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Il gioco
Un cappotto nero, dall'aria un po' vetusta e vagamente intellettuale, decisamente fuori moda e per nulla elegante, pantaloni che non vedono il tintore da un bel po', scarpe senza pretese, e che pretese potrebbero mai avere delle scarpe? Occhiali scuri, muso in grugnito e, per finire, un cappellaccio dall'aria torva, minacciosa, che fa somigliare a un corvo nei suoi misteriosi giri di malaugurio.
Ma forse non era il caso di esagerare, avrebbe dato troppo nell'occhio e rischiato di ottenere il risultato opposto, avrebbe destato interesse, curiosità, sarebbe stato notato, ed era tutto ciò che Georg desiderava evitare.
Per la verità, non sapeva se fosse proprio ciò che desiderava, ma solo che doveva essere così, il suo ruolo per chissà quanto tempo doveva essere quello, poteva durare un mese, un giorno, e chi lo sa! Ormai era venuta fuori quella parola, del resto priva di significato come tutte le altre parole, ma pur pregnante di effimera parvenza, ridondante di emblemi arcaicizzati, fissi, immutabili, paradosso estremo del bisogno umano di tradurre in realtà la finzione di quelle dieci lettere così assemblate: misantropo.
Che sciocchi! In quella stessa configurazione vivevano mescolati tra loro in un'orgia lessicale un santo, uno storpio, almeno due minatori, e finanche un asino, e chissà quante altre cose ancora; ma non era concesso scegliere, la regola del gioco era una ed una sola, peraltro estremamente semplice, attenersi scrupolosamente alla parola chiave nella sua più comune accezione. Null'altro.
Avrebbe potuto cambiarla quella regola Georg, del resto il gioco lo aveva inventato lui, tutti i diritti riservati; ma non ne sentiva il bisogno, funzionava così bene, lo aveva salvato dalla pazzia, quando era stato in quella grande casa dove lo avevano accompagnato per trascorrervi le vacanze, non ricordava bene il posto, ma pare dovesse avere un nome con la k e con molti suoni aspirati; non ne ricordava il nome perché ve lo avevano portato di notte e dopo quella volta, di cui rammentava solo un grande muro punteggiato di chiazze illuminate che mandavano una luce strana, schermata da zone più scure, quasi buie, come fasce, come tante striscioline inquietanti e inquiete, dopo quella volta non aveva più veduto l'esterno della casa.
Trascorse tanto tempo in una stanzetta simile a mille altre, attraversate da un lungo corridoio dove facce insolite gli passavano continuamente dinanzi senza dar segno di vederlo, o fissandosi caparbiamente sulla sua figura come su cosa mai vista prima.
Non riuscì mai a stabilire un contatto con loro, d'altronde non gliene dolse granché, poiché così ebbe modo di mettere a punto il suo piano di fuga, il suo gioco.
Nonostante non ricordasse perché lo avessero condotto là, tuttavia sentiva che era ingiusto, non era una vacanza di suo gradimento, e negli anni successivi non riuscì a serbarne alcun ricordo piacevole, per quanto si sforzasse caparbiamente di afferrarne uno, nemmeno di quella volta che c'era stata una festa, non si sa perché, e s'erano tutti quanti divertiti da matti con la corsa delle blatte, con la gara di sputo in lungo, e col cercare di dirigere il getto zampillante delle proprie vesciche nei bicchieri di carta con cui poco prima s'erano ubriacati di birra.
Il gioco, invece, lo faceva da solo.
Lui solo ne conosceva e serbava il segreto; ne era gelosissimo, era l'unica cosa, tra tutte quelle prive di significato che lo circondavano, che fosse veramente sua, che lo facesse sentire stranamente vitale, vigile, attento.
Gli altri non ne sapevano nulla, seppur inconsapevolmente giocassero con lui, pensavano fosse la realtà, invece era solo un gioco.
Georg, da piccolo, era sempre stato affascinato dalle parole, che avessero o no un significato preciso aveva poca importanza, era il suono che incanalava le sue sensazioni in una miriade di direzioni diverse, come di raggi colorati che si rincorressero tra loro, leggeri e fluttuanti, come quelli del sole quando s'insinuano tra il fogliame agitato dal vento.
Le parole erano tutto, il mondo esisteva per loro, erano loro a far conoscere il mondo, a dargli una parvenza di significato, solo una parvenza, un gioco, le parole servivano per giocare, erano il più gran diletto concesso all'uomo in una vita di delusioni e incongruenze; ciascuna cosa era la tal cosa in virtù di una parola che ne delineava i contorni, la conteneva, ne permetteva l'esistenza, senza le parole non vi sarebbe stata nessuna cosa, non si sarebbe saputo come chiamarla, né che cosa fosse o a che servisse, senza di esse i sentimenti e le passioni sarebbero restate chiuse nell'animo come in un forziere, inespugnabili, tormentose, disperate.
Amando, non avremmo saputo di amare, né odiando di odiare, le città intere coi loro enormi simulacri erano costruite su promontori di parole dove erano state gettate fondamenta di parole, l'universo intero nella sua immensità si riduceva a una parola, senza la quale se ne sarebbe ignorata l'esistenza.
Ed anche lui, Georg, era solo una parola G-E-O-R-G quattro lettere, solo quattro segnetti per significare se stesso a se stesso- sono Georg signori- sono proprio io con la mi faccia tondeggiante, un po' buffa, gli occhietti piccoli e scuri, le labbra sottili, la calvizie incipiente, le sopracciglia rade e brevi con qualche pelo ribelle, e gli occhiali anch'essi piccoli e tondi, che scivolano un po' troppo giù sul naso un po' grassoccio e largo, col mio profilo a v capovolta, la fronte ampia, alta, larga, custode di milioni di pensieri che gravitano intorno a un centro che non vedo e non avverto ma che è lì, origine delle mie tenerezze, delle mie ansie, delle mie paure, persino dei miei ozi... tutto questo è Georg, ed è la stessa cosa che appellare quell'involucro rotondo, compatto, color verde intenso, tutto ricoperto di foglie avviluppate l'una all'altra, pieno di bolle, con la parola: verza!
Parole prive di significato eppure di esso così pregne nel momento in cui si dava per certo che Georg indicasse un essere umano e non un'estensione sterminata d'acqua; se invece di Georg si fosse chiamato Franz o Whilhelm sarebbe stato la stessa persona o un'altra di cui ignorava persino i tratti?
E se mare fosse stato un nome d'uomo, Georg avrebbe potuto significare ciò che adesso s'indicava con mare...?
La vita sarebbe stata la stessa, tutto sarebbe rimasto immutato, le parole non significavano nulla.
Ci si poteva giocare. Ci si doveva giocare.
Molti anni prima, quand'era ancora un ragazzo timido e pensieroso, che passava i pomeriggi da solo nella grande casa paterna o, nelle giornate clementi, fuori a girovagar per il parco, Georg s'ingegnava di trovare lunghe serie di parole che differissero l'una dall'altra per una sola lettera; ma quelle che gli procuravano maggior diletto erano le rime e gli opposti che davano luogo a veri e propri tornei con gli amici che, istigati e incuriositi da Georg, vi si lasciavano per un po' trasportare, ma che ben presto preferivano dedicare le loro energie ad altro.
Georg si divertiva così, esattamente come altri si divertivano di una partita a pallone nel campetto strappato al vecchio orto dietro l'oratorio, non che non avesse altri interessi, faceva le cose che facevano tutti, ma il suo gran diletto era giocar con le parole e, stranamente, nei momenti in cui si trovava ad essere maggiormente intento alle sue celie verbali, appariva agli altri taciturno, schivo, come estraniato dalla realtà, per questo sin dalla giovane età si acquistò l'appellativo di misantropo.
E ora quella parola tornava più prepotente che mai a molestarlo, lui, che non provava alcun risentimento verso nessuno, lui così tranquillo che taceva per distrazione, che ascoltava con piacere tutto quanto gli era dato di ascoltare, che non appena le cose quotidiane erano state soddisfatte, si rifugiava nel suo mondo poetico e un po' folle, dove le parole si mescolavano tra loro come un mazzo di carte e si incontravano, si urtavano, si affiancavano, si accavallavano fino a perdere, pian piano, il senso a volte doloroso di cui si ammantavano nella vita reale.
Così Georg aveva scoperto un modo fantastico e semplice di liberarsi dalle afflizioni, facendo perdere loro di peso, di gravità, di realtà fino a sentirle leggere, fatue, insignificanti.
In quei momenti era felice come non avrebbe saputo esserlo neanche un fanciullo, e lui conosceva bene i malumori dei ragazzi di cui ascoltava le parole tristi e troppo simili a quelle dei loro genitori.
Ah! Se anche loro avessero imparato a giocare... ma non si poteva parlarne ad altri, lo avrebbero deriso e Georg nonostante i tenaci esercizi e gli innumerevoli tentativi non aveva imparato ancora a ridere della derisione.
Aprì la porta ed uscì. Camminava a passo svelto diretto verso il lungofiume della città dove risiedeva da poco e che conosceva ancora meno.
La serata era tiepida, nonostante si fosse agli inizi dell'autunno, e sulle ali di questa osservazione Georg cominciò a librarsi tra i nomi delle stagioni, su che nesso avessero col periodo dell'anno al quale erano legati o col tipo di clima di cui ciascuna era foriera, e gli sembrò che Robespierre fosse stato un genio nel sostituirli tutti... quando vide innanzi a sé, un po' discosta sulla destra, una figuretta esile di ragazza.
Non riuscì a spiegarsi perché l'avesse notata, non ne aveva neanche visto il viso e l'aspetto d'insieme pareva piuttosto dimesso, giocava anch'essa al misantropo? Aveva trovato un 'anima gemella così, per caso? Il fatto che camminasse piano, come chi non sa dove andare o non sa decidersi, o attende qualcuno o qualcosa, era senz'altro strano per la sua età; sarebbe stato normale se le convenzioni non avessero preso il sopravvento e non avessero stabilito che una ragazza deve sprizzare energia come una lampadina, probabilmente era solo stanca, o svogliata, o ammalata.
Accelerò il passo per vederne il viso, ma proprio in quel momento la fanciulla si sedette per terra e pose un piattino davanti a sé.
- Dai qualcosa- proruppe con un vigore inaspettato, senza supplica.
- Che cosa?- rispose Georg con lo stesso tono.
- Soldi! - fu la secca risposta.
- Soldi? Io non ho soldi, sono povero.-
- Io, sono più povera di te- disse la ragazza pronunciando la breve frase come fosse una sentenza capitale, mostrando chiaramente il viso pallido e affilato, con occhi grandi che la sofferenza piuttosto che intristire rendeva duri.
- Allora sei ricca, hai qualcosa più di me- rispose Georg, meravigliandosi di come non fosse ancora riuscito ad allontanarsi da lì.
- Come ti chiami?- continuò.
- Adelina- fu la secca risposta senza sorriso.
- Sì, Adelina...- pronunciò quasi tra sé Georg.
Con fare totalmente indifferente, la ragazza continuava il suo mendicare senza supplica e, solo di rado, una monetina tintinnava roteando su se stessa..
Georg s'allontanò, si diresse a passo svelto verso il bar nella piazza dove avrebbe occupato un tavolo d'angolo, sorseggiando caffè e aspettando che il tempo passasse, che anche quella serata volasse via nel nulla, nel nonsenso.
Quella sera, per la prima volta, dimenticò il suo gioco, la sua ridicola, inutile finzione di essere quello che non era; aveva incontrato un misantropo vero nei panni di una ragazzina smilza dagli occhi di ghiaccio, e gli era sembrato un muro, alto, spesso, insormontabile, lui non ci sarebbe mai riuscito, a giocare così.
Esisteva il misantropo vero e tutte le altre cose, vere, esistevano, lui solo, Georg, non esisteva, tra tutte le cose che cercava di essere, aveva smarrito se stesso, e ora non sapeva chi era, non poteva giocare a se stesso.
E perché aveva temuto di far partecipi altri del suo gioco, del suo universo di parole, perché non ne aveva fatto un buon uso?
Sentiva una smodata voglia di comunicare, di sorridere a tutti, voleva disperatamente esistere nelle risposte altrui, nei loro sorrisi e nei loro saluti, ma non conosceva quasi nessuno e se si fosse messo a chiacchierare, così di punto in bianco, con chicchessia, allora sì lo avrebbero scambiato per matto.
Dopo circa due ore era riuscito solo a scambiar dieci parole col cameriere e con una coppia di anziani vicina di tavolo, chiedendo tre volte l'ora.
S'alzò e s'avviò all'uscita col passo calmo e deciso di chi, ricco di nuova consapevolezza, intuisce come un improvviso bagliore, la fantastica bellezza della realtà e la reale bellezza della fantasia: un mondo nuovo gli si apriva dinanzi, non più fatto di sole parole.
Nell'uscire, incrociò lo sguardo smarrito e stanco della ragazza, e udì se stesso pronunciare il suo nome, così quasi senza volerlo, prima che lo zampino della ragionevolezza potesse intervenire.
Lei si voltò, ebbe come un guizzo impercettibile di stupore nello sguardo, di stupore e piacere.
Quella ragazza non aveva solo bisogno di monetine, ma di parole, parole sincere, affettuose, tenere, divertenti, parole amiche.
E chi meglio di lui poteva dargliene, lui che ne teneva in serbo tante quante le stelle il cielo, così tante da non poterle più, ormai, contenere. Sorrise.
Ora Georg non sarebbe più stato solo una parola di quattro lettere.
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