La signorina Olimpia era sottile, con degli enormi occhiali, sempre seria e tesa. Vestiva rigorosamente di scuro, non lasciava mai intravedere un lembo di pelle, e anche quando la calura imperversava, i suoi abitini monocolore erano sempre e rigorosamente accollati. Non beveva caffè, mangiava solo pasta in bianco e non toccava nessun oggetto che potesse venire in suo contatto per timore di buscarsi qualche contagio. Se apriva il portone di casa, si muniva di un fazzolettino di carta che portava più su di dove gli altri erano soliti appoggiare le mani per aprire, così era sicura di non venire contaminata da microrganismi esterni. La signorina Olimpia era molto severa, non era sposata, si dice che in gioventù avesse avuto un unico amore che, arruolatosi, era poi morto in guerra e da allora non aveva mai più aperto o lasciato uno spiraglio del suo cuore a nessuno. Noi bambine giocavamo in cortile molto silenziosamente perché potevamo disturbare il sonnellino pomeridiano che era solita fare. Una volta però non fummo accorte: aveva piovuto tutta la mattina ed eravamo state in casa, poi nel primo pomeriggio, quando aveva finalmente smesso, eravamo scese in giardino felici di poter riprendere i giochi quotidiani, ma a terra c'erano ancora delle pozzanghere. Allora avevamo preso dei ramoscelli secchi e con la punta disegnavamo cerchi in un piccolo pantano d'acqua; la signorina Olimpia udì quelli che a suo dire erano i nostri schiamazzi, in realtà ci aveva viste dalla finestra perché eravamo talmente taciturne che a stento udivamo tra noi quello che dicevamo, e riferì alla mamma che se non avessimo smesso ci saremmo sporcate i vestitini. La mamma, dopo il rimprovero, ci richiamò subito in casa; sapeva quanto fosse pignola la signorina Olimpia e voleva evitare discussioni inutili. Se la incontravi per le scale, difficilmente rispondeva al saluto, prima si alzava gli occhiali, ti soppesava e poi le usciva un lieve mormorio in risposta. A volte se ne stava dietro le finestre ad osservare la strada, sembrava uno sguardo perso il suo, guardava lontano poi se si accorgeva che qualcuno la fissava, tirava giù la tenda e andava via. Era sempre in casa, sempre da sola, conduceva una vita monacale, non rispondeva agli stimoli termici, non sentiva mai freddo, non la sfiorava minimamente il caldo. Quando comprava il pane se lo faceva incartare diverse volte poi scappava veloce per non essere sfiorata da alcuno. Negli ultimi anni della sua vita era ancora più attenta a tenere lontano oggetti e persone dalla sua vita. La sua mania di contrarre un qualsiasi contagio era diventata ancora più ossessiva, si dice che, costretta a toccare obbligatoriamente alcuni oggetti in casa, si disinfettasse continuamente le mani. Una mattina di giugno, ormai eravamo grandi, la signorina Olimpia si spense. Le porgemmo il nostro ultimo saluto, stando ben attente a non sfiorarla troppo: era ancor più piccola di come la ricordavamo in vita, gli occhiali occupavano tutto il viso, aveva tutti i capelli imbiancati: pensai a uno scherzo di un burlone che gli aveva versato della farina in testa per giocare e riuscirle a strapparle un ultimo, misero ed unico sorriso. Quello che a nessuno aveva mai regalato in vita. Ma la farina era finita sul vestitino blu, imbiancando il colletto che era candido e immacolato come la neve. Un capo che la signorina Olimpia avrebbe schivato certamente dal suo armadio perché era troppo cangiante!