Ma questa calma non era un conforto;
era soltanto la tragica fine...
Christoph Ransmayr
Il quotidiano tran tran, calmo e sano, era il mio conforto e gettava luce fra le dune qualche volta deserte del mio cuore.
La sera mi accorgevo del suo rientro a casa dal tintinnio metallico delle chiavi che oscillando cozzavano contro il ciondolo smaltato a forma di rana. Il suono giungeva fin dal pianerottolo e mi catapultavo verso la porta ad accoglierlo e riempirlo di baci, lottando forsennatamente contro i suoi maldestri tentativi di levarsi la giacca, appenderla al gancio, disfarsi della borsa e altre cose incomprensibili.
Dopo cena ci accoccolavamo sul divano, sommersi dai cuscini con le frange mangiucchiate a guardare la tv e Gap fumava, sgranocchiando cioccolatini dall'incarto rumoroso.
Danne uno anche a me, sembrano buoni!
"Non è roba per te, dormi!"
Mi addormentavo quasi sempre prima di lui con il sottofondo della voce sconosciuta che si irradiava dal quadrato luminoso di fronte a noi e nel suo odore di tabacco mescolato a quello dolciastro del pigiama.
Da alcuni giorni però Gap era cambiato e qualche solco andava scavandosi fra le dune nel mio cuore, sconvolte da una brezza forse malsana, forse appena insidiata da un germe debole e solitario... non avrei saputo dirlo.
Le chiavi dondolavano come al solito sfiorando la rana smaltata verde acido, ma erano credo i miei baci ad avere un che di fastidioso per lui che si era scostato cacciandomi via con un gesto volante della mano, quasi ignorandomi e dedicando molta più cura, silenziosa, alla giacca appesa e alla sua immagine riflessa nello specchio; quell'immagine un tempo piacevole, disarmonica ora che la scomparsa del sorriso aveva prodotto quella nota stonata in disaccordo con noi, quella nota preoccupante; da un po' la sua barba era lunga e ispida e i suoi occhi cerchiati da un orlo nero come due lune eclissate nel cielo.
Ho visto anch'io un'eclissi una volta.
Insieme a Gap e a tutti i suoi amici
“Amore ti amo lo sai?!”
Perché parla così? le sue parole sono dolci e melodiose, ma il suo viso è triste, il suo sguardo assente, o troppo presente. A che pensa? Perché giocherella con la mia mano? La sua gamba va su e giù, è nervoso.
“Anch’io tesoro”
Faccio finta di niente? Forse è la cosa migliore, almeno finché non capisco cosa gli prende, non è solito comportarsi così, ride e scherza sempre, e ora il sorriso è sparito dalle sue labbra, quelle labbra che hanno il sapore di pulito, di fresco, di candido. In lui qualcosa è diverso, è cambiato, e ho paura di scoprire cosa succede. Alza lo sguardo e lo sposta a guardare qualcosa dietro di me.
“Devo parlarti”
Il cuore mi batte, mi batte all’impazzata, che cosa mi deve dire di così serio? Ho paura, ho tanta paura, perché non mi guarda? Sono così belli i miei occhi, lui diceva sempre che riflettevano tutto quello che provavo, che in quella celeste presenza rispecchiavano ogni parte della mia anima, e allora perché non li ammira? Un bel respiro.
“Dimmi…”
È tutto quello che riesco a proferire, la voce tremolante si rifiuta di aggiungere altro. Lui abbassa di nuovo lo sguardo. Guardami maledizione! Guardami e contempla ciò che sto provando, comprendi la mia sofferenza, la mia incredibile ansia e il mio immenso amore per te. Se mi vuoi lasciare non farlo, o mi uccideresti, siamo stati insieme tanto, non puoi abbandonarmi adesso.
“Vedi non è facile da dire, non trovo le parole, a casa ho provato tante volte a preparare questo discorso, ma ora non ne ricordo una sola lettera”
Le tue parole sono lente, fragili, pronunciate con un’inspiegabile ritmo e un’immensa difficoltà. Ci giri intorno. Perché? Dimmelo, dimmi qualunque cosa tu mi debba dire, e finiamola con questa situazione, perché a me viene da piangere, e tremo, tremo dalla testa ai piedi, e la colpa non è del freddo di questa gelida nottata.
“Insomma io…”
Ti blocchi di nuovo, chiudi gli occhi, m
Morire è semplicemente traumatico.
Fluttuavo nello spazio circostante al mio corpo da circa una mezz'ora e già la disperazione aveva preso il pieno possesso della mia coscienza; le lamiere della mia automobile distrutta dall'impatto sembravano assumere i contorni grotteschi di un disegno di mia figlia e la totale mancanza del dolore mi fece capire che anche l'ultimo barlume di speranza di poterla riabbracciare era sparito.
L'auto che si era scontrata contro la mia non era messa meglio, il suo paraurti era completamente scomparso e i vetri del passeggero erano completamente distrutti, dove all'interno intravedevo quattro giovanotti probabilmente ancora vivi, visto che oltre a me in quella carreggiata solitaria e spazzata dalla brezza notturna non c'era nessun'altro.
Io c'ero, morto chiaro, ma presente ad ammirare disgustato il mio corpo così curato quando ero in vita tanto quanto era distrutto in quel momento; il mio viso era irriconoscibile, schiacciato, deforme e sanguinolento.
"Chissà cosa penserà mia moglie quando vedrà la mia faccia, lei che aveva insistito perchè mi facessi quel ritocco al naso come suo regalo di compleanno" pensai cinicamente, ma immediatamente dopo il pensiero si fissò sul fatto che non avrei mai più rivisto mia moglie.
I miei rapporti con Chiara non erano molto rosei nell'ultimo periodo. Il lavoro di rappresentante di una società di assicurazioni mi aveva spinto a viaggiare molto trascurando così lei e la nostra bambina, ciò causava sempre al mio ritorno immancabili sguardi di rabbia e di risentimento, sguardi che creavano una sottile patina di diffidenza tra di noi mascherata da felicità coniugale nel ritrovarsi.
Una volta messa a letto Giulia incominciava la solita scenetta, sempre uguale:
Lei : - Tua figlia ieri aveva la recita di Natale e dopo mi ha chiesto di te!-.
-Lo sai che è dura anche per me, ma abbiamo bisogno dei soldi, lo faccio per voi!-
-Non tirare fuori la storia dei soldi, con il tuo vecchio lavoro
Nel corso della prima guerra mondiale si combatté molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali furono contesi aspramente dai due contendenti e le difficoltà del terreno, le condizioni climatiche repentinamente mutevoli e l'alta quota determinarono perdite incalcolabili.
Sono passati tanti anni da quando il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora bambino, ma non ho dimenticato i suoi racconti di vita, le esperienze drammatiche che lo coinvolsero in quella grande tragedia che lo videro umile alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello.
Quello che mi appresto a raccontare è un episodio che al nonno, nel rammentare, provocava un'emozione così forte da riuscire a trasmetterla anche a me e che tuttora provo, per la nota dolente che lo contraddistingue.
L'anno, mi pare fosse il 1916; la guerra era già entrata nel secondo anno e le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite; eravamo partiti da Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi era caduto nei primi giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il freddo se l'era portato con sé; gli altri, gli altri? Sì, gli altri non mi erano sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia per evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno).
Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul ghiacciaio del Mandrone; uno spazio angusto, scavato con il piccone, vivevamo in mezzo ai nostri stessi escrementi, si mangiava ogni tanto, quando la corvé riusciva a raggiungerci; il freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di un'ora di seguito, altrimenti ti si congelavano gli arti.
Gli austriaci erano dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione di fatto imprendibile, perché noi avremmo dovuto uscire dalla caverna, calarci con le funi sul bordo del ghiacciaio, attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il pendio per attaccare il nemico. E la stessa cosa era per
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Da moltissimo tempo Cesare Murolo è diventato un barbone, di origini siciliane ma residente a Carpi da oltre quarant' anni, ha probabilmente una cinquantina d'anni anche se ne dimostra molti di più. Sicuramente provato e affaticato dalle avversità della vita.
Negli anni ottanta aveva creato una piccola azienda di trasporti che procedeva speditamente, aveva otto dipendenti e faceva le consegne in tutta l'Emilia Romagna. Aveva sposato Claudia, una ragazza conosciuta a Parma e dal loro matrimonio era nato Emanuele, l'unico figlio.
Era riuscito ad acquistare una villetta alla periferia di Carpi, una bella casetta a due piani, con il tetto di coppi e le pareti esterne in pietra lavorata, aveva persino un bel giardinetto con gli alberi da frutta.
Per diverso tempo le cose andarono bene ma verso la fine degli anni novanta un gravissimo incidente sul lavoro fece perdere la vita a due suoi dipendenti. Un carico di grossi tubi di cemento si sganciò da un'autocarro e gli cadde addosso schiacciandoli e uccidendoli sul colpo. I familiari dei lavoratori gli fecero causa e dopo un paio d'anni venne condannato al risarcimento danni, una somma talmente consistente che portò in rovina l'azienda e che lo costrinse a vendere la casa. Non aveva messo mai in atto un piano di sicurezza e non essendo assolutamente in regola venne condannato anche a scontare due anni di reclusione.
La moglie vedendo che la propria esistenza stava subendo un cambiamento in negativo, per cercare di mantenere quel tenore di vita acquisito e non più possibile, incominciò a tradirlo spudoratamente con la gente bene del paese. Era riuscita persino a plagiare suo figlio fino a fargli odiare il padre.
Cesare uscito dal carcere provò a cercarli ma fu inutile, si erano trasferiti e nessuno sapeva dove. Non capiva più cosa fare, non aveva più nulla, né una famiglia né una casa e incominciò a girovagare per il paese chiedendo l'elemosina per cibarsi e
CAPITOLO 9 : LA BARACCA SUL MOLO.
Il risveglio è brusco. Il respiro affannato ed il cuore batte all’impazzata come se dovesse prepararsi ad esplodere. Non è una cosa insolita, nelle ultime notti. Tanti incubi lo hanno assillato da quando ha ucciso quel ragazzo. Non avrebbe mai immaginato di sentirsi così; credeva di essere un uomo forte, fino ad ora. Pensava che i suoi bicipiti scolpiti ed i suoi pettorali ben sporgenti rispecchiassero la sua anima d’acciaio... ora deve fare i conti con la delusione di conoscere davvero ciò che è e che è sempre stato. Quel ragazzino terrorizzato, deriso dai compagni di scuola per essere povero e spaventato dal quartiere in cui viveva, è ancora ben presente dentro di lui, rannicchiato in un angolo della sua testa ed ancora impaurito di ciò che è accaduto e di ciò che ancora deve accadere. Qualche volta pensa alle scelte che ha fatto e che lo hanno portato dove si trova. A volte ci pensa anche se non dovrebbe... la testa si riempie di domande e di ipotesi: ha preso davvero le decisioni giuste? Ha fatto davvero quello che voleva della sua vita? impossibile rispondere e forse non vuole sforzarsi nemmeno di trovare una risposta... perchè in cuor suo è certo che, se dovesse riuscire a trovarne una forse non gli piacerebbe... forse scoprirebbe di essere un fallito adesso più di quanto potesse immaginare... ed avrebbe ancora più paura. Si affretta a scacciare quelle domande che ronzano attorno ma non vuole tornare a dormire anche se è ancora notte.
Alzatosi pigramente dalla sudicia branda che ultimamente gli regala soltanto incubi, Julio si trascina all’esterno e si ferma davanti al molo, fissando intensamente la tranquillità della baia di fronte a lui ed il riflesso dei fari delle chiatte che solcano lentamente la superficie dell’acqua e le luci lontane di palazzi troppo belli che non lo vedranno mai come inquilino o semplice ospite.
“Ancora incubi, Julio? ”
La voce lo fa voltare di scatto. Vicino a lui, i
Sarei o meglio, fui, un attore teatrale e, ahimè! di fiction, che di questi tempi vanno per la maggiore, ma sulla carta d'identità preferii dichiarare di essere un banale impiegato.
Per anni fui ospite abbastanza richiesto alle trasmissioni di Raiuno e della De Filippi, dove girano sorrisi d'ipocrisia e complimenti iperbolici, gli spettatori presenti in sala si spellano le mani consigliati dalla manciata di euro che percepiscono. A me di questi inviti era sempre importato meno di zero, li avevo sopportati perché mi erano stati imposti dalla produzione e dal mio agente, io mi ero sempre sentito un attore " vero " con delle responsabilità verso il pubblico... Ma perché mi ostino a perdere il mio tempo a discuterne? Quasi avessi dimenticato che sono accidenti che appartengono tutti quanti al mio passato. Oggi è un giorno diverso, dopo tre mesi d'inutili dubbi ho finalmente sconfitto l'ultima esitazione, ho messo in vendita l'appartamento, quell'appartamento che io e Giulia al termine di una ricerca capillare avevamo scovato alla periferia di Milano, dove il cielo non banalizza le giornate. Tralascio di raccontare con quanto amore e con quanta cura l'avevamo arredato.
L'avvocato mi aveva preparato la procura ed alcune carte, che firmo. Neppure vi do un'occhiata, uno scarabocchio e via, il mio sguardo è attirato da una finestra socchiusa dello studio con il vento che si accanisce contro la tenda.
Sino all'ultimo il buonuomo aveva cercato di convincermi a rimangiarmi la decisione: un appartamento tanto bello, arredato con tanto gusto... Nell'invitarmi ad accomodarmi mi aveva anticipato che si sarebbe permesso di esprimersi non come titolare di uno studio legale che suo nonno aveva aperto nel 1935 o giù di lì, ma da amico quale si onorava di ritenersi. La mia, a suo dire, era un'imprudenza, avevo davanti una carriera teatrale e televisiva avviatissima, sarebbe bastato superare lo choc, l'indubbio choc... Nella foga oratoria si spinge oltre
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