una qualche libertà dopo tanta soggezione? Può una ragazza starsene tappata in casa tutta la vita, perché manca di madre e di padre, e perché l'unico suo parente è un vecchio fastidioso e decrepito? La colpa è mia, che ho preteso troppo. Sono stato io l'egoista: non ho voluto scomodarmi, non ho saputo fare nessun sacrifizio. La giovinezza ha i suoi diritti, che la vecchiaia non deve calpestare. Altro è l'estate, altro l'inverno. Sarebbe bella ch'io me la pigliassi con l'estate perché fa caldo!".

Si gettò sul letto, vestito.

"Eppure" bisbigliava "sarebbe ora che tornasse. Quei giovinastri, quello scavezzacollo di Mirate, quella testa bislacca dello Zen non mi lasciano quieto".

Si alzò di nuovo; andò di nuovo al balcone, ove soffiava il vento fresco e umido, che agitava i suoi capelli candidi come aveva sconvolto quelli di Nene; guardò le nubi dense, illuminate dai repentini bagliori. Cominciava la piogga, minacciava il temporale; "Dio, Dio, che cosa succede di lei!" e stava per discendere ancora nell'orto in preda ad un'angoscia sempre crescente ed oramai insopportabile, quando udì la gran chiave nel portone della riva alzare il saliscendi. Respirò. Sentì la voce della nipote e ringraziò il cielo; ma chiuse in fretta la finestra e spense il lume. Non voleva che si indovinassero i suoi affanni.

La mattina seguente Nene si alzò mutata. Gli occhi parevano diventati più grandi e più infossati nella faccia smorta; ma il sorriso aveva ripreso tutta la sua dolcezza, e nelle sue maniere ricomparivano la modestia e la calma di qualche settimana addietro. Per il nonno non aveva mai mostrato tanta devozione, tanta sollecitudine. Tornò ai fiori, al lavoro, talvolta alla cucina. Dal suo animo s'era dileguata quella irrequietezza dell'amore ignoto, che la faceva diventare impetuosa e cattiva; tutto le si presentava sotto un aspetto diverso di prima: la vita acquistava uno scopo, e il vedersi tracciata innanzi un'unica via le metteva in petto una sicurezza, un riposo, ch'ella scambiava quasi con la felicità.

L'amante per lei era diventato un altro uomo; non che fossero scomparsi tutti i suoi difetti, bensì codesti difetti le si affacciavano come conseguenze od eccessi di qualità belle e forti. La passione, che la spingeva a lui, non riesciva meno intensa, meno infrenabile; solo assumeva una giustificazione nuova, una specie di nuova dignità e, quasi a dire, virtù. Oramai non pensava ad altro che al matrimonio, ma senza impazienza o sospetti; anzi non sentiva nemmeno il bisogno di parlarne a Mirate, quando egli, vogando da sé, giungeva con un leggero sandolo verso il tocco dopo la mezzanotte alla riva dell'orto, mentre il vecchio nonno e la serva dormivano. Nell'andare incontro al suo sposo Nene non provava nessun rimorso; scendeva le scale in punta di piedi, lentamente, origliando, apriva la pesante porta, la quale girava senza cigolare, dacché la prudenza aveva consigliato di ungere i cardini e il catenaccio, conduceva Mirate per mano nel chiosco circondato e coperto di rampicanti, e si metteva a sedere accanto a lui. Dopo un'ora o poco più, il giovinotto diceva addio e, memore del suo primo mestiere, balzava sulla poppa del sandolino e s'allontanava cantando.

Nene qualche volta lo aspettava invano, con il portone della riva socchiuso, con l'orecchio intento ad ogni lieve rumore, senza curarsi degli enormi topi, che di solito la facevano strillare di ribrezzo. Udiva suonare le due, le tre, le quattro; aspettava il crepuscolo quasi senza pensare, dominata dall'unico sentimento d'una speranza, che ad ogni minuto scemava.

Una notte, appena Mirate ebbe messo il piede sul gradino, gli disse:

"Devi farmi un piacere: conducimi a casa tua".

"Sei matta?".

"Per mezz'ora, per pochi minuti, tanto da conoscere il luogo ove dormi, e pensare meglio a te, quando non vieni".

"Pazzie. Se qualcuno ti vedesse!".

"Chi vuoi che mi veda a quest'ora, imbacuccata nello scialle?".

"La casa dove sto non ha riva: bisogna percorrere un buon tratto di Frezzeria. È un capriccio".

"Sia pure, ma è un capriccio innocente. Contentami".

"E poi se il maestro si sentisse male, se chiamasse".

"Insomma non mi vuoi condurre. Temi forse di comprometterti?".

Il tenore fece una risata, esclamando:

"Non c'è pericolo".

Nene ebbe un sussulto di gelosia, ma non disse nulla; solo insistette ancora più per andare, finché l'altro aderì. Entrata cautamente nel sandolino, si mise a sedere sul trasto di prora; e sebbene la barchetta snella ondeggiasse ad ogni movimento, quasi ad ogni colpo di remo, la donna innamorata non sentiva nessuna paura, e ripeteva con compiacenza al giovinotto:

"Come sei bravo!".

Nel percorrere invece al suo fianco un ramo della Frezzeria, ella si nascose con lo scialle la faccia, ch'era diventata rossa di vergogna.

La camera le piacque poco: tende annerite, pareti sudicie, biancheria e vestiti sossopra, puzzo di muschio, molti ritratti qua e là, persino sul comodino, di ballerine e d'altre femmine mezzo svestite. Nene avrebbe voluto andarsene subito, ma non ardiva; e nel guardare le correvano per la mente cento pensieri, che si riassumevano in questo rammarico: "Dio sa quante ne ha amate prima di me!"; poi si confortava, pensando come per mezzo dell'affetto e delle cure pazienti lo avrebbe reso migliore, come gli avrebbe creato intorno un nuovo mondo di gioie domestiche e pure, tali da fargli dimenticare il passato.

Cominciava l'alba quando Nene rientrò nell'orto e sali nella sua camera; un'alba nebbiosa, umida, piena di tristezza. Nel passare vicino alle piante del suo giardinetto la giovane donna aveva loro gettato uno sguardo: sembravano melanconiche anch'esse in quella scialba luce crepuscolare, e, invece di rizzarsi attendendo il bacio del primo raggio di sole, chinavano verso terra le foglie e i fiori. A letto Nene non poté chiudere occhio, tanto era contristata dalla sicurezza di non vedere l'amante per quattro interi, per quattro interminabili giorni. Glielo aveva detto lui dianzi nel darle l'ultimo abbraccio. Eppure ella non poteva negare che avesse ragione: doveva in queste sere andarsene a casa di buon'ora, tenersi riparato dall'aria della notte, curare la gola, se voleva presentarsi con tutta la freschezza della propria voce nella solenne messa delle esequie al Soldini, per la quale un celebrato maestro bolognese aveva scritto apposta la musica. Questi dirigeva le prove da più di due settimane, e aveva saputo destare la curiosità di tutti, così abbondavano i giornali ed anche i cantori ed i professori d'orchestra di strabocchevoli lodi. Uno dei pochi che, modestamente, ci trovasse a ridire era il maestro Chisiola, cui non piaceva nella casa di Dio e per onorare un morto quello sfoggio di canti teatrali, di cori strepitosi e di strumenti assordanti.

"Spezziamo le tradizioni della nostra gloriosa cappella!" diceva sospirando. Ma, appunto per questo, era un'ansia per la città, quanto se si fosse trattato di un'opera nuova del Verdi al teatro della Fenice: nelle botteghe da caffè, nei ritrovi, passeggiando su e giù in piazza di San Marco o sul Molo non si parlava d'altro. C'era come l'attesa di una rivoluzione musicale. Già il pubblico si divideva in progressisti e conservatori, in liberali e codini.

Ogni sotterfugio pareva buono pur di assistere alle prove; e chi non poteva ficcarsi nella gran sala del Ridotto, ove avevano luogo, si contentava di starsene nell'atrio o giù in calle, e, dopo finiti i pezzi, applaudivano freneticamente. Poco mancava che gridassero, come la notte del Redentore, fuori il maestro. Si sentivano zufolare, magari sotto le Procuratie e nei salotti aristocratici, i più spiccati motivi della messa; si sapeva quante arie, quanti duetti e terzetti, quanti cori formavano la partitura; si sapeva come Mirate, unica bella voce della cappella e vera colonna della messa, cantasse quasi dal principio alla fine; si sapeva come il maestro bolognese, dopo avere udito il primo basso, quel seccante maniaco di setticlavio, non l'avesse voluto a nessun patto, anzi avesse fatto venire dalla basilica di San Petronio un cantore stupendo, talché il disgraziato basso veneziano doveva sfogarsi nei pieni; si sapeva come vi fosse un coretto delizioso di voci bianche, eseguito dai bimbi dell'Orfanotrofio, ai quali insegnava il Chisiola, quel vecchio, che ha quella tal nipote bruttina, amante di quella buona lana del tenore, i quali se ne vanno insieme di notte con tanto scandalo per le vie della città, ed il vecchio, che sembra un santarello, vede e chiude gli occhi. Non s'ignorava inoltre che il maestrone aveva lasciato fuori la solita fuga, con viva soddisfazione dei più, che la dichiaravano un vecchiume da parrucconi, e con sommo sdegno dei meno, i quali borbottavano:

"Allora addio musica religiosa, tanto conta di far ballare la gente anche in chiesa; ma la fuga, se non l'ha fatta, vuol dire che non ha saputo farla: è una bestia".

Insomma ci fu qualcuno, che la notte precedente al grande avvenimento non andò a dormire, per essere ben sicuro di trovarsi davanti alle porte della basilica nell'ora in cui le aprono, e assicurarsi un buon posto. Prima delle otto la chiesa era piena; alle nove non si poteva entrare nemmeno nelle gallerie superiori; la messa doveva principiare alle dieci e mezzo. Sagrestani e scaccini, fendendo faticosamente la folla a forza di gomitate, andavano qua e là per i loro servizi: si udiva un continuo strepito di scranne e di panche, un continuo bisbiglio, che talvolta diventava frastuono, ripercosso dalle maestose vòlte del tempio. Nella nave di mezzo si alzava il catafalco, una specie di tempio romano, tutto ornato di velluto nero con frangie d'argento e di figure allegoriche, tutto circondato d'innumerevoli ceri accesi. Ai lati stavano dall'una parte i vecchioni dell'Ospizio di Carità, i più rubizzi, dall'altra le vecchie, le più floride, in segno di riconoscenza al defunto per il pingue legato: curiosa serie di profili allineati, in cui dominava la bazza.

Nene era giunta in tempo di pigliare il suo posto consueto nella cappella di San Clemente, di fianco al presbiterio vuoto, ove si alzava, sopra la cattedra patriarcale, l'ampio baldacchino di seta bianca a larghi fiorami d'oro. Il cuore le batteva forte, pensando al tenore, che doveva comparire tra poco innanzi al giudizio di tanto pubblico; e guardava con febbrile impazienza alla cantoria ancora deserta. Poi, fantasticando, girava gli occhi ora sulla fila dei bruni apostoli, ora sull'angelo dorato, che minacciava di precipitare dalla sua mensola, ora sulle gaie signore corteggiate nelle tribune. Gli scintillamenti dei musaici d'oro finirono per produrle un grave assopimento, durante il quale scendeva, come in un sogno, nel fondo del proprio essere. Allora uno sgomento misterioso, una vergogna immensa la invadevano. Tentava di distrarsi, contemplando in alto le storie dell'arcone, la Vergine con l'angelo annunziatore, il Bambino adorato dai Magi, e mormorava:

"Dio voglia!".

Alzava lo sguardo ancora più, fino ai simboli bizantini degli evangelisti nei sostegni della cupola. Il leone aveva l'artiglio somigliante a una mano, a una mano che volesse frugare nella coscienza; aveva il muso in forma di grugno da vecchia megera barbuta. E la orribile strega continuava a fissare, bieca, minacciosa, le occhiaie vuote e nere nel volto impaurito di Nene.

Circa alle dieci entrarono pomposamente nel presbiterio i canonici, e si posero a sedere nei loro stalli. Un faccione tondo e ridente comparve al parapetto della cantoria: era quello dell'organista. Seguì un corista zoppo, che aveva in custodia la musica e disponeva sui leggii le parti. Vennero in seguito uno ad uno gli altri quaranta cantori, tutti in cotta bianca, fra cui il soprano, più sparuto del solito, il Chisiola, accompagnato dai bimbi dell'Orfanotrofio, lo Zen, che non s'era fatto la barba e aveva il viso stralunato, proprio da funerale. Il nuovo basso bolognese, piantati i gomiti sul parapetto, cacciava in fuori il busto quanto più poteva, per esaminare l'uditorio ed essere veduto bene: insieme molti se lo mostravano a dito. Andò accanto al maestro di cappella, appena questi fu entrato. Tutti presero il loro posto, aggruppandosi fra i tenori, soprani, baritoni e bassi. Non si vedeva ancora la testa baldanzosa di Mirate, al proposito del quale alcuni ponevano a se stessi questo arduo quesito: "La metterà la cotta quest'oggi, o non la metterà?".

Frattanto nell'altra cantoria, quella dell'orchestra, la quale stava sopra la cappella di San Clemente e non poteva quindi essere veduta da Nene, continuava il pestar dei piedi sui gradini di legno, con qualche tonfo e vivi chiacchiericci dei professori, che andavano al loro posto, portando il proprio strumento. Indi, acconciatisi a sedere, diedero dentro nelle accordature, da prima sommessamente con gli archi, di poi fastidiosamente persino con i corni e i tromboni, sicché uno zitto non faceva cessare la babele, che poco dopo ricominciava. Doveva essersi fatto innanzi il celebre maestro, impaziente di dirigere la propria creazione, perché tutti guardavano da quella parte, molti rizzandosi sulla punta dei piedi e puntando il binocolo da teatro. L'agitazione cresceva; erano pochi quelli che non cavassero dal taschino a ogni tratto l'orologio:

"Dieci e mezzo precise".

"No, mancano sei minuti".

"Quattro".

"Dieci".

"Due".

"Sono passate".

Quando il maestro compositore diede il primo segnale, picchiando forte sul leggìo, si fece tale un silenzio, che si sarebbe sentito ronzare una zanzara; ma il maestro di cappella, dalla cantoria di rimpetto, si sbracciava nel fare segno di attendere.

Era già' comparso dalla porta della sagrestia, preceduto e seguito da una quantità di chierici e accoliti, il venerando patriarca, tenuto in mezzo dai due canonici mitrati. Le alte mitre d'argento, gli splendidi piviali attrassero per un istante la curiosità della folla.

Eppure fra le due cantorie non cessavano i segnali. Il maestro di cappella, con aria molto agitata, aveva lasciato il suo posto e dava ordini, consultandosi con lo Zen, col Chisiola, con altri; correvano giù dalle scale erte alquanti coristi, gettando via la cotta, e uscivano a precipizio dalla basilica. Nene, immobile, con gli occhi fissi alla cantoria, pareva una morta in piedi. Nel presbiterio non si raccapezzavano; davano delle rapide occhiate in su; si scambiavano qualche parola sotto voce, senza mostrar di perdere la calma sacerdotale. Bensì il popolo s'impazientiva, né gli importava di dissimularlo: era un ciarlare generale, un chiedersi a vicenda:

"Oh, che cosa succede?".

"Sia venuto male a qualcuno".

"Forse al patriarca".

"Pare di no. La confusione è nelle cantorie. Guardi lì a sinistra, non sanno a che santo votarsi".

"Certo, è stato un colpo d'accidente".

"A chi?".

"Al maestro, forse".

"Al maestro un colpo d'accidente".

"Un colpo apoplettico al maestro".

"Morto?".

"Poveretto, era ancora giovine!".

"Quanti anni poteva avere?".

"Intorno alla sessantina".

"Li portava bene; ma veda, è lui al parapetto, che si dimena".

"È proprio lui: chi sarà dunque il morto?".

"Dicono un incendio".

"Dove?".

"Nell'organo".

"È impossibile: non c'è indizio di fumo".

"Sarà sui tetti".

"Sarà nelle cupole".

"Senta, senta: lo scaccino annunzia che non si trova il tenore, e che senza di lui non si può eseguire la messa".

"Mirate è scappato".

"È fuggito Mirate".

"Scappato solo?".

"Con una donna, probabilmente".

"Ha preso il volo coll'amante".

"Allora la nipote del maestro Chisiola".

"La conosce lei?".

"La ho sentita cantare".

"È bella?".

"Così così".

"Altro che amori! È Scappato per debiti".

"Si può dire che ne avesse piantati dei chiodi".

"Buona lana!".

"Mariolo, farci marcire quattro ore in chiesa con questo sugo!".

"Ehi, ehi, signor sagrestano, è vero che è scappato Mirate?".

"È vero che non si trova il tenore. Ci hanno mandati a quietare la gente, e a riferire che si canterà una messa del Furlanetto".

"Roba vecchia".

"Roba noiosa".

"Abbiano pazienza, signori, abbiano pazienza".

E i sacrestani e gli scaccini s'affaticavano a girar da per tutto, ripetendo le stesse parole. Il pubblico aveva pigliato la cosa in burletta. Ridevano, scherzavano e, a poco a poco, alla spicciolata uscivano dalla chiesa, formando capannelli in piazza di San Marco e sotto le Procuratie. Quando poté principiare la messa a voci sole, la cantoria dell'orchestra era tutta sgomberata, nelle tribune e nelle logge non rimaneva un'anima, e le navi e le cappelle erano quasi deserte. Solo ai fianchi dell'enorme catafalco, biascicavano e sbadigliavano per l'appetito e per la noia i vecchi e le vecchie dell'Ospizio di Carità.

Se il soprano avesse dovuto cantare nella messa del Furlanetto, scritta solo per tenori e bassi, non avrebbe potuto far uscire una nota dal gorgozzule, così l'improvviso terrore di perdere i suoi quattrini gli otturava la strozza. Non sapeva quasi più respirare: era diventato addirittura verde. Non di meno andò a precipizio in Frezzeria dalla donna, che appigionava la camera a Mirate, e ch'era stata allora allora interrogata da quel corista, il quale per primo aveva recato in chiesa la grande novella.

"È scappato?" domandò ansando.

"Scappato, un corno. È partito col suo bravo passaporto in pienissima regola, pagandomi sino all'ultimo soldo, anzi dandomi un mese di soprappiù".

"E quando è partito?".

"Ier l'altro verso le quattro".

"Subito dopo l'ultima prova, brigante! E come mai ieri, allorché venni qui, mi rispondeste che non era in casa?".

"Che non fosse in casa era la verità. Ma poi m'aveva pregata di non dir nulla della sua partenza fino alle undici di stamane, temendo di essere rincorso da certe gonnelle".

"Gonnelle, sì davvero! Ditemi ancora: se ne andò solo, o in compagnia di un tale, che parlava forestiero?".

"Non faccio mica la spia io. Vada ad informarsi dove vuole, ché mi pare di avere ciarlato anche troppo" e gli serrò l'uscio in faccia.

Il soprano corse all'osteria del Selvatico, al bacaro della Biondina, al Caffê dei Segretari, a quello di San Luca, frequentato da cantanti ed attori e conosciuto col nome di Caffè chiodi, poi dal famigerato parrucchiere, che prestava quattrini agli avventori, dal sarto, dal tabaccaio, da una certa signora Giulia: insomma in ogni luogo dove Mirate era consueto di andare. Racimolò tante informazioni quante bastarono a renderlo persuaso che il tenore si fosse diretto verso la Spagna o il Portogallo, insieme con l'impresario spagnuolo, il quale fra due brevi fermate a Venezia aveva girato mezza Europa per comporre tre o quattro compagnie di canto e di ballo da trasportare nella penisola Iberica. Sfogandosi nel ripetere: "Truffatore, dissanguatore, ladro, assassino" l'ingannato soprano passò dalla propria bottega d'antiquario a prendere nello scrigno i documenti comprovanti il debito di Mirate, e, postili gelosamente nella tasca spaziosa ed unta del vecchio soprabito, si recò alla Direzione generale di Polizia. Il Direttore, un austriaco magro stecchito e piccolo, con le fedine tinte di color biondo e gli occhiali a grossi cerchi d'oro, accolse il soprano assai male, senza neppure invitarlo a sedere. Quando ebbe udito di che cosa si trattava, disse, asciutto asciutto, col suo accento tedesco queste poche parole:

"So da un pezzo ch'ella è uno strozzino. La Polizia non farà niente per lei. Vada".

Il Governatore non volle nemmeno riceverlo.

Allora pensò agli alleati, e risolvette di parlare innanzi tutto con la Nene, ragionando così:

"O Mirate è partito in buon accordo con lei, e scoprirò qualcosa; o è andato via abbandonandola, ed ella diventerà la mia più fiera compagna nel domandare che venga costretto a mantenere i suoi impegni".

Non mise tempo in mezzo; scorsi pochi minuti suonava alla casa del maestro Chisiola. Il vecchio, ch'era rincasato in quel punto, andò egli stesso ad aprire, e s'infastidì un poco vedendo il soprano, per il quale aveva sempre provato una invincibile contrarietà. Dopo i saluti, assai freddi dall'una parte, assai impacciati dall'altra, il soprano, che non sapeva come principiare, disse:

"Dunque è scappato".

"Chi?".

"Mirate".

"Ah, non ci pensavo più. Sarebbe stata una scena comica, se non fosse successa in chiesa e se non fosse andata a scapito della musica, sebbene, in verità, quella musica abbia poco del religioso".

Il soprano rimase sconcertato di contro a tanta indifferenza, pure insinuò:

"Avrei creduto, maestro, che la scomparsa del tenore le avesse fatto maggiore impressione".

"A me? Con i matti non ci son patti, insegna il proverbio. La cappella non poteva contare su quella testa sconclusionata; e poi si può dire che io da oggi non appartenga più alla cappella, come non appartengo alla scuola dell'Orfanotrofio. Era tempo, con i miei ottant'anni passati, di lasciar posto ai giovani" ed il maestro sorrideva bonariamente; ma, seccato dalla presenza dell'usuraio, continuò:

"È un gran pezzo che non ho il piacere di vederla in mia casa. A che cosa posso attribuire il bene della sua visita?".

L'altro, confuso e con la propria idea fissa nel capo, balbettò:

"Ero venuto, passando, a informarmi della salute della signorina Nene".

"Non è mai stata malata, Dio piacendo".

"Pure mi sembrava stamane..".

"Le sembrava?".

"Mi sembrava così pallida, ella che per solito è tanto colorita; e aveva gli occhi stravolti".

"Quando?".

"In chiesa".

"Avrà avuto paura, non conoscendo la cagione del trambusto".

"Io credevo anzi che si sentisse male, perché conoscesse la causa del disordine, o la immaginasse".

A queste parole il vecchio si rammentò di un fatto, cui aveva dato poca importanza: la domanda della mano di Nene da parte di Mirate, a istigazione dell'usuraio. Guardò in faccia il soprano, esclamando:

"Che cosa intende ella di dire?".

"Io, niente di male. Quello che dicono tutti".

Il Chisiola, senza proferire parola, aprì con mano tremante la porta di strada, facendo segno all'altro che uscisse, e gli sbatté l'imposta dietro le spalle.

"Ov'è Nene?" domandò alla serva.

"Credo che sia in fondo all'orto" rispose la Maria dalla cucina, continuando a tritare le cipolle per il soffritto.

Il vecchio andò sino al piccolo spazio destinato a giardino, girò il frutteto, entrò nel chiosco: non c'era nessuno. Vide il portone della riva socchiuso. Nene stava al di fuori, sui gradini, guardando l'acqua verde, che le scorreva ai piedi. Singhiozzava, senza piangere; aveva sul volto i segni della disperazione: un terribile desiderio la invadeva tutta. Appena vide il vecchio scoppiò in pianto dirotto e gli si gettò alle ginocchia, ripetendo con voce strozzata:

"Ti ho disonorato, nonno. Ho disonorato la memoria della mia povera mamma. Sono una donna infame. Lasciami morire"

Per cinque giorni lo Zen aveva continuato a presentarsi alla casa del suo maestro, supplicandolo di essere ricevuto; ma il vecchio aveva dato ordine alla Maria di rispondergli che non voleva assolutamente veder nessuno. Lo Zen s'informava della malattia di Nene, tornava dopo qualche ora, e se ne andava di nuovo con l'animo pieno di afflizione. Non aveva più né pianoforte, né scuola, né casa, né un soldo in tasca; gli allievi lo scansavano, gli amici lo sfuggivano; viveva rintanato nel Caffè della Gloria, scrivendo il suo Trattato sul setticlavio, e mangiando quel poco che gli era offerto spontaneamente dagli avventori. Improvvisava talvolta per l'uno o per l'altro un sonetto od un epigramma, acconciava una lettera, rivedeva un contratto: era diventato lo scrivano dei Portici di Rialto. Aiutava anche a mettere un po' di nero sul bianco l'amico Toni, l'usciere del vicino tribunale.

Finalmente il sesto giorno la Maria scese ad aprire, dicendogli:

"Il padrone la prega di salire. Faccia piano. Nene da pochi minuti è assopita; ma non c'è da lusingarsi. Il dottore dice che può mancare da un momento all'altro: la poverina ha una febbre che le brucia le viscere, e delira, delira quasi sempre. Il padrone s'illude. Meglio per lui".

Le lagrime rigavano il volto della Maria, mentre parlava sommessa, e faceva segno allo Zen quasi ad ogni scalino di non strisciare coi piedi. Tornò al letto della malata.

Il maestro Chisiola, pigliato per mano il suo vecchio discepolo, lo condusse lentamente nella stanza più lontana dalla camera di Nene, e lo fece sedere. Egli stesso pareva affranto: cadde sopra una poltrona.

"Quando si è tanto vicini alla fossa, come sono io, non si ha diritto di serbare rancori" e pronunciava le parole a stento, interrompendosi spesso. Mormorò: "Ti perdono" ma, vedendo che lo Zen non intendeva, soggiunse:

"Lo so, la colpa fu mia, che mi fidai di te e d'una serva, e sopra tutto d'una innocente, inesperta nelle passioni e negli inganni umani".

Gli parve di sentire un rumore; si trascinò nella camera di Nene, e poco dopo rientrò, dicendo:

"Delira. Sono cinque giorni che delira quasi continuamente. Parla ogni tanto della notte del Redentore. Crede di essere ingoiata in certe macchie nere, orribili della laguna e del cielo; sente passarle un gatto bianco fra le gambe, e precipita in un baratro senza fondo, e continua a travolgersi nella caduta, che non finisce mai; le corrono sul corpo dei topi immani, le rosicchiano le membra, le rodono le viscere, le dilaniano il cuore. Altre cose aggiunge, pur troppo!" e il vecchio si nascondeva la faccia con le due mani.

"Dio voglia che guarisca presto; altrimenti non troverà più il suo nonno su questa terra!".

Fece uno sforzo sopra di sé per mutare discorso:

"Parliamo di te, amico mio. Come vanno le tue faccende?".

"Bene, maestro" rispose lo Zen, mentendo per non dare fastidio con i propri guai al vecchio infelice; anzi, volendo distrarlo, continuò:

"Tanto bene, che ho ricevuto da Milano l'offerta di un posto di duemila svanziche l'anno, e l'ho rifiutato".

"Non vorrei che tu avessi fatto una corbelleria".

"No, maestro; ella stesso mi approverà, non ne dubito, quando avrà udito di che cosa si tratta. Ho qui in tasca la lettera del direttore del Conservatorio di musica".

Levò da un grosso portafogli lacero una carta, e la porse al Chisiola. Il direttore gli scriveva che, avendolo conosciuto anni addietro a Venezia, serbava per lui una vivissima stima, e lo sollecitava ad accettare la cattedra di Lettura della musica, ad un patto però, al patto di seguire il metodo comune, non quello del setticlavio.

"Capperi!" esclamò il Chisiola. "Una bella fortuna, sai, e la meriti. Come hai risposto?".

"Me lo domanda, maestro! Io rinnegare una verità matematica per abbracciare l'errore; io abbandonare un metodo, che insegna a leggere in pochi mesi, per un inganno, che lascia lo scolaro orecchiante tutta la vita! Piuttosto morire di fame cento volte che commettere una simile ribalderia, una così vile bassezza. Ho risposto per le rime a quello sfacciato di direttore".

Il Chisiola guardò con ammirazione e con pietà quel martire della propria convinzione, il quale dalla faccia e dagli abiti rivelava la sua triste miseria. Gli pose la mano sulla spalla in atto affettuoso, mentre usciva per vedere di Nene. Nene aveva un momento di quiete. Il vecchio tornò a sedere nella poltrona e, con la fronte un poco rasserenata, disse:

"Perché non sei venuto a parlarmi di tutto ciò prima di rispondere al direttore? Forse avrei potuto persuaderti. Chi sa? C'è ancora tempo".

"Tempo a che cosa? A diventare un rinnegato?".

"Adagio, adagio. Non esageriamo. Te lo insegnai io il setticlavio più di quarant'anni or sono, ed ho continuato a insegnarlo ai miei orfani sino a pochi giorni fa; ma non ignori che avevo diviso i fanciulli in due schiere per ammaestrare l'una col setticlavio, l'altra, più numerosa, col metodo comune. Non bisogna volere essere ciechi. Noi siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Furlanetto, e che è stata abbandonata anche qui da vent'anni, a dir poco. Perché si deve credere che nella musica il mondo sia imbecillito, che nessuno capisca più nulla?".

"Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la stanza di Nene.

"Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea, un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione dell'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il setticlavio. È vero o non è vero?".

"Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro".

"Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi stanno belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di pianoforte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato direttamente da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve imporre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo tirava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata.

"E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto, poiché 'più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed abiette condizioni'. È scritto proprio così. Ora, come si possono mai rialzare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?".

"Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'intende altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia".

Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuoterlo in quel momento di distrazione e di calma.

"È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio.

"Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio.

"Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigoletto..".

"Ha corrotto il canto".

"Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo impulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dolce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticlavio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'altro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione.

"Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!".

Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi.

Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria. A un tavolino quattro sensali giuocavano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò:

"Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribunale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro".

Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale continuò:

"Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento".

Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando:

"Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galantuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove diavolo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?".

"Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa.

"E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!".

Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era trovato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alzarono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'osservazione.

Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia passione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli facevano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli davano un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si. Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e negli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uomo più felice di lui.

 



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