L’asfalto si squarciò mentre l’orologio della piazza segnava le sette e trentasei minuti. Colonne di acqua e vapore, fumo denso e nero, schizzi di liquido nerastro, che fino a qual momento se ne era stato quieto nella sua tranquilla fogna, macchiarono il candore delle lenzuola esposte al sole ad asciugare.
In tanti guardarono il cielo, in tanti non compresero che avevano ancora pochi attimi di vita.
“Forse hai capito male, questo è il mondo vero, non è un film”.
“Ho piena consapevolezza di questo, papà”.
“Allora perché ti butti via come fossi uno straccio da piedi?”.
“Non mi butto via, sto solo cercando di mangiare questa vita a morsi fintanto che dura”.
“Tu non stai mangiando la tua vita, stai dissolvendo la tua esistenza nell’acido della futilità”.
“Acido della futilità? Ma che cavolo dici, non essere patetico”.
“Credi di vivere la tua vita e invece ti lasci strappare l’anima e la carne dall’imperativo della libertà o quello che ti fanno credere che sia tale”.
Intanto i vetri delle finestre avevano iniziato a tremare. Il lampadario oscillava paurosamente, si udivano sinistri scricchiolii provenire dalle altre stanze e pezzi di intonaco caddero ai loro piedi.
“Guardati, sembri un albero di natale addobbato da un paraplegico, hai buchi e orecchini che pendono dappertutto, il tuo viso assomiglia ad un puntaspilli”.
“Mi hai insegnato tu che l’aspetto fisico non è importante quanto ciò in cui crediamo”.
“Si ma questo non è un film dove la bottiglia che ti spaccano in testa non è di vetro e l’amore termina insieme ai titoli di coda”.
Una crepa spaccò in due la parete sull’esterno della strada e mille frammenti di vetro si persero nel caos che si stava generando.
“In questo mondo non esistono effetti speciali, gli attori non risuscitano dopo aver girato una scena”.
“Vorresti mandarmi via di casa? Faccio le valigie, non ci metto molto, non ho bisogno del tuo aiuto, in fondo non s
È l’estate la stagione che preferisco. La notizia appena ricevuta, avrei voluto mi fosse comunicata in inverno, magari un giorno di nebbia e freddo. Quel freddo umido che penetra nelle ossa e ti fa percepire 4 gradi in meno del reale. Sì, decisamente la notizia della propria morte sarebbe giusto averla in inverno.
Ma non siamo noi gli artefici del proprio destino.
Lei ha un tumore, non si può operare, le resteranno 2 mesi di vita. Questa è la verità sig. Pisano.
Che mi aspettavo rispondesse il dottore alla mia arrogante richiesta:
Mi dica immediatamente la verità e non si azzardi a trattarmi come un bambino deficiente!!
Ora sono qui, appena uscito dallo studio medico, con la nuda, cruda verità che mi pesa addosso come un macigno.
12 luglio 2008, 12 agosto 2008, 12 settembre 2008…ciao a tutti
Un sorriso ironico si disegna sulle mie labbra. Mi avvio lentamente alla macchina parcheggiata nella piazza del mercato, sotto la statua di Mazzini. Poveretto, anche con lui la vita non è stata benevola. Guardalo, coperto da cacche di piccioni, scarichi di auto inquinanti. Durerà al massimo altri 20 o 30 anni.
Accidenti io tra trent’anni ne avrei solo 70. Mi ritrovo a pensare intensamente di cambiare il mio destino con quello della statua. Mi fermo, concentrandomi, cercando di invertire la nostra polarità.
Poi penso che non deve essere bello restare fermo altri 30 anni con uccelli che ti scagazzano addosso. Cani che ti pisciano sulle gambe, acqua, neve. No, meglio morire.
Decido di non tornare a casa, attraverso via Emilia, entro al bar Molinari e ordino meccanicamente un caffè.
Che buon sapore, questo barista è un fenomeno, come fa il caffè lui non lo fa nessuno.
Quante cose belle e buone ci sono nella nostra vita. Come cambia il valore delle cose quando sai che stai per perdere tutto. Pago senza degnare di uno sguardo lo scontrino che mi viene proposto.
Mi avvio lentamente lungo il portico e lancio occhiate svogliate alle vetrine dei negozi
Quando venne al mondo non provò emozioni particolari; ricordava che i suoi movimenti erano vaghi, poco precisi ovattati. lenti, le sue mani-zampine toccavano altri corpi, batuffoli di lana morbida e arruffata. Non sapeva ancora che presto i suoi occhi avrebbero visto i suoi fratelli.
Lilli venne al mondo assieme ad una dozzina di altri cuccioli, era rossa di pelo in mezzo ad altri fratelli dai manti pezzati di colori improbabili. Forse fu quel manto bello e riccioluto a salvarle la vita, i suoi fratelli una triste mattina di aprile scomparvero misteriosamente e di essi non si ebbero più notizie. Crebbe bene, appena svezzata fu richiesta dal proprietario di un ristorante che si specchiava sul Lago Arancio e per lei fu lu stessu culu di aviri fattu tridici! Mangiava di tutto e a tutte le ore, avanzi di carne, lasagne e pesci e Dio sa quante altre leccornie; tutte le delizie di questo mondo che lei ebbe modo di comunicare ad altri suoi simili della zona, cosi in poco tempo altri cani affamati cominciarono ad avvicinarsi al ristorante, lei li lasciava fare, anche con la loro partecipazione al banchetto non riusciva a smaltire tutto quel cibo. Dopo qualche tempo il ristorante chiuse e siccome il proprietario si era affezionato a Lilli, decise di portarsela nella sua campagna; arrivò finalmente alla Nivina e questo luogo poco distante dal paese divenne la sua reggia. Il padrone veniva ogni tanto per portargli il cibo, poca cosa rispetto ai tempi del ristorante e lei ci soffriva, poi un bel giorno decise di sfruttare meglio le potenzialità del luogo. Vicino alla sua casa c'era un ristorante ed un supermarket e lei tutti i giorni ci andava a fare la spesa, visitava i bidoni della spazzatura, si spingeva dentro le strade del paese e poi c'era la caccia e le visite a li mannari di li picurara. Ogni tanto portava alla sua tavola un agnello e altre delizie simili. Era un'ingorda, mai sazia tanto che alcuni di noi avevamo cominciato a chiamarla Porcellina. Tanta abbondanza
Non si era pentito della scelta di trasferirsi in campagna, aveva bisogno di riprendersi dopo il brutto incidente. Quella pace, quella solitudine erano quello che serviva, i suoi pensieri però non erano stati avvisati e sembravano intenzionati a rimanere agganciati a quel momento. Una ragazzina sbucata fuori da un vicolo contromano. Una frenata disperata, la corsa inutile all'ospedale, l'incontro con la madre che dopo un attimo di esitazione lo aveva abbracciato piangendo quasi in silenzio. Tutti a ripetergli che non poteva evitare l'impatto, che non aveva nessuna colpa.
Non aveva colpa ma quel sorriso non si sarebbe più acceso.
Le prime settimane aveva cercato la soluzione nella normalità, ufficio, amici, qualche puntata al cimitero dove spesso incontrava Marzia che non gli negava mai un abbraccio, una parola di incoraggiamento. Un comportamento che lo lasciava sconcertato, non riusciva a spiegarsi come una madre a cui ammazzi una figlia di quattordici anni possa preoccuparsi per te, eppure bastava guardarla per capire la sua disperazione.
Una donna coraggiosa, rimasta incinta ai tempi dell'università, aveva cresciuto quella figlia da sola, non aveva mai svelato il nome del padre. Anni difficili in quella comunità bigotta, aveva lottato, non si era arresa.
Si erano conosciuti a un meeting aziendale, per qualche tempo avevano lavorato nella stessa società, un breve periodo, poi lui aveva fatto altre scelte. Non erano mancate le occasioni di frequentarsi, aveva anche pensato di approfondire quel rapporto che anche lei sembrava apprezzare ma, aveva prevalso la paura di farle altro male. Era sempre stato il suo problema quello di pensare, di farsi troppe domande, di restare a guardare la vita scorrere.
Ce l'aveva messa tutta per riprendere a vivere normalmente, aveva intuito subito però che niente sarebbe tornato come prima. Una sera mentre cercava di distrarsi facendo scorrere sul monitor le migliaia di fotografie mai catalogate, ritrovò a
Nel silenzio della sua stanza Guido si guardava allo specchio. Aveva appena finito di pregare. Doveva prepararsi.
Karim vendeva il fumo. Karim aveva quattordici anni. Abitava a Porta Palazzo: uno dei quartieri più famosi di Torino, ma anche uno dei più popolari e degradati. Una volta, lì, abitavano i meridionali che si erano trasferiti nella città attirati dalle possibilità che le numerose aziende torinesi davano. Erano gli anni del miracolo economico: c'era il lavoro, c'era la speranza. Ma ora loro, i meridionali, si erano spostati almeno la maggior parte, ed era diventato un quartiere più che altro popolato da immigrati extracomunitari.
Karim abitava in quel quartiere da circa un anno. Karim adorava il mercato all'aperto di Porta Palazzo: era il più grande d'Europa. Lui adorava girare per le bancarelle in quel brulicare di voci ed etnie. Per lui quel momento era un rito sacro, quasi come la preghiera da recitare rivolto verso la Mecca. Quando c'era, il mercato Karim faceva dei furti. Non derubava gli italiani, aveva una sua etica. Pensava che siccome abitava in Italia, non era giusto derubare un italiano, era il suo modo di esprimere riconoscenza. Lui si divertiva a fregare i crucchi o gli inglesini: tanto stupidi da andare al mercato con orologi d'oro al polso e portafogli rigonfi di soldi e carte di credito. -Non è colpa mia se loro mi mettono sotto il naso, la loro ricchezza, poveri scemi-. Si divertiva proprio a immaginare le loro facce incredule nell'accorgersi, che il Dio del consumismo non li aveva protetti.
Karim, era credente, era musulmano. Non era come suo fratello più grande Ghafûr; lui diceva che l'uomo bianco doveva essere punito, Ghafûr era un estremista islamico. Almeno era quello che sosteneva. Continuava a ripetere che prima o poi, si sarebbe fatto esplodere in qualche locale sui Murazzi o in qualche centro commerciale. Avrebbe fatto una strage di cristiani. Karim invece non era così, era un ragazzino buono. Credeva in
Nonostante i tentativi della Magistratura, di preservare le famiglie dei due giovani, dalla curiosità a volte anche morbosa, dei media di ogni genere, a circa due settimane dalla loro morte, si è saputo in giro chi fossero i due ragazzi vittime di questa assurda tragedia; i loro veri nomi sono girati velocemente con effetto tam-tam e le due famiglie si sono ritrovate, nonostante il legittimo e incommensurabile dolore, a dover affrontare il fastidio della stampa impietosa.
Il nostro giornale, si distingue per il rispetto del dolore, ed offre alle famiglie coinvolte, il proprio sentito cordoglio.
Resta comunque aperta la legittima domanda dei nostri lettori:
perché un ragazzo di 17 anni e una ragazza di 15, provenienti da tranquille famiglie della media borghesia cittadina; ragazzi che, a detta dei conoscenti e dei compagni di scuola non mostravano apparenti segni di disagio o squilibrio, perché dunque, ragazzi così sono ricorsi ad una soluzione talmente drastica come appunto il suicidio?
Dato che è questa l’ipotesi più accreditata dalle risultanze delle indagini.
Il nostro giornale è disposto ad accettare la collaborazione di chiunque, conoscendo i giovani in questione, possa aiutarci a rispondere a questa dolorosa domanda
(E. M.-M. A.)
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Abbiamo ricevuto in redazione, giusto ieri, una lettera manoscritta, l’abbiamo fotocopiata e immediatamente dopo, passata alla Magistratura, poiché, se le analisi e gli accertamenti di autenticità ci daranno ragione, si tratterebbe di un documento autografo, vergato proprio dai due giovani così tragicamente scomparsi.
Solo dopo che il Magistrato ci avrà dato la necessaria autorizzazione, provvederemo, nel rispetto della dignità delle famiglie delle vittime, a renderla pubblica.
(E. M.-M. A.)
Dove sei? In quale angolo dell’universo ti devo cercare? Sono stanca di cercare quegli occhi, quello sguardo che mi fa sentire bene, ma non ti trovo …
Lei si alzò spaventata dal sonno. L’ora indicava l’una di notte. Il pensiero di doversi alzare presto la mattina per andare a lavorare e il presentimento che quella notte l’avrebbe passata in bianco, la facevano disperare ancora di più . Anche se erano passati mesi da quando non lavorava sui marciapiedi di notte, non si stava ancora abituando al nuovo regime. Le passo in mente tutto quello che aveva passato e maledisse ancora il suo cattivo fato, un orfana che era finita nelle mani di un… cercò di allontanare questi pensieri. A che pensare? Si attacco timidamente come ci si potrebbe attaccare ad un filo di paglia, tutta impaurita di non spezzarsi, dietro la foto…
Picchiata, violentata dal fidanzato col quale l’aveva messo suo zio per farla andare via di casa, un pensiero in meno per lui. Ma il fidanzato non l’aveva voluta per sposarsi, era solo un mezzo per guadagnare soldi. La costringeva ad andare in strada e le trovava clienti. E i soldi erano tutti suoi. Lei stanca, umiliata, mentre tornava a casa sentendo tutto lo schifo dei marciapiedi e di quei uomini sul suo corpo si metteva subito sotto la doccia. Ma non finiva qui, dopo la doccia era la volta che lui abusasse di lei più di tutti gli uomini con chi aveva passato la notte. E quando non era d’accordo, se a volte si ribellava, ci provava, le sbatteva la testa sul muro, le sputava addosso e la insultava : Puttana!
No, lei non riusciva a guardare quei vestiti, si era giurata che in tutta la sua vita non avrebbe mai messo una minigonna. Le proprie gambe lunghe e belle le facevano schifo. Erano state belle, tanto tempo fa, quando appartenevano solo a lei e non a tutti per sfogare i propri istinti per due miseri soldi che finivano in tasca a lui. Fino a quando? Perch
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