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Racconti autobiografici

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La mia cameretta

Quei giorni non volevano finire, scorrevano piano, sembravano come quando fiocca la neve.
Il silenzio riempiva la stanza. Mi guardavo intorno incuoriosita dal tic tac dell'orologio, lo guardavo, lo ascoltavo...
-tic tac tic tac -
Odiavo e amavo oziare, il tormento dell'amore e delle difficolta' mi bloccavano il respiro, passavano i giorni... drogata di solitudine, di niente, annegavo i miei 17 anni in grandi scorpacciate di nutella. I miei fratelli mi osservavano lontani, sempre con occhi d'amore, i due grandi presi anche loro dalla nostra difficile vita familiare, il piccolo era talmente allegro di suo, che tutto gli sorrideva; meraviglioso bambino! Senza i miei fratelli sarei stata persa!
Nella scrivania della mia camera libri di ogni genere brillavano nell'attesa di essere sfogliati...
Herman Hesse mi catapulto' nel sorriso del sole, così incominciai a leggere.
La scuola mi stava stretta, ma i libri di filosofia, saggi, romanzi, incominciai a divorarli. Avevo sete di risposte, avevo voglia di camminare sopra le nuvole... avevo il mare dentro, un oceano di emozioni da liberare nel vento!
Il mio viso aveva occhi malinconici, ma solo nella mia cameretta, dove lo specchio vedeva la mia vera essenza, fatta di sapori allegri, di dolori, ma colorata dalla mia voglia di vivere la vita al meglio, dove cercavo di essere felice!
Quando i miei numerosi amici venivano a prendermi, la mia anima allegra usciva di casa, mi divertivo con loro, dicevano che ero buffa. Se ci ripenso avevano ragione, mi vestivo spesso di nero però, mica a fiori!!!... smagrava, ed io la fissa dei chili l'ho sempre avuta! magari adesso avessi la linea di allora!
Con loro la vita prendeva i colori dell'arcobaleno, ma la mia cameretta, soltanto lei ha conosciuto le mie lacrime di una vita, che avrei voluto diversa!

   8 commenti     di: karen tognini


7 dicembre

.. il senso di ogni cosa è che ogni cosa ha un senso. dove per senso, si intende significato. la bellezza di ogni cosa è che ognuno è libero di scegliersi i suoi significati.
il valore di ogni cosa è che ogni cosa ha più significati. la pioggia, per esempio, è solo acqua, in sè.
e l'acqua è il principio della vita.. quando non decide di affogarla. ma lo fa piano, senza cattiveria. ogni giorno un poco. così che ognuno si faccia malinconico. ma non disperato.
e creda ancora all'esistenza dellke terre emerse.
.. ci vuole arte...



Buona Pasqua

strano...
piu' si diventa grandi e più si apprezzano le fiabe
c'era una volta...
mi infilo gli occhiali e comincio a raccontare...
caro pc almeno tu mi puoi ascoltare quando ti trasformi in piano e le mani danzano su questa tastiera vicino... lontano
abitavo in un paese e prendere la corriera per arrivare a pesaro alla standa era gia' una festa
mi ricordo l'attesa... il viaggio... l'arrivo la citta' che al cospetto del paese sembrava cosi' grande... il traffico i rumori la gente
i colori dentro le vetrine del centro e le carte stagnole delle uova in fila nel supermercato
ma c'era sempre qualcosa di più importante da comperare il pane le scarpe i vestiti
-la prima barbie l'ho avuta a trent'anni con mia figlia che neanche le piaceva...-
e poi si ritornava a casa con quella musica nel cuore l'attesa
e il mattino di pasqua sorpresa!
arrivava la nonna da pesaro con le uova della standa...
e dopo pranzo si rompeva il guscio dentro il quale navigavano i sogni e la fantasia...
io sceglievo l'uovo che suonava di piu'... si sbatteva prima... un po' di delusione... affogata nel fondente del cioccolato... ancora quello al latte nelle uova non l'avevano inventato...
oggi hanno inventato di tutto... e le sorprese sono davvero grandi...
e che oggi forse la vera sorpresa o la vera delusione è non avere sorprese...
ma i bambini non hanno più tempo per le fiabe... e la fantasia allora... fugge via
qui finisce la favola vita mia

Buona Pasqua ancora amico virtuale e scusami... se parlo troppo
se parlo forte se grido piano... vicino... lontano...

   6 commenti     di: laura marchetti


La missiva inquietante

La missiva inquietante


E che significa... parere negativo? Devo affliggermi o rallegrarmi? Non vorrei sbagliarmi, perciò mi trattengo da qualsiasi emozione. Si tratta di una lusinga o di una minaccia? Di questi tempi non si è più sicuri di niente, e succede di non poter distinguere un accidenti da un poffarbacco, così, come niente fosse...
Per esempio, il fatto che il tuo parere negativo piomba qui, mentre ho appena appreso che vi sono negativi di cui essere contenti e positivi su cui versare calde lacrime, così come mi hanno assicurato, mi sconcerta non poco. È che il tuo ha un aspetto leggermente freddino, poco rassicurante, emana un vago sentore di afflizioni nascoste. In più non se ne può chiedere ragione a nessuno. Mi vedo costretta a scrivere. Nonostante avessi promesso di non farlo più.
Oh, è terribile! Ho la pasta e patate sul fuoco. Odio la pasta e patate, l'ho sempre odiata e la odierò sempre. Come i vicini di casa turbolenti e la cotognata. Perché la sto cucinando, allora? Semplice, perché oggi abbiamo in casa la pasta e le patate. E poi, è venerdì. Giorno di magra, di penitenza. Mi è sembrata una buona idea approfittarne per espiare un po' delle mie negligenze. Soprattutto nello scrivere. Ma, eccomi di nuovo a peccare. Come nulla fosse.
Dimmi un po', qual è la proposta partorita dalle mie meningi che non può trovare accoglimento? Accoglimento! Che bella parola. Sa di tepore, di coccole e di casa. "e il discepolo accolse Maria nella sua casa"... Che bellezza! Altri tempi!
Davvero non posso crederci... non sarà mica che mi hai arronzato? Nella mia lingua vuol dire : affrettato e sbrigativo" alias : " a 'morte e' subito"... E chi s'è visto s'è visto. Oh, povera me, non ho mai capito un cacchio e continuo a non capirlo. Non voglio farmi capace d'aver a che fare con un mondo illuminato dai fuochi delle guerre, dal sesso virtuale e dai piagnistei... E io? Al massimo potrei tentare una ricognizione in solitario per vedere se c'è

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Primo giorno d'asilo

Non era proprio il primo giorno, quanto il mio primo giorno in quell'asilo, che allora si chiamavano così, mica scuola materne. Ed ero comunque già schifato del genere: credo di aver pianto ogni volta che mia madre, sul sellino attaccato al manubrio della sua bicicletta, mi ci accompagnava.

Nonostante l'età, meno di tre anni o giù di lì, ricordo benissimo che cominciavo a piangere già quando vedevo anche solo la strada che mi ci portava. E urlavo come un'aquila perché non ci volevo proprio andare! Volevo disperatamente che lei prendesse almeno tempo. Allora lei, che lo sapeva, arrivata davanti all'asilo, tirava dritto e mi portava con sé dal fruttivendolo e dal panettiere.

Passavo allora momenti veramente felici di cui ancora serbo, grato, il ricordo e un'evidente predilezione per questi due tipi di negozi, che mi spiace proprio stiano oggi ormai scomparendo in favore di grandi megastore alimentari che non sono proprio la stessa cosa.

Poi però lei tornava verso l'asilo ed io ricominciavo a piangere ma con meno lena, come un condannato che sappia ormai che ogni resistenza è inutile e si rassegni. Arrivati, entravamo e lei mi salutava. E io mi divertivo.

Poi, un giorno, cambiammo zona ed anche asilo, ma ormai ero già un po' grande e non piangevo più. Però ricordo benissimo quel giorno per un altro motivo.

Quando mia madre mi lasciò alla suora, questa mi accompagnò in una sala che mi parve allora grandissima, piena zeppa di bambini che urlavano, giocavano e litigavano, come tutti i bambini del mondo. E li mi lasciò.

Io cominciai a guardarmi intorno circospetto e tuttavia curioso, e puntai verso il fondo della grande sala, dove, tra la selva di gambe, braccia e teste in movimento, vedevo alcuni bambini che giravano con macchinine a pedali. Erano poche, due tre forse, non di più, e non mi sognavo neanche di provare a salirci sopra.

Stavo semplicemente lì, incantato a guardare come si divertissero quei bimbi che già ci stava

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   3 commenti     di: mauri huis


La persistenza della memoria

vi era, nella mia casa di fanciulla, un quadro, lungo, sgraziato, un po' sbilenco, di autore anonimo, un'autentica crosta per dirla con gli intenditori; non so nemmeno qual fine gli abbia riservato la sorte, ma ne rammento ogni fattezza, la cornice bianca, attaccata dall'incuria e dal tempo, punteggiata da escrementi di mosca, alcuni grossi come nei, e poi il soggetto, costituito da un tratto di strada largo alla base che occupava l'intera larghezza del quadro, e che s'inerpicava su, ripidamente, verso l'angolo sinistro, stringendosi sempre più fino ad incontrare un lembo di cielo di un azzurro incredibile, solcato da un solo cirro evanescente. una stradina che avrebbe potuto essere di montagna o quantomeno di collina, ma che per le numerose e profonde sgranature e spaccature pareva aver sopportato la sferza del sole da tempo immemorabile, il colore polveroso, secco, rafforzava l'idea di arsura; in alto a destra, sul limite del confine tra cielo e terra, troneggiava una casupola, anch'essa arsa, quasi brulla, senza nemmeno il ristoro di una chioma d'albero, poichè non me la sarei sentita di affibbiare qualità d'albero a quella specie di ombrello capovolto, solitario e triste, quasi vergognoso di essere stato immerso in quel mare di luce, e perciò tutto involto e raggomitolato su se stesso, appunto in guisa d'ombrello quando non serve.
ma il punto di forza della scena, il perno attorno a cui la varietà d'interpretazione aveva buon gioco, la figura senza la quale la stradina, la casupola, il cipresso solitario, l'azzurro e il cirro si sarebbero definitivamente smarriti in un nulla in sospensione, era una figura umana, tra le più bizzarre che potessero immaginarsi, un uomo alto, dinoccolato, il naso ossuto e lungo come un becco d'aquila, un monocolo piccino che vi poggiava restando in equilibrio non si sa come sulla punta, due scarpe nere ben allacciate e dalla punta strettissima e allungata, tanto che si sarebbero dette l'alloggio ideale di due za

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Vita da garzoni di bottega ( del Bepi)

Il nonno Bepi si avvaleva di due garzoni di bottega. Negli anni '60 i garzoni erano ragazzi di 16-18 anni ( all'epoca si diventava maggiorenni a 21) che senza tanta contrattualistica, venivano presi dai padroni ( negozianti, commercianti, artigiani) dietro una paga convenuta con i genitori, per fare qualche lavoretto e dare una mano nei negozi. Non erano nemmeno degli apprendisti, ma aiutanti in piccoli lavori.
I garzoni, presso mio nonno, dovevano pulire con la ramazza davanti al negozio, sistemare qualche merce sugli scaffali, dare un aiuto a portare in retrobottega i sacchi di fagioli ( cannellini, borlotti, lamòn) , ma soprattutto compito primario, portare la pasta fresca appena pronta dal laboratorio ai clienti, ossia ristoranti o trattorie che utilizzavano la svariata pasta all'uovo fatta dal Bepi.
Compito secondario: venire a prendermi all'uscita della scuola materna in Campo della Lana ed accompagnarmi a casa.
Di garzoni, per la bottega del nonno, ne sono passati tanti. Questo perché la nonna li licenziava con estrema facilità. Soprattutto perché essi ritardavano le consegne o cazzeggiavano. Un garzione furbo si deve mostrare operoso, anche se non c'è nulla da fare, perché l'occhio del padrone è sempre vigile, ma se ti fai beccare con le spalle contro il muro del negozio che leggi avidamente un giornaletto di Nembo Kid (all'epoca c'era, con Il Monello o L'Intrepido), allora sei un garzone licenziato in tronco.
Di questo ragazzi ne ricordo due in particolare, entrambi sui 16-18 anni.. Uno si chiamava Augusto, soprannominato Bramierino per la stazza. Aveva le spalle strette e poi la sagoma a forma di pera, con le gambe a X. Portava i capelli impomatati alla Elvis. L'altro, Leonardo: piuttosto magro e alto, con un ciuffo di capelli nerissimi. Me li ricordo, in estate, in maglietta bianca e jeans. Jeans davvero sbiaditi e sdruciti e non fatti apposta, ma davvero consunti.
I due garzoni

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