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Il mio paese di tanti anni fa
Il mio, o meglio quello che mi ha dato i natali, è un grosso paese della Sicilia occidentale, ma il suo nome non ve lo rivelerò mai, nemmeno sotto tortura. Perché? - vi chiederete - Ma perché si tratta di un paese speciale, caratteristica che lo propose, negli anni 60, all'attenzione del mondo intero. Starete pensando forse a giacimenti petroliferi scoperti nel suo sottosuolo, a miniere di metalli preziosi venute alla luce, a qualche fatto di cronaca che avesse stupito il resto dell'umanità: nulla di tutto questo. Il mio paese, in quegli anni di miseria, semplicemente divideva con un altro Comune limitrofo un triste e poco lusinghiero primato, quello di trovarsi nel più terribile quanto inimmaginabile stato di vivibilità ambientale.
Un convegno internazionale sulle condizioni di vita e di salute nelle aree depresse della Sicilia occidentale, svoltosi nell'aprile del 1960, accertò le condizioni disumane in cui viveva la popolazione, consacrando il mio paese ed il suo compagno a duolo come comunità disastrate da lunghi anni di amministrazione inetta e sonnolenta e di assoluto disinteresse da parte dei centri di potere regionale e nazionale. Il motivo di questo atteggiamento della classe politica va ricercato nel fatto che i miei concittadini votavano in maggioranza per le liste di sinistra, in contrasto con gli schieramenti che allora governavano l'Italia.
A seguito del rumore suscitato da tale convegno, cui parteciparono, provenienti da ogni parte del mondo, illustri sociologi, medici, e studiosi di discipline attinenti alle problematiche sul tappeto, i due Comuni interessati furono destinatari di una legge speciale, approvata dalla Regione Siciliana nel 1963 e che ne doveva promuovere lo sviluppo e risanare le condizioni.
Provate ad immaginare come si potesse vivere in un posto con strade non asfaltate, polverose quando asciutte e pantani dopo la pioggia. In assenza assoluta di ogni tipo di canalizzazione fognaria, la gente era costretta a gettare sulla strada ogni tipo di liquame, proprio tutto, lo giuro, ed era un rischio camminare per le vie in certe ore della sera e del mattino. Anche i rifiuti solidi venivano lanciati sulla pubblica strada, dove ogni tanto due o tre spazzini comunali, reclutati fra persone portatrici di menomazioni fisiche o psichiche, forse le sole disposte ad accettare quell'ingrato lavoro, spazzavano i rifiuti, fra una lite e l'altra, e se li portavano via su di un fetido carro tirato da un asino.
Sorvolo, per pietoso riguardo, sull'olezzo che appestava l'aria e sullo stato nutrizionale dei ratti che vagavano dovunque indisturbati, facendo paura anche ai tanti gatti e cani randagi, riconosciuti padroni della notte.
Durante le forti piogge, trovandosi il paese adagiato ai piedi di un monte e mancando il necessario incanalamento delle acque che scendevano da quell'altura, un vorticoso e fangoso torrente, largo da cinque a sei metri, investiva puntualmente l'abitato, attraversandone il centro storico e la piazza principale. Quel terribile flagello trascinava con sé quanto nella sua corsa avesse incontrato e travolto, comprese carogne di grossi animali e veniva a separare nettamente il cuore cittadino in due metà.
Per consentire alla gente di transitare da una sponda all'altra, le autorità comunali non avevano trovato niente di meglio che far collocare, in un punto più stretto del guado, una lunga asse di legno sostenuta da quattro ruote di ferro; voleva essere una passerella, ma ne risultava qualcosa di instabile, senza una ringhiera protettiva e comunque sempre in balia della furia dell'acqua, che spesso la travolgeva. Ma solo questo avevano saputo partorire le perspicaci menti degli amministratori.
Le scarse economie comunali non offrivano, durante le ore serali, illuminazione in tutte le strade, ma solo in quelle del centro, ed anche in queste la luce era così fioca e rada da non distinguersi gran che, senza una particolare attenzione, dall'oscurità.. L'acqua potabile nelle case non era privilegio di tutti e si andava ad attingere alle pubbliche fontane o agli abbeveratoi per animali, sobbarcandosi a lunghe code, spesso animate e colorite da risse per questioni di precedenza.
Costretta a vivere in queste condizioni, la popolazione, per lo più povera e contadina, era rassegnata al proprio destino. Non ricordo che sia mai scesa in piazza per protestare, se non sporadiche volte per la mancanza di acqua potabile protrattasi oltre il tollerabile, circostanza che dalle nostre parti si verificava assai spesso, allora come oggi, nel ventunesimo secolo.
L'indigenza di certe famiglie, non poche, le portava a vivere in più unità all'interno di un unico ambiente, un tugurio che ospitava cucina, per lo più due pietre posate sul pavimento, il letto dei genitori, un tavolo e pochi miseri mobili, un soppalco con la paglia per gli animali, su cui andavano a dormire i figli. Nello stesso vano spesso trovavano ricovero l'asino o il mulo, le galline, cani e gatti.
In siffatte condizioni igieniche, non poteva meravigliare che in quelle zone allignassero ancora malattie assai gravi, scomparse ormai da tempo dal resto dell'Europa e presenti ancora soltanto in qualche regione del centro Africa. Fra le tante, ricordo il tracoma, affezione agli occhi che, se non curata in tempo, portava a sicura cecità.
Per la prevenzione e cura di questa malattia infettiva, esisteva un apposito Ente Antitracomatoso, che tutti gli anni inviava presso le scuole un sanitario a rigirare con le mani nude a tutti gli alunni le palpebre, per accertare eventuali segni del morbo. Eppure la gente sopportava, paga di avere l'indispensabile per vivere, per lo più prodotti della terra, verdure selvatiche ed un po' di carne nei giorni di festa.
A proposito di feste, al mio paese se ne celebravano diverse e con sfarzo di luminarie, concerti bandistici in piazza, processioni e riti in chiesa, dispiegamento di bancarelle dei venditori ambulanti.
In quelle occasioni la popolazione, indossando il "vestito buono", si riversava nella piazza principale, per ascoltare la musica, assistere allo sparo dei classici mortaretti ed allo spettacolo dei giuochi pirotecnici, con in mano un immancabile cartoccio di brustolini o andava a sedersi, tutta la famiglia, in uno dei tanti bar a gustarsi il "gelato a pezzo". Solo allora il fumo delle caldarroste, il profumo del torrone e dello zucchero filato riuscivano ad attutire gli insopportabili quanto nocivi miasmi costantemente diffusi nell'aria.
Non c'è cattiveria in questa mia descrizione, né esagerazione e nemmeno vuole esserci ironia.
Sono solo i ricordi, ancora vivi, di uno scenario, nonostante tutto a me tanto caro, in cui si muovevano i personaggi che nel prosieguo del racconto vi verrò a presentare.
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- Quindi un racconto che è solo l'inizio! Uno spaccato interessante che ci apre la porta su un mondo vicino eppur lontano per certi versi...
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