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Racconti del mistero

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I nostri defunti

L'agriturismo tace.
Solo il cartello all'ingresso recita ancora, la voce sbiadita di rosso, "Benvenuti al Km 76".
Varcata la soglia, il giardino diventa una chiazza di marciume e putredine, che copre il verde e lo rende scuro, cupo.
Le pareti in legno della struttura traballano tra edera e muffa; i pilastri di basalto si ergono ancora, neri, bastoni della loro stessa solitudine. In veranda è rimasto un tavolo, anch'esso in legno; lungo, spoglio di tovaglia e commensali. Gli insetti lo percorrono, veloci, come se fossero su un'autostrada.
Due anni sono bastati per questo sfacelo.
Osvaldo, detto "il Breccia", sospira, la mano che esita sulla maniglia dell'ingresso principale. Brandelli di ragnatela la decorano, o forse la rinforzano.
L'uomo spinge, come aspettandosi resistenza, ma la porta si apre, docile, senza gemere.
Il gemito arriva invece dal Breccia. Una cappa di marcio e chiuso gli crolla addosso e lo tiene stretto, costringendolo a un respiro profondo, che peggiora il senso di oppressione.
Gli occhi corrono veloci alle serrande di una finestra dalla parte opposta della sala, ma le gambe sono diventati nuovi pilastri di roccia.
Pensa, il Breccia, ricorda che l'agriturismo era il punto di ritrovo di tutta la provincia fino a due anni prima.
- Prima - sussurra quest'uomo curvo, canuto, la voce roca di fumo - Prima - ripete, dopo un'altra boccata deteriorata. E mentre finalmente le gambe si convincono e lo portano alla finestra, impreca per la morte che ha violentato il suo agriturismo solo due anni addietro.
C'è stato un omicidio proprio qui. Un ragazzo ucciso durante la festa di compleanno, massacrato dagli amici. Coltellate per ogni anno compiuto, coltellate che hanno determinato la fine del "Km 76". Sangue dappertutto, il giardino imbevuto di morte, il locale chiuso, sotto sequestro per mesi. Un tumore di infamia e maledizione che ha spento l'agriturismo.
Le dita attanagliano il chiavistello delle persiane, spingono in alto e lanciano fi

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Il figlio della paura (ultima parte)

Così dicendo estrasse da chissà dove un piccolo cofanetto di legno e lo pose delicatamente davanti a me sulla scrivania. Sorpreso, posai lo sguardo su quell'oggetto, allungai le braccia, lo sollevai tra le mani e con stupore constatai che era alquanto pesante. "Ma...!" cominciai a dire, ma le parole mi morirono in gola, davanti a me non c'era più nessuno, la porta dello studio era aperta e del vecchio non restava alcuna traccia. Mi alzai di scatto dalla poltrona dirigendomi verso la porta giusto in tempo per vedere il portoncino d'ingresso richiudersi. Mi precipitai in strada e... nulla, fuori vidi solo la nebbia, fredda e ormai scura. Ancora sotto l'effetto sorprendente di quell'epilogo rientrai nello studio e accesi finalmente la luce. Il cofanetto giaceva lì sulla scrivania. Ritornai a sedermi e rimasi a guardarlo pensieroso: "cosa mai ci sarà dentro?" mi chiedevo e poi pensavo: "le ceneri di un ragazzo? No, impossibile!". Alla fine mi feci coraggio e dopo alcuni titubanti tentativi alzai il coperchio. Ciò che vidi mi fece balzare in piedi con un grido strozzato in gola. Improvvisamente sentii il mio corpo pervaso da un gelo agghiacciante. Davanti ai miei occhi inorriditi c'era un cuore umano... e... misericordia di Dio... BATTEVA!. Sì, il cuore PULSAVA nel cofanetto. Terrorizzato chiusi il coperchio, presi le chiavi dello studio e di corsa scesi le scale. Mi precipitai fuori nella nebbia richiudendo l'uscio a chiave poi mi infilai nella macchina parcheggiata lì davanti e dopo aver messo in moto mi avviai disperato. Percorsi solo qualche centinaio di metri, poi rendendomi conto dell'assurdità di quella situazione e, ancor peggio, di far partecipe qualcun altro dell'accaduto, fermai la macchina e, invertita la marcia, ritornai davanti lo studio. Lì rimasi parcheggiato non so quanto tempo fissando l'uscio timoroso e incredulo.
Quando infine i battiti del mio cuore divennero meno tumultuosi e il respiro regolare trovai la forza di rientrare. La luce era

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   8 commenti     di: Michele Rotunno


Milano, periferia nord

Uno di quei sabati mattina di inizio febbraio, grigi e freddi, di quelli in cui si fa fatica ad uscire di casa.

Periferia di Milano, lungo la strada che da nord entrava in città: superata una grande rotonda in mezzo a campi di rovi abbandonati e centri commerciali ancora semi vuoti, come di colpo iniziavano le abitazioni. Sulla sinistra un gruppo di concessionarie, sulla destra si innalzava, d'un rosso spento, un'immensa schiera di palazzoni costruiti ormai decine di anni fa, all'epoca del boom economico.

Parcheggiato di fianco ad un concessionario. Doppie frecce. I bimbi sui sedili posteriori. Tutti in attesa di A. che era scesa di corsa per una commissione.

I secondi passavano: mi guardavo intorno. Macchine dall'aspetto dimesso che passavano lente in tutte le direzioni. Qualcuno entrava e usciva nel bar di fronte. Alzando lo sguardo, la parete di un palazzo. Contai i piani, uno due tre quattro... nove.
-nemmeno l'onore di arrivare a dieci -

Lo sguardo perso in quella moltitudine di finestre: molte tapparelle erano ancora abbassate. Dalle altre finestre le classiche tende bianche nascondevano l'interno.

Ad un certo punto - sarà stato al quarto quinto piano - si aprì una porta: qualcuno era uscito sul balcone.
Uno di quei piccoli terrazzini protetti da una ringhiera incerta. Adesso le fanno più alte.
Un signore sulla settantina, golfino nero per proteggersi dal gelo e pantaloni azzurrini del pigiama. Un foulard bianco faceva da sciarpa, arrotolato fino a coprire il naso.

Armato di scopa, iniziò a pulire la parte superiore di un armadietto di plastica che spuntava sulla destra del balcone. I bimbi trovavano la cosa divertente, e iniziammo a ridere! Con la scopa si pulisce il pavimento, no?

L'apoteosi arrivò quando dalla tasca del pigiama tirò fuori un fazzoletto e iniziò, con cura certosina, a pulire ogni parte della ringhiera. Impiegò almeno cinque minuti, impegnandosi a fondo su ogni particolare. Poi rientrò in casa: pareva ch

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   5 commenti     di: lorenzo


Le voci

Paolo esce di casa. Invia un sms alla segretaria : oggi marrone. Lei avrebbe capito.
Il giovane avvocato lascia con rammarico il suo guscio. La sua casa: ogni stanza un colore unico. Cucina grigia, camera nera, salotto rosso... e gli accessori: rettangoli perfetti, si notano appena nella monotonia del colore.
Gli amici non sopportano la sua mania e lo deridono definendolo "avvocato affetto da ossessione compulsiva ".
Perfino i clienti sono tenuti ad informarsi sul colore del giorno per non ricevere un rifiuto ad entrare nel suo studio.
L'eredità dell'educazione materna è diventata la sua peculiarità.
È venerdì e come tutti i venerdì Paolo indossa il completo di cachemire, camicia di seta, scarpe all'inglese e biancheria intima del colore della terra bagnata. Vana la ricerca di un elemento di diversa tonalità.
Sì, perché la caratteristica dell'omogeneità si è insinuata anche nell'abbigliamento che varia ogni giorno della settimana.
Paolo entrando nel suo studio al mattino sospira sollevato: ha lasciato all'esterno l'irritante arcobaleno della gente comune.
Lo studio di Paolo pare un prato innevato: tutto l'arredamento è candido.
La segretaria Rosa assunta da alcuni giorni lo raggiunge:
-Buongiorno, avvocato. La solita tazza di caffé nero?
Paolo la osserva compiaciuto. La ragazza indossa tailleur pantalone, maglia a collo alto e mocassini: tutto color marronglacé.
Lui è soddisfatto. "Raggiungo sempre il mio obiettivo. Solo con mia moglie non ci sono riuscito, chissà perché? "pensa.
- Certo cara e complimenti per la scelta dell'abito.-le risponde.
Rosa lo sa che è un sacrificio assecondare le manie del suo capo, ma lo fa volentieri. Proviene da un ambiente povero dove però l'obbedienza è ancora un valore. Molte ragazze più facoltose di lei hanno rifiutato quel ruolo, proprio per non assecondare le manie dello strano avvocato.
Paolo si avvicina alla finestra dello studio e fa scendere le tende bianche a pannello.
- Ch

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Corpo e anima

Saranno state le 4 di notte, ero stanco. Sentivo che dovevo ritornare a letto, nella mia cabina.
Mi trovavo su una nave, non so dire che dimensioni avesse. Era grande, abbastanza da perdercisi dentro. Non c'era luce, nessuno che mi potesse aiutare. Tutti dormivano mentre io ero là, solo, al buio, in un posto sconosciuto. Quando realizzai le mie condizioni sentii il mio cuore battere più forte. Il sonno però ebbe la meglio e quindi iniziai subito a studiare l'ambiente circostante. Non conoscevo il posto e per di più era buio ma ero sicuro che la mia via andasse in quella direzione. Perché in questa e non in quella opposta? Non lo so. Può essere che sia una strada a senso unico, oppure forse perché dall'altra parte ci ero già passato, ma ero sicuro, convinto della mia scelta, come se una vocina interiore me lo consigliasse. Così mi misi in cammino ed iniziai ad esplorare. I miei occhi ormai si erano abituati al buio e riuscivo a distinguere le forme presenti nella stanza. C'erano dei fogli sparsi sul tavolo, un pianoforte, un bancone rialzato su due gradini su cui c'erano una ventina di bottiglie contenenti varie bevande alcoliche. In un'altra occasione ci avrei fatto un pensierino, ma adesso avevo un'altra priorità. Iniziai a camminare per la stanza e mi misi a cercare qualcosa. Cosa? Non lo sapevo neanch'io con certezza.
Arrivai a una porta chiusa. La mia curiosità era tanta e non esitai ad abbassare la maniglia. Mi ritrovai in un'altra stanza, simile a quella precedente. Riuscii a distinguere un divano di grandi dimensioni, diverse sedie e perfino una palla da calcio in un angolo. Camminavo avanti, a passo lento, un po' indeciso, ma non mi fermavo. Arrivai a un'altra porta, questa leggermente più pesante, la attraversai, e riconobbi di essere sul ponte della nave. Faceva freschino, ma ero tentato di rimanere là fuori ancora un momento. La luna illuminava il mare e disegnava una via di luce sull'acqua.
Giusto la via, dovevo tornare

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   5 commenti     di: vasily biserov


Lo scontro

Alla fine era successo... Erano anni che lo sapeva, avrebbe dovuto essere preparato, invece no. Il suo cuore gli diceva, anzi gli URLAVA che era sbagliato, assolutamente sbagliato. Ma da quanto tempo non ascoltava il suo cuore? Tanto. Troppo.
Nessuno gli aveva mai creduto, in tanti anni nessuno gli aveva mai dato nemmeno il beneficio del dubbio! A parte quell'uomo... Ed ora il suo corpo giaceva freddo sottoterra, ed era stato LUI a mandarcelo. Lui aveva pronunciato quelle due maledette parole... ma aveva avuto scelta? No. Non l'aveva avuta. Ed ogni dubbio era sparito nell'udire la preghiera di quell'uomo "Ti prego" gli aveva detto... e lui l'aveva accontentato. Come sempre. Non gli era mai nemmeno importato sul serio dell'Ordine, a lui importava solo non deludere l'unico uomo che gli avesse mai creduto. E adesso lui era morto.
Guardò in altro, verso il cielo, per cercar conforto nelle stelle, ma non ci sarebbe stato conforto per lui quella notte, né mai più. La pioggia cadeva incessante, ma era un bene, perché cancellava le tracce delle sue lacrime.
Rumore di passi alle sue spalle, stava arrivando. Strinse forte la bacchetta. Anche quello gli toccava. Qualcuno si era fermato dietro di lui, in attesa. Sapeva chi era.
Si girò a guardare dritto negli occhi quel ragazzo, suo figlio. Lesse solo odio allo stato puro e non se ne stupì. Non provò nemmeno a giustificarsi, non sarebbe servito. Non ci sarebbero stati sconti, da nessuna parte.
Strinse più forte la bacchetta e vide che suo figlio faceva lo stesso, gli scappò un sorriso.
Ripensò un'ultima volta ad Albus Silente e all'unica donna che l'aveva amato sul serio e che gli aveva dato quel figlio che stava per combattere...
"Mi dispiace" pensò rivolto a tutti e due, poi chiuse la mente ed il cuore e si preparò.
<<harry...>> disse
<<piton...>> fu la risposta
E lo scontro ebbe inizio.
Harry stava vagando per Londra, senza meta, ricordava a malapena che era stato Lupin a portarlo lì da

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   9 commenti     di: Martina Strambi


La Mosca

Il destino, a volte, riserva amare sorprese e vuoti incolmabili.
Una bella casa, un buon reddito e interessi condivisi con la moglie, che definire santa donna, è riduttivo. La zuppetta mattutina con crepes suzette fatte con le sue manine, vera leccornia da far leccare i baffi. No, non voglio annoiarvi, parlandovi delle sue virtù culinarie e vado ai fatti, anche per contribuire ad ampliare le vostre conoscenze.

Rientrando in salone, la vidi accasciata sulla sua poltrona preferita. Era morta, fulminata da un insulto cardiaco, così come reciterà il referto medico. Le ore che seguirono, le ho vissute come in trance. Confortato dal pianto delle vicine, annotavo mentalmente il via vai delle persone. Persone, specialmente vecchiette, che non avendo di meglio da fare, si mettevano in fila per farmi le condoglianze e per caricarmi di baci. Altre portavano caffè e pasterelle, come se invece di un funerale si trattasse di una festicciola. "Coraggio, lei ti proteggerà dall'alto dei cieli." "Che disgrazia, l'ho vista ieri sera e stava bene." "Blà blà blà... ""Povero amico mio, conta su di me e mia moglie che per quello che possiamo siamo a tua completa disposizione." Brava persona, Gianni, era rimasto vedovo sei mesi prima e poi s'era risposato. Aveva dato un calcio alla fortuna, che non si meritava.

Lunga la notte, lunghi i Paternoster e lunghe le Avemaria. Un paio di ore di sonno e la mattina dopo, altre generose dosi di condoglianze, baci, abbracci e tante belle parole. In Chiesa, le parole di conforto, di speranza e la benedizione del Prete, fecero versare fiumi di lacrime, anche agli estranei. Non riesco ancora a spiegarmi gli applausi che ci accolsero all'uscita. Mi sa che stava cambiando la liturgia di questi tristi eventi. Come il buon Dio volle, la sera, quasi distrutto, pensavo alla mia nuova condizione umana. Tante idee e tanti programmi nella testa e anche un pensierino per chi aveva percorso un trentennio di vita fianco a fianco. Già, la vita! È

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   3 commenti     di: oissela



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