Si sorprese a sorridere.
In bocca aveva il sapore amaro dell’epilogo e del tentativo mal riuscito di non cadere nella bottiglia. Era un uomo finito. Era un uomo, questo era certo. Rideva con il gusto della delusione e con gli occhi lucidi del padre ferito.
Si sorprese a riflettere, lui che era stato abituato a decidere prima di vagliare le possibilità. Si guardava intorno come se per la prima volta si trovasse ad analizzare le pareti della sua stanza. Gli occhi si fermavano su ogni dettaglio; la foto di New York su legno Ikea, quella della casa di “Ernest” a Key West, lo specchio regalo di nozze, le crepe sui muri ingialliti. La mente però sorvolava, i percorsi del suo ragionare erano ben altri.
Si sorprese ad afferrare la sua Beretta e a stringerla talmente tanto da disegnargli sul palmo le righe dell’impugnatura. Era calmo nell’animo, calmo nella mente ma con il corpo sudato e freddo per l’agitazione. Non era più un ragazzo. I suoi sessantuno anni lo giudicavano dall’alto dell’esperienza che in quel momento non trovava dentro al suo cuore.
Un carabiniere lo si esige freddo, pronto, scaltro. Lo si chiama e lo si desidera reattivo, di ghiaccio, per nulla turbato dagli eventi. Risolutivo. Lui non era tra la gente. Era a casa sua, nel suo regno e poteva permettersi una qualsiasi debolezza. Poteva perfino permettersi di piangere, di gridare, di mandare a quel paese l’Arma e la sua divisa. Gli era concesso di sciogliersi, di tremare, di puntare la pistola verso la parete, verso se stesso.
Un padre in divisa è chiamato inconsapevole sul luogo del delitto di suo figlio. Un uomo nudo, di spalle, riverso nel suo stesso rosso, in un angolo di città che non avrebbe mai collegato al sangue del suo sangue. Aveva riconosciuto quel tatuaggio, immediatamente, ed aveva sentito pietrificarsi le gambe, respirare il cuore, scoppiare i pensieri, piangere quegli occhi di ghiaccio. Aveva odiato gli scarabocchi con cui il “piccolo” amava fregiasi duran
Ho avuto un'altra spaventosa visione di morte: un raccapricciante omicidio commesso da un serial killer. Non ne posso più. Troppe notti mi sveglio con la mente sconvolta da scene agghiaccianti. I primi tempi le credevo semplici sogni, sono invece tragiche realtà.
Mi chiamo Giuseppe Petripaoli, ho quaranta anni e sono un veggente. Tengo pure un programma radiofonico di successo su un nota emittente genovese, dove offro consigli e previsioni astrologiche personalizzate a chi mi telefona. Ma se invidiate i miei poteri, accade solo per la vostra beata ignoranza. Non potete, infatti, neppure immaginare quanto sia angoscioso assistere, impotenti, ai delitti più efferati. Per fortuna, dopo aver visto un'uccisione, trascorro settimane di apparente normalità, priva di scelleratezze, come un essere umano qualsiasi. Tuttavia, pur pregando con fervore per la mia pace interiore, nemmeno in quei periodi riesco a essere sereno. Me l'impedisce la tormentosa attesa di orrori prossimi venturi, l'insana consapevolezza che le visioni di morte sono destinate, inesorabili, a tornare, come è accaduto stanotte. Ho rivisto in azione l'Highlander, così battezzato dai media perché i suoi orrendi crimini parrebbero ispirati alla per me mitica serie cinematografica e televisiva sugli immortali armati di spada. E ne resterà uno solo!
Io ho sempre collaborato con le forze dell'ordine locali, ma sulle prime gli inquirenti liguri non mi prendevano sul serio. Eppure avevo già ottenuto una certa notorietà, all'epoca in cui ancora vivevo con la mia famiglia nel capoluogo regionale piemontese - la vicinanza agli psicopatici è fondamentale perché abbia visioni - per aver smascherato il pluriomicida torinese noto come il Cenobita, specializzato in assassinii rituali di stampo religioso.
Cominciarono a darmi credito da quando, quattro anni fa, gli permisi di fermare un altro feroce serial killer, l'Ecologista, autore di undici efferati delitti, abbinati, a scopo di monito, ad altrettante
La piccola sveglia sul comodino in legno chiaro suonò. Erano la 6 e la sua camera da letto era inondata dalla luce dorata di una nuova alba. Un colore magico che la catturava già da dieci minuti, da quando aveva aperto gli occhi. A qualunque ora fissasse il risveglio sul minuscolo orologio, si destava sempre qualche minuto prima. Era così da anni, però usava ugualmente la sveglia e da qualche giorno con un piacere segreto in più, perchè quel piccolo apparecchio col suono nuovo e romantico le era stato regalato da Enzo. Sentire tutta la melodia dall'inizio la rendeva felice, le ricordava lui, il suo ultimo amore, fresco e recente. Quello precedente era lì disteso accanto a lei che dormiva e a momenti russava: le affiorava alla mente il ricordo lontano e sbiadito di quando quella luce dorata illuminava i magici amplessi che caratterizzavano i loro giorni migliori, diventati adesso lontanissimi ed insignificanti. Come vuota e priva di senso, era diventata la sua vita, che trascinava a fatica verso traguardi destinati a svanire appena sul nascere. Non ricordava il giorno in cui era cominciata la fine, che pure doveva esserci stato e neanche di chi fosse la colpa. Era rimasto in piedi solo una sorta di rispetto reciproco e adesso con l'arrivo di Enzo, più neanche quello: oramai da una settimana era diventata la sua amante. In un mondo giusto lei sarebbe dovuta andar via da almeno un anno, lasciarlo, ma non ne aveva avuto l'animo, non riusciva ad immaginare come poteva cavarsela da solo. Rimaneva con lui un po' per pietà, ma anche per qualche bel ricordo che quel vecchio amore ormai agonizzante, ogni tanto rievocava. E così quella bella luce mattutina aveva perso ogni magia, erano solo raggi di sole, freddi, che non scaldavano il cuore. Poi però Enzo era apparso nella sua vita: l'eclissi era finita e i suoi occhi, folgorati da quel bagliore, avevano ripreso ad ammirare ed apprezzare lo splendore dell'alba.
- Anna sei sveglia? - la voce ancora impastata del m
Cammina veloce con il suo solito passo.
Tra bambini chiassosi, intenti a giocare sul marciapiede.
Ai lati della strada, solo casermoni di edilizia popolare.
Sui muri, incomprensibili scritte spray sovrapposte tra di loro.
Manifesti strappati, skateboard impazziti.
Donne anziane intente a chiacchierare, arrancano con fatica.
Trascinano carrelli colmi di verdure, è giorno di mercato.
Volantini pubblicitari esondano da cassette postali.
È un pomeriggio d'inverno inoltrato di giorno qualunque.
È il suo ultimo tentativo, deve vendere qualcosa, le sue finanze lo impongono,
ma non è giornata.
Scazzato, inizia a salire le scale di un vecchio palazzo.
Le etnie che vi abitano fanno a gara per imporre i loro odori.
Minestre, paprica, ragù e spezie si mischiano, ma le cipolle come sempre prevalgono.
Entra in un buio corridoio vede una porta socchiusa, bussa due, tre volte senza risposta alcuna.
Si affaccia e dalla gola a fatica gli esce un roco "c'è qualcuno?" ... niente.
Qualcosa lo spinge a entrare, lo fa con molta circospezione, è un piccolo monolocale.
L'aria è viziata da essenze scadute, e copre l'odore di un posacenere sovraccarico.
Lenzuola nere, sgualcite, ma asciutte fanno pensare a qualcosa che non è stato.
Calici semivuoti colorati di labbra, carta di cioccolatini, biscotti da thè.
Biancheria calpestata in ordine sparso, gettata alla rinfusa, tipico di chi è in preda ad una pazza frenesia sessuale.
Un fastidioso rubinetto esausto gocciola su sporche pentole.
Su dei piatti ottagonali neri, gli avanzi di una cena bruscamente interrotta.
Due rosse candele consumate versano lacrime di cera.
La luce blu di un'insegna al neon illumina ad intermittenza, la tappezzeria in stoffa sulle pareti della stanza.
Sopra il comò, una parrucca bionda appoggiata sulla testa di un finto leopardo di gesso.
Accanto, un giovane corpo nudo giace freddo sul pavimento gelato.
Un brutto segno blu sul collo, copre in parte una piccola stella rossa tatua
Anita glielo aveva già detto almeno un centinaio di volte. Quella maledetta serratura doveva essere cambiata, la porta di servizio sul retro, quello era il punto debole. E infatti era proprio da lì che era entrato.
Anita sapeva che era fiato sprecato comunque. Sua sorella Irene era la sua adorabile compagna della sua vita, ma era anche svampita e inaffidabile, viveva in un suo mondo fatto di sogni e per le questioni pratiche di tutte i giorni come cambiare una serratura per esempio non era certo la persona più adatta a cui rivolgersi.
Così alla fine aveva dovuto pensarci lei, come sempre. Ma questo non cambiava niente comunque: lei glielo aveva detto, almeno un centinaio di volte.
Max non si riteneva certo un professionista della truffa, ma quello sembrava davvero un colpo alla sua portata. Aveva conosciuto la cara, oh si la carissima signora Irene quando lei fu ricoverata presso il reparto dove lui lavorava come inserviente. Una signora sulla sessantina, un po stramba certo, ma simpatica e socievole. Era stata ricoverata per via di quello che era stato il suo problema fin da bambina: la bulimia. Questo le causava ricorrenti crisi che la costringevano a brevi ricoveri. Max e la signora Irene erano diventati amici. Chiacchieravano spesso e fu così che una volta Irene raccontò che lei e la sorella non si erano mai fidate delle banche e che nascondevano le loro pensioni in casa. Da diversi anni... da diversi anni. Un rapido calcolo diceva diverse migliaia di euro, una vera fortuna per Max, soprattutto a portata di mano. Bastava andare a prendersela direttamente a casa della vecchia. Certo c'era l'altra sorella, la megera. Anita si chiamava. Più giovane di Irene di qualche anno ma molto più scorbutica e poi brutta, brutta come ne aveva viste poche: rugosa, con un grosso porro proprio sul naso, gli ricordava la strega Bacheca di Braccio di ferro nella versione cattiva, per adulti. Ma, si diceva Max, non sarebbe certo stata la megera a fermarlo; che cazzo l
Prese con calma la mira, inquadrò bene l'obiettivo, poi spinse il dito.
La vittima si dibatté un attimo, poi cadde a terra rantolante.
L'uomo non tradiva nessuna emozione, o forse un senso di soddisfazione era lasciato trapelare dai suoi occhi, niente più di un guizzo, una luce rapida come il flash di un fotografo.
Si guardò intorno e riarmò.
Fra sé pensava e quasi si diceva "E ora la prossima. Niente di più facile. Un lavoro semplice, ma necessario. Una bella ripulita da questa marmaglia che ci assedia ogni giorno. Arrivano a centinaia, ma che dico, a migliaia, e nessuno fa niente per arrestare questo flusso. Il cittadino deve difendersi da sé, perché lo stato non se ne cura."
Un altro colpo, un'altra vittima.
"Quasi mi diverto, anche se ammetto che la soddisfazione scemerà presto, perché per oggi il problema è risolto, ma domani domani si ripresenterà.
E se non ci sono io che faccio qualche cosa, che do il buon esempio, tutto passerebbe nell'indifferenza. Si lamentano, sopportano, i pecoroni, ma non alzano un dito."
Riarmò, spinse il dito ed ecco un'altra dibattersi negli spasimi dell'agonia.
"A volte mi domando il perché di questo lassismo, questo sopportare e non cercare di rimediare. Sembra che tutti dicano: ci sono, altre ne arriveranno ancora, è impossibile porvi rimedio.
Questo modo di ragionare è tipico degli smidollati, gente senza nerbo, esseri amorfi, pronti a criticare, ma quando è il momento di agire preferiscono ritornare nell'ombra."
Un altro colpo, un'altra vittima.
"Certo che non fa piacere sporcarsi le mani, ma prima o poi bisogna pur farlo. Che civiltà è mai la nostra se subisce passivamente queste quotidiane aggressioni, questo ripetuto fastidio che avvelena l'animo?"
Si sposto all'altra finestra della stanza, scrutò i vetri: fuori c'era il massimo silenzio, come in casa, e le vittime ignare del loro destino continuavano la vita di tutti i giorni, come se nulla fosse accaduto.
Riarmò, un altro colp
Parcheggiai qualche metro lontano dal magazzino, recuperai l'arma e m'incamminai a piedi.
Quella era una zona industriale abbandonata: il posto ideale per nascondere una bambina e coprire le grida.
Arrivai davanti al posto e alzai gli occhi sull'insegna che diceva proprio "Dall'Angelo Custode".
La serranda del garage era a metà, e immaginai che l'avesse lasciata lì come una sorta di invito ad entrare. E così feci.
Feci qualche passo e mi guardai intorno: nella penombra notai che il posto era pieno di macchinari. Sembrava essere un vecchio magazzino dove a suo tempo veniva prodotto materiale di sicurezza alla persona: impalcature, pedane, ponteggi e capii il perché del nome.
Stavo esplorando il posto quando sentii un rumore. Tesi l'orecchio e lo risentii.
Immediatamente capii che c'era qualcuno in quello stanzone con me. Distinsi un'ombra, alzai l'arma e gliela puntai contro.
"Ah ah ah ah!", mi disse come un rimprovero. "Non così in fretta."
"Lascia andare la bambina", lo intimai io. "Adesso."
Nel buio e nella poca luce che c'era nel magazzino, percepii i suoi occhi infuocati puntati addosso. Poi udii una risata.
"Non sei più un poliziotto e vai ancora in giro con un'arma?", mi domandò.
Avevo ancora paura, lo sentivo. Ma ero carica di rabbia nel ripensare a tutto quello che aveva fatto.
"Allora è proprio vera quella storia che i poliziotti che vanno in pensione, prima o poi si ritrovano coinvolti in qualche caso anni dopo."
"Beh, sei stato tu a volerlo", gli risposi.
"Volevo rivederti da vicino. Mi sei mancata."
Era come se il mio corpo fosse una specie di ventosa: la mia sudorazione aumentava e sentivo i capelli attaccati al viso e al collo, pizzicarmi.
Alla fine cercai di inghiottire quel nodo che sentivo in gola, e dissi: "Voglio la bambina."
"La bambina?"
"Niente giochetti, vai a prenderla."
"Tu non sei in grado di salvare le persone. Te lo ricordi, vero?"
Deglutii.
"Io me lo ricordo bene. Ero lì con voi."
"Dammi
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