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Racconti brevi

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Scene da un matrimonio

L'abito non fa il monaco.
Proverbio popolare

-Alla fine il matrimonio è solo una questione di fogli da firmare in modo tale da poter chiedere gli alimenti quando ci sarà il divorzio conseguente.
Sono i matrimoni che dovrebbero essere a tempo determinato, in questo modo la parola"matrimonio" smetterebbe di suonare come una minaccia. Mi sposo per tre anni, tre anni in cui garantisco la mia fedeltà, ma poi basta. Matrimoni rinnovabili e terminabili.
Voglio dire, se io trovo una tipa che mi piace, perché devo essere vincolato da una cazzo di firma estorta dopo un pompino con ingoio vent'anni prima.
Giacomo pensava questo mentre le sue ginocchia premevano sul legno della panchina della chiesa e il suo fastidio stava aumentando secondo dopo secondo. Stava assistendo al matrimonio di Luca, uno dei suoi migliori amici e, mentre ascoltava le parole che il prete pronunciava, gli venne un conato di vomito. La sera prima aveva esagerato con i giri di vodka e in quel momento, l'odore d'incenso della chiesa, i profumi dolciastri di tutte le parenti di Luca agghindate per l'occasione e il caldo che sentiva aumentare sempre di più, contribuivano a quella di voglia di vomitare che si presentava a ogni suo dopo sbronza. -Io non devo rendere conto a nessuno.- Ecco un altro pensiero che gli balenava in testa, tra una citazione biblica del prete e una grattata alle palle colpite da un prurito improvviso.
Alla sua sinistra, nella prima fila, c'era Annika, era la sorella diciottenne di Valentina: la futura moglie di Luca. Giacomo aveva trovato in lei la distrazione adatta per superare quei minuti interminabili che mancavano alla fine della funzione religiosa. Giacomo era un individuo piuttosto dicotomico: il suo fare grezzo era contrapposto al suo aspetto attraente e Annika era stata attirata dagli sguardi che Giacomo lanciava come frecce imbevute in una potentissima pozione afrodisiaca. Mentre una goccia di sudore formatasi all'altezza della tempia destra acc

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Ero diventata una befana

Avevo sette anni, quando capii che la befana era mia madre... La notte, in casa, avevamo preparato le scarpe, messe in fila tutte quante nel soggiorno, sembravano i vagoni di un treno lunghissimo... dieci paia di scarpe... Quelle dei miei fratelli maggiori erano enormi, scarpe d'adolescenti, capienti da far invidia a noi più piccoli. Mamma aveva atteso che fosse mezzanotte per iniziare la sua distribuzione, stava scartando infatti una scatola di caramelle, quando mi svegliai all'improvviso, come se qualcuno mi avesse accarezzato con delle foglie secche il viso... era il rumore della carta plastificata della scatola delle caramelle. Capii immediatamente che stava accadendo qualcosa e pensai subito : "Sta passando la befana, voglio vederla!" Saltai così dal letto e con passi felpati e con il cuore che batteva all'impazzata, mi avvicinai alla porta per vedere. Quale non fu la sorpresa quando vidi mia madre che, velocemente, riempiva le scarpe di caramelle, noci e fichi secchi. La guardai con stupore e ripensai ad alcune frasi dette dai compagni più grandi del vicinato, che proprio la sera precedente, ci avevano canzonato perché credevamo ancora alla befana. Che delusione! avrei voluto crederci ancora.. una vecchina che, al di sopra delle parti, giudicava il nostro operato e ci portava i premi... Lo stupore durò poco, mamma s'accorse della mia presenza e senza mostrare rammarico mi chiese di darle una mano a completare l'opera. Intanto mi fece mettere qualche pezzettino di carbone, distribuito equamente dentro le scarpe, come pure i dolci e la frutta secca, mentre gli altri doni, che non erano mai giocattoli, erano doni necessari.. scarpe nuove in sostituzione delle vecchie, consumate al massimo e con la punta scollata, sollevata verso l'alto come la bocca del caimano, qualche maglione nuovo, mutande e calze. Lo stupore iniziale venne sostituito subito dalla felicità .. mi sentivo grande e complice.. perché mia madre mi disse: "Mi raccomando, non svelare il segre

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   3 commenti     di: antonina


Breve racconto di ordinaria amministrazione

Il figlio di puttana del mio amico si rifiutò di tirare fuori il danaro e tutti che improvvisamente erano al verde - ed io ero li, seduto con una coppia di picche in mano al tavolo vincente di soldi inesistenti. Il mio amico era un bravo ragazzo alla fine dei conti, certo, mai fidarsi di nessuno, ma vai a pensare che proprio un amico te lo può tirare nel culo cosi.
Aveva i suoi problemi Renzo - sposato troppo presto - un matrimonio durato pochissimo - e il peso di un divorzio da portare sulle spalle, aveva i suoi problemi - aveva bisogno di soldi, e chi poteva biasimarlo?.
Matthias! ecco - Matthias lo biasimava eccome - Matthias non era affatto contento del suo atteggiamento - Matthias voleva il danaro - cosi lo colpi in pieno viso con un gancio degno di nota. Renzo cadde a terra stordito portando giù con se il copritavolo verde con tutte le stronzate che erano poste sopra tipo: posacenere con mozziconi di canne e sigarette aperte - una bottiglia di vino rosso della peggiore marca e altro materiale che si disperse per terra in un fracasso generale. L'altro che giocava con Renzo si alzò di scatto e tirò un pugno a Matthias (aveva detto qualcosa che non gli era andata giù) e mentre tutti erano intenti ad azzuffarsi ebbi il tempo di prendere i pochi soldi che erano nel piatto per cercare di portarli in un posto sicuro ma, ahime, qualcuno mi urlò qualcosa contro - qualcuno mi avevo visto. Matthias mi si scaraventò addosso tirandomi i capelli - offendendo le mie generalità - bestemmiando Iddio, Lapo cercò di tirarmi un pungo in faccia - e fortunatamente mi prese solo di striscio, ma riusci ugualmente ad infilarmi un dito nell'occhio. Iniziai a tirare pugni alla cieca - urlando a più non posso - cercando di buttar giù Matthias che aveva fatto della mia schiena la sua momentanea dimora - cercando di colpire qualcuno o qualcosa, ma avevo la vista annebbiata e riuscii solo a prendere una lastra di marmo appoggiata su di un muro (e non so per quale motivo era l

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   0 commenti     di: STEFANO ROSSI


Non c'è più tempo

Sola. Nessuno in giro. Una maledetta pietra. Due rose.
Una bianca.
Una rossa.
- Che ci fai lì - si chiede, con gli occhi gonfi ma ormai aridi.
Una settimana di pianti.
Lei, da sola.
Lui non c'è più.
Lei partirà.
- Dovevo dirti molte cose - un pianto isterico corrompe il silenzio del cimitero. Nessuno in giro.

La piazza era piena. Studenti e operai. Militanti e simpatizzanti.
Il governo aveva stanziato nuovi fondi per le missioni di pace, tagliando finanziamenti alla scuola pubblica, all'istruzione. Nostalgia del '68.
L'università, la culla della società civile, aveva accusato l'ennesimo colpo mortale, l'ennesimo decapitamento. Come sempre.
Finalmente gli operai erano tornati al fianco degli studenti. La coscienza era tornata a illuminare i cuori delle persone.
Non se ne poteva più.
Arianna era in prima fila, seduta a gambe incrociate con una sigaretta in mano. Una giornata caldissima. Sul palco c'era il suo ragazzo. Lo guardava. Lo rispettava. Con quel megafono in mano era il suo adone, l'essere perfetto. Forte, deciso. Stronzo. Ma andava bene lo stesso.
Le voci cominciarono a girare.
Lui si fermò un attimo. Il suo amico gli disse qualcosa all'orecchio.
La notizia squarciò l'anima di tutti i presenti.
Un ragazzo era stato colpito in Piazza della Scala. Da un poliziotto. Cori e insulti verso le forze dell'ordine, senza aspettare di sapere il reale motivo di quell'insano gesto.
La corsa frenetica.
Piazza della Scala si presentò loro come il teatro del più atroce degli spettacoli. Centinaia di poliziotti, un paio di ambulanze, i furgoni dei canali televisivi. Migliaia di curiosi.
E adesso anche loro.
Migliaia di studenti.
Migliaia di operai.
Arianna era terrorizzata. Tremava di fronte queste cose. Odiava la morte. Odiava le armi. Una ragazza normale, intelligente, sensibile.
Si guardò intorno.
Vicino al corpo coperto da un lenzuolo bianco c'era una bicicletta viola, con le ruote rosso fuoco.
Come quella di Ma

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   11 commenti     di: Guido Ingenito


Frau Berg

Apollonia Berg è una signora ebrea tedesca, minuta e gentile. Abita, dal 1952 in Viale Porpora a Milano. Da sempre la signora, la sera della vigilia di Natale mi invita a casa sua, dove c'è un presepe piccolo e spartano, ma molto originale: al posto del bambino, tra l'asinello e il bue, mette una sua fotografia, molto sbiadita, di quand'era ragazzina, e incomincia a raccontare...
All'alba della vigilia di Natale del '44, mia madre mi portò in campagna da una sua amica, in un piccolo villaggio appena fuori Baden-Baden. Nel pomeriggio vennero al paese dei soldati, cercavano l'ebrea appena arrivata dalla città, ma per mia fortuna in quel momento non ero in casa. Mi cercarono ovunque i soldati; in ogni casa, in ogni stalla e per tutta la campagna fino a sera. Se ne andarono col buio, forse perché era la vigilia di Natale e avevano altro da fare. Mi nascose il prete, in chiesa, sotto il grande presepe vicino all'altare. Il giorno dopo, il prete stesso, mi affidò a due vecchie signore molto gentili, e con loro rimasi fino alla fine della guerra. Di mia madre e della sua amica nessuno seppe dirmi niente.
Praticamente, continua la signora, in quella notte di Natale io nacqui una seconda volta, non le pare?... Per questo metto la mia fotografia al posto di Gesù Bambino! Purtroppo questa storia non la potrò più ascoltare: la signora ebrea tedesca è morta questa estate. Ogni anno a dicembre, alla vigilia di Natale, frau Apollonia Berg di Baden-Baden mi mancherà più di ogni altra cosa.

   8 commenti     di: franco buniotto


BKdavid72Skype

Ho conosciuto Betty. È di Santa Marta. Oggi dovremmo parlare alle cinque del pomeriggio. Chissà mi trasferisca là.
Adriana mi aveva proposto di aprire un'attività in quei paesi emergenti ed io ho proprietà in vendita in Italia. Chissà!
Signore assisti!
È passata anche questa estate. Il calore del ferragosto era orribile. Già bisogna mettere la giacca.
Io vivo della bontà di Dio. Questa è l'unica verità è lui che mi sostiene per quanto io ne sia indegno.
Dove vado?
La tristezza dell'autunno è vicina.
Me misero! Pietà!
C'è calma nei miei giorni, fin troppa!
Nessuna novità, che pena!
Sono lontani i tempi del rock, così agitati, trasgressivi ma anche distruttivi.
Sono rimasto io superstite per grazia ricevuta.
Me misero! Pietà!
Questi giorni vuoti e pieni di attesa che mi hanno trasformato in un altro.
Me misero! Pietà!
Questo cuore in pena che, anche se non sono sicuro, brama qualcosa.
Cosa? Pietà!
Un pezzo di torta anche per me! Per favore!
Neanche gli avanzi!
Digiunerò sul serio! Pietà
Mi arricchisco di sapere ma impoverisco. Pietà!
Trascorrono gli anni e la bocca mastica aria. Me misero! Pietà!
Come riempirò il giorno che sta nascendo?
Io scrivo! Mi paga la mia ex moglie per questo. Me misero!
Quello che scrivo non serve: alla fine è pietà!



L'esperimento

Buonasera. Sono Edoardo Mati. Ho circa ventiquattro anni. No. Vi prego non alzatevi. Non alzatevi. Non vi vedo. Ma so che volete farlo. Ci metterò giusto qualche minuto. Poi me ne andrò, giuro. Non ho un motivo preciso per essere qui. Sono qui forse per sbaglio. Forse per finta. Forse per sogno.
Io sto per impazzire. Sto per perdere la testa.
Non ho armi. Non ho niente. Ho perso tutto. La mia dignità l'ho persa insieme alla voglia di combattere.
Cosa sta succedendo? Qualcuno me lo può spiegare?

Edoardo è arrivato in quel posto una settimana fa. Un esperimento ben retribuito.
È bastato il primo giorno per farlo pentire di essere partito.
È entrato in un bar. Non c'era nessuno. Nessun suono. Nessun rumore. Eppure sul bancone bicchieri ancora pieni e un tavolo con le carte da gioco rovesciate verso l'esterno. Uno dei quattro avrebbe fatto un poker clamoroso.
In tutta la città solo il niente. Anzi. Il Niente.
Abbandonato. Atrocità. Ammalarsi.
Un giro per le compagne costeggianti la prima città. Regola matematica. Cambiando l'ordine degli addendi la somma non era cambiata. Delirio. Perdizione. Dubbi.
Presagio?
Impossibile.
Villa fuori città. Piscina. Gazebo. Triplo box. Tre auto.
Nessuno.
L'acqua ogni tanto si muoveva, al ritmo di bracciate impossibili. Una macchina andò via. Nel box ora due macchine. La fame lo ha spinto nella cucina di trenta metri quadrati.
Voleva dormire. Ha passato nella villa la notte. Non la passa bene. Perennemente disturbato da voci. Insulti. Minacce.
Vattene. Vattene. Vattene. Vattene. Mostro.
Edoardo comincia a dimagrire. Occhiaie buie e scavate. Voci. Voci. Voci. Sempre diverse, sempre ostili. Edoardo corre di città in città, di locale in locale, di casa in casa. La matematica non sbaglia. Non c'è mai nessuno. Edoardo ha paura. Delirio. Svuota ogni bar di alcoolici. Il suo fegato comincia ad abbaiare.
Ogni tanto fa il bagno. Ogni tanto si lava. Ogni tanto guarda un film in qualche casa troppo pulita

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   14 commenti     di: Guido Ingenito



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