Ormai è vicina la Terra di Lavoro,
qualche branco di bufale, qualche
mucchio di case tra piante di pomidoro,
èdere e povere palanche.
Ogni tanto un fiumicello, a pelo
del terreno, appare tra le branche
degli olmi carichi di viti, nero
come uno scolo. Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore
a dolore - senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l'anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente.
Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d'una vita d'agnellino, e la trastulla
- se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove -
con parole stanche come il mondo.
Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d'esser morta;
si stringe dentro le sue povere
vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.
Poi, riprendendo a cullare, cieca, sorda,
senza neanche accorgersi, sospira.
Col piccolo viso scuro come torba,
in un muto odore di ovile,
un giovane è accanto al finestrino,
nemico, quasi non osando aprire
la porta, dare noia al vicino.
Guarda fisso la montagna, il cielo,
le mani in tasca, il basco di malandrino
sull'occhio: non vede il forestiero,
non vede niente, il colletto rialzato
per freddo, o per infido mistero
di delinquente, di cane abbando