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Racconti del mistero

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Il Piccolo Becero

Il trenta dicembre del 1948, un nuovo bambino vide la luce del Creato.
La madre aveva sperato, fino all'ultimo, che nascesse una femminuccia.
Delusa, decise di non allattare quel bambino.
Il neonato non meritava affetto, la creaturina doveva morire.
In che modo? Niente cassonetti, poiché erano antigienici.
Niente cigli della strada, visto che erano pericolosi.
Bastava non dargli il nutrimento.
Così fu pensato e così venne deciso.
Dicono che il latte materno sia più saporito nei primi giorni di vita.
Noi non sappiamo quale fu il ruolo di Giovanni in questa vicenda.
Sappiamo solamente che a Capodanno, dopo il rito del baciamano,
impose alla moglie di allattare quell'essere innocente.
A malincuore e piangendo la donna disbrigò la faccenda.
Il bambino poppò senza alcun risentimento.
 
Il dieci di Gennaio la questione sembrava aver trovato una soluzione.
Una broncopolmonite acuta capillare aveva aggredito il piccolo,
cercando di dare una mano alle aspettative della povera madre.
Non era un dramma, all'epoca i bambini morivano come le mosche.
La madrina designata cucì un po' di stoffa.
L'abitino per il moribondo era pronto.
Quella sera, il curato del paese venne a prendersi cura di lui.
Prima lo battezzò e poi lo assolse dai suoi peccati.
Chissà quali peccati aveva compiuto il birichino.
A voler sottilizzare qualche cosina la si troverebbe pure.
Intanto s'era dato la pena di nascere e nascendo, aveva, di diritto,
ereditato il peccato originale.
Ricordiamo a tutti che quel tipo di peccato non è cosa da poco.
Sorvoliamo, altrimenti a qualcuno verrà la tentazione di
far costruire un carcere nido.
Il Prete andò via, rinunciando alle tre uova che Teresa voleva regalargli.
Arrivarono, portate da un vecchio amico, le quattro assi inchiodate.
Sopra ci fu appiccicata una Croce.
La piccola bara era pronta.
La piccola salma era in ritardo.
Questo bambino non sarebbe stato sepolto nella cruda terra.
No, non sarebbe stat

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   7 commenti     di: oissela


Isla de aves - terza parte

La fiammella del mio torace si tramutò in rogo.
Inviai la conferma.
Come liberato da un qualche legaccio, mi concessi una visita oziosa del territorio che ora volevo possedere cognitivamente.
Affittai una vecchia auto americana, bianca con interni rossi, una sontuosa Eldorado degli anni 50.
Decapottabile.
Un bianco cappello a tesa larga, occhiali da pilota USAF e musica nella mente più potente delle lagne venezuelane che la radio, dal cruscotto, riversava nell'aria.
Euforia e leggerezza condizionavano il mio essere in quei giorni.
Frequentai assiduamente stamberghe e bordelli.

Un sorriso doloroso turbava il mio viso.

La figura di Gonzalo Almirante entrò a far parte delle mie conoscenze in una gita a Puerto de la Cruz.
Il nome altisonante apparteneva ad un uomo scuro di pelle, dalla magrezza nervosa, dinoccolato e sdentato e gli stava addosso, il nome, come la giacca da uomo ad un bambino.
Rapido d'intelletto e assai di più di coltello, era intervenuto in mio aiuto in un tentativo di rapina che aveva me come bersaglio.
Due "desperados" armati di machete nella penombra di un imbarcadero, avevano tentato di alleggerirmi dei dollari, che maneggiavo con troppa disinvoltura, e anche della testa, credo, giusto per divertimento.
Il cuchillo di Gonzalo era apparso, dopo un sibilo, infisso nella gola dell'assalitore più minaccioso.
Il secondo figuro si era dato alla fuga dimostrando, a mio parere, molto buon senso.
Dal buio era emerso il mio salvatore e si era presentato motteggiando i nobili spagnoli del passato, per poi riderci su sgangheratamente.

La sbornia, che fino ad allora aveva anestetizzato i miei sensi, si era dissolta, per ciò ritenni opportuno ripristinarla con la compagnia del mio nuovo buon amico Gonzalo Almirante, gran cavaliere dei pontili e patrono dei babbei, dato che tale mi ero dimostrato.

Portai con me, di quella notte, il fotogramma di un corpo malamente disteso sul pontile di legno, illuminato dal flebile cono di lu

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L'incubo

Mi sono addormentato... e mi son svegliato in agitazione... Ho fatto un sogno che mi ha turbato e che non riesco ad interpretare... Non so... ho parlato con una persona, che era viva nel sogno, la quale mi ha parlato di persone morte e di persone vive..
Quando mi son svegliato ho avuto la sensazione netta di aver davvero parlato ma con un morto.
Non è stato un sogno... è stata un avvenimento reale. Il sogno sembra essere stato solo una banale scusa per veicolare il manifestarsi di questa presenza. Non ho capito cosa volesse comunicarmi...
Tutto cominciò quando mi ritrovai, di notte, alla fine di una di quelle sagre di paese che si tengono dalle nostre parti.
Un acquazzone autunnale di quelli brevi ma violenti aveva fatto scappare la gente; le bandierine colorate penzolavano malinconiche e fradice d'acqua, mosse dal vento freddo che si era alzato e spazzava la piazza deserta.
Mi accorsi che Adriana, nella fretta di ripararsi, aveva dimenticato gli occhiali da vista e decisi di riportarglieli perché sapevo che altrimenti l'indomani si sarebbe preoccupata per averli persi.
Mi ritrovai sulla strada buia che portava a casa sua, illuminata da rare flebili lampade dalla luce gialla.
Arrivai davanti alla casa di Adriana e stranamente trovai tutte le luci accese; dalle grandi finestre si intravedevano anche le scale illuminate a giorno, ma tutto era deserto come anche nella strada. L'intero quartiere era sinistramente silenzioso.
Confuso, mi fermai ad accendere avidamente una di quelle sigarette ordinarie, forti e senza filtro, simile a quelle che fumavo ai tempi del liceo. La scena però era repentinamente cambiata. A quel punto mi ritrovai nel paese di mio padre, nella stradina stretta e acciottolata che portava a casa sua, nella parte più antica dell'abitato.
Improvvisamente sentii dietro la curva della strada dei passi pesanti e cadenzati di scarponi chiodati, che sembravano essere sbattuti apposta con forza sui ciottoli umidi, come se una persona vo

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FRANK... liberamente tratto da...

Potrei passare la vita ad osservare i colori e le vicende che scorrono in queste strade popolate da artisti e ciarlatani, dove i profumi delle spezie provenienti da ogni parte del mondo, si mischiano alle voci, ai baci profusi a centinaia, a questi marinai appena attraccati. Vedo sacche trascinate stancamente e abbracci e pacche sulle spalle, saluti calorosi della mia gente. Ci chiamano xeneizes qui, esattamente come dall’altro capo dell’Oceano, nella nostra Zena.

Quello che non vedo e non vedrò mai più è il sorriso di Frank, mio amico, mio fratello, ora mio angelo se davvero esiste un cielo.
Lo ricordo ancora quando lo incontrai su quella nave. Eravamo entrambi imbarcati come mozzi per la compagnia Allan di ritorno dal Canada. Non si stancava mai Frank, anche quando noi tutti eravamo provati dai lunghi mesi passati con la solitudine del mare, lui sorrideva ancora e lavorava duro.
Lo persi di vista quando arrivammo allo scalo di Dublino. Io trovai subito un passaggio per raggiungere la mia famiglia e lui proseguì con un gruppo di marinai in cerca di un alloggio e di un buon bicchiere di Guinness.

Quando lo rividi, parecchi mesi dopo, stentai a riconoscerlo. Vestiva abiti da civile e aveva tagliato quei capelli scuri che tanto piacevano alle ragazze. Era scavato nel volto e nell’anima. I suoi occhi neri sembravano persi in una interminabile burrasca. La barba copriva la bocca, ora non più aperta in un sorriso caldo e sincero e le parole, prima sempre profuse a voce squillante, restavano imprigionate nelle labbra serrate.
Lo salutai ma non chiesi niente della sua vita. Tornai di lì a poco con una coperta e del the caldo, poi tornai ai miei servizi. Per giorni e giorni ripetemmo questo walzer di silenzi. Frank guardava il mare, io mi prendevo cura di lui.

Fu soltanto quando intravedemmo da lontano la costa dell’ Argentina che si decise a parlarmi. Gli portai l’ormai rituale tazza di thè. Lui mi guardò con tutta la malinconia che un u

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   0 commenti     di: Laura Defendi


San Giorgio

SAN GIORGIO

L’aria era torrida e pesante in quell’assolato giorno estivo di campagna, in un imprecisato luogo di un imprecisato tempo. Il cavaliere, sceso da cavallo, osservava ansimante l’orizzonte, la sua fronte era madida di sudore, così come il suo corpo, pesantemente agghindato con l’armatura color selce, che lo ricopriva quasi per intero. Ansimava e scrutava il paesaggio, coi suoi occhi celeste chiaro, mentre teneva sotto braccio l’ elmo, riccamente cesellato dai migliori fabbri del regno, sul quale erano scolpite alcune delle sue più famose imprese, mentre cercava di far riprendere aria al volto, ai suoi fulvi capelli, riaccordati sopra la testa tramite un rosario di finissime perle bianche, dono di una vergine convertita, da lui prontamente salvata dalle libidinose mire dell’uomo a cui era destinata in matrimonio, e a quell’accenno di barba riccioluta che cominciava a crescere sulla parte inferiore del volto. Ma questa operazione poco serviva a non sentire l’arsura del sole allo zenit, un sole che nella sua perfetta immobilità, rendeva l’aria rovente e immota come una lastra di ferro appena uscita dalla fornace di un maniscalco.
Mentre il suo cavallo era leggermente discostato dalla strada ed era intento a brucare quei radi fili d’erba che riusciva a trovare, il cavaliere guardò la punta della lancia, che teneva saldamente stretta nell’altra mano, per osservare se qualche alito di vento agitasse lo stendardo a croce che vi era issato in cima. ma non un solo Zefiro era stato mandato, quel giorno, dalla Sapienza, per rinfrescare l’aria. “D’altro canto è mezzogiorno…. l’ora in cui il Diavolo è più forte…” disse tra sé e sé il cavaliere, sul cui volto parve comparire un accenno di disincantato sorriso.
L a posa statuaria che aveva assunto in mezzo alla strada, si mutò , nel batter di un ciglio, in un risoluto e marziale passo verso il suo destriero, sul quale rimontò in breve tempo, deciso a riprendere la st

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Il mio ricordo più bello

Ricordo ancora come se fosse ieri il giorno in cui sei entrato a far parte della mia vita.
All’epoca non ero altro che una giovane ragazza di 16 anni a cui non interessava altro che leggere, era così che passavo ogni minuto libero della mia intensa giornata da studente. Poi sei arrivato tu, di quattro anni più vecchio, bello, intelligente e spigliato, mi hai subito rapito il cuore e la mente.
Ricordo quel giorno con nostalgia. Eri venuto a casa nostra per lavorare ad un progetto universitario con mio fratello. Io ero rinchiusa nella mia stanza a leggere l’ennesimo libro, m’infastidiva avere degli estranei per casa. Ero talmente immersa nella mia lettura che non mi accorsi nemmeno che qualcuno aveva aperto la porta e mi stava osservando. Mi ero seduta a terra, come facevo spesso, e tu mi fissavi senza dire una parola. Fu la voce di mio fratello che ti chiamava che mi fece alzare gli occhi e guardare verso di te.
Eri li, i capelli castani scompigliati e gli occhiali malamente appoggiati a metà naso. Indossavi dei jeans sdruciti e una polo. Lessi nei tuoi occhi interesse e stupore, come se stessi guardando un essere strano, come se per te fossi una sorta di alieno. Mi persi subito nei tuoi meravigliosi occhi verdi, così intensi e vivaci.
Dopo un lungo minuto di silenzio finalmente mi decisi a parlare
“Ciao” dissi bruscamente, non so perché infastidita dal fatto che non avevi bussato o per il turbamento che sentivo guardandoti “A casa tua non si bussa mai prima di entrare nelle stanze degli altri?”
Il tuo sguardo mutò velocemente e da stupito divenne cupo “Scusa” mi dicesti con tono seccato “Pensavo che questo fosse il bagno”.
In quel momento, quasi a voler salvare la situazione arrivò mio fratello che t’intimò di non darmi retta e ti mostro dov’era il bagno. Nel chiudere la porta potei ascoltare qualche stralcio della vostra conversazione, mio fratello che ti diceva “Non devi farci caso a mia sorella, vedi lei è come la

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La pietra filosofale

Napoli, sono circa le dieci del mattino.

È una soleggiata giornata di maggio che con il suo caldo abbraccio, avvolge tutta la città, vicoli compresi e n’esalta la magnificenza, insieme con quella del suo golfo, dove Napoli, con imperturbata bellezza, vi si adagia pigramente, mollemente cullata dal respiro del suo mare.

“Ué, Ciro, stai dinto?” Dice Gennaro con un tono di voce forte, per farsi sentire fin dentro la pizzeria di Ciro, che aveva la serranda abbassata per metà.
“Si Gennà, stò cà!”
“E che stai a fa? Oggi nun è o juorne e ripose?”
Ciro, rispondendo sempre da dentro: “Né Gennà, so’ trasite dinto a pizzeria, pe’ vedé si tutte 'e ccose sò a poste! Aspiette ‘nu pucherille ch’agge fernuto, vuò trasì?” “No Cì, t’aspiette cà, ma fa ampresse ch’ ‘a jurnata è bell’assaie! Nun a vulisse passà tutta annanze a pizzeria toia, né!”
“Uè Gennà, cumme si scucciante, t’agge ditto ch’agge fernute…statte carme nu mumiente!” Poi con voce sommessa: “Maronne, cumm' è agitate, sempre accussì, cumme s’avisse a fa quacche cose d’importante!”
“È ditte quacchecose, Cire?” “ No Gennà, n’agge ditte niente!” E con un filo di voce: “Che scassacazze, stu cristiane!”

I nostri due amici, Gennaro Platone e Ciro Aristotele, che si conoscono da oltre quaranta anni, fin da quando, appena ragazzi, le rispettive famiglie, abitanti nello stesso vicolo, fecero amicizia, da allora non fanno altro che stuzzicarsi a vicenda, si prendono sempre in giro e, la cosa più importante, dibattono spesso sulle cose più diverse, tanto sono compresi dei loro cognomi, dal filosofeggiare su tutto e tutti, con risultati il più delle volte ridicoli, per chi ha la sventura di ascoltare le loro discussioni.
Com’è costume a Napoli, sono stati soprannominati: ”E doie filosofe”. In questa definizione c’è tutta la bonomia e l’ironia tipica dei napoletani. Gennaro è o filosofe che nun fatig

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   5 commenti     di: Sergio Maffucci



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