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Racconti su sentimenti liberi

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Liebe del cuore

Liebe da una vita e nel mio cuore, ero piccolina e gia giocavo
con lui nella mia fantasia, lo immagginavo in tutte le situazioni
le avevo dato un volto, un nome un carattere ben definito,
e ed era non solo il mio compagno di giochi preferito, ma anche un padre un amico tutto per me. E  pure ho sempre avuto una famiglia unita, dei genitori mai separati tra loro
ma Liebe era ed è piu importane di mio padre stesso.
Venendo alla storia, una sera andai a trovare una signora anziana in ospedale. Era una piovosa sera di novembre
ed io ero triste come al solito perche' mancava liebe nella mia realta( finche ero piccola mi poteva bastare sognarlo ma
piu diventavo adulta e piu lui mi mancava tanto che la sua assenza era divenuta insostenibile). Dicevo arrivata in ospedale con un taxi entrai nello spaccio di quest'ultimo per comprare qualcosa da regalare alla vecchietta, all'uscita  ebbi come la suggestione di guardare in su, e notai nella vetrata dell'ingresso alla cappellina un persona che mi guardava
non ci feci caso piu di tanto ed entrai nello stabile.
camminavo nello spazioso ingresso che ospita una cappella dove tutti i giorni si dice la S. Messa e notavo man mano che mi avvicinavo un giovane che se ne stava seduto sulla panchina fuori dalla porta della capellina. Piu mi avvicinavo e piu quel giovane sembrava liebe uscito dai miei sogni, cominciarono a tremarmi le gambe, mi mancava la terra sotto i piedi non sapevo se fermarmi oppure continuare a camminare ( temetti uno svenimento appena gli fui vicino: ma che importanza aveva tanto ero in ospedale). Si: non mi ero sbagliata ora gli ero praticamente vicino e la sua sagoma era quella del mio amato liebe. Con fil di voce mi feci coraggio e gli chiesi:<ciao posso sedermi?> e anche la voce era quella mentre rispose molto gentilmente:<certo siediti vicino a me:> voleva che gli sedessi vicino come se mi conoscesse da una vita. Dopo un attimo di silenzio gli chiesi:<come ti chiami?:>
:< ma tu conosci il mio nome

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   2 commenti     di: Maty' Sessa


RICORDI D'ESTATE

Ricordava ancora quel giorno d'estate, erano saliti su un monte si tenevano la mano, d'intorno la radura era accesa di luce, un venticello leggero soffiava tra le fronde degli alberi, ogni cosa intrisa di magia parlava, il vento soffiava parole dolci d'amore e una melodia leggera come il suono di una musica accompagnava i suoi pensieri.
Lo aveva guardato negli occhi...
Oscar aveva occhi scuri e profondi, espressivi e ridenti. Il sole gli accarezzava dolcemente il viso velando emozioni e sentimenti, sentiva che niente li avrebbe allontanati, ed una leggera sensazione di calore le invadeva l'anima.
Stesi sul prato soffice guardavano il cielo attraversato da banchi di nuvole bianche ed ovattate. D'improvviso uscì una lacrima, Oscar la raccolse con delicatezza, poi le sorrise si guardarono di nuovo, occhi come specchi a scrutarsi l'anima si strinsero e iniziarono a ridere a crepapelle senza motivo come due ragazzini, anche se adesso non lo erano più.
Forse erano ridicoli, forse il tempo si era fermato così in quel momento soltanto per loro, sembrava che la natura, il mondo l'universo cospirassero contro il tutto per farlo durare in eterno.
Ogni cosa si era fermata e quell' attimo sarebbe durato per sempre, immobile nel ricordo come imprigionato.
Un momento galeotto bagnato da una lacrima arrestato da un sorriso nel cuore che cominciava indissolubilmente a battere come il rumore delle lancette di un orologio, poi una nuvola annebbiò il cielo, lo sguardo, la radura e provocò un fremito, fu in quel momento che Oscar la baciò con passione, un bacio lungo, intenso e in quell'abbraccio ritrovò l'uomo di un tempo, il ragazzino che aveva conosciuto a scuola, il loro amore immutato, rinnovato come i loro corpi segnati dagli anni, le rughe incise sui volti facevano presagire che non erano più a scuola, che erano "grandi" ma forse solo adesso stavano vivendo.
"Con gli occhi dell' esperienza si impara a vivere"-le diceva suo padre

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   5 commenti     di: Anna Lamonaca


La malattia invisibile

Non possiamo essere realmente artefici del nostro destino. Molte volte il caso distrugge piani ed obbiettivi, o in altri, aiuta . Anche questo c è nella storia di Ester e Muhamad. Lei sapeva di essere sua figlia ma lui non ne ebbe mai la certezza.
Ester viveva una vita normale, nell'Europa occidentale, studiava all'università , usciva con le amiche, aveva avuto storie d'amore ed un altrettanto amorevole madre. Ma ad Ester mancava qualcosa, la figura paterna quella a cui tanto sono le legate le figlie. Si sentiva in disagio vedendo i padri degli altri oppure due genitori assieme, la madre non volle risposarsi credendo di dare un dispiacere, ma quando non c è dialogo si finisce per illudere o deludere l'altro. Non lo fece mai presente alla madre pensando di farla soffrire, e ne la madre volle mai indurla a farlo. Un tempo l'ignoranza nelle zone più sottosviluppate, rendeva ingenue anche le giovani ragazze, fu così che la madre di Ester che vedendo un ragazzo muscoloso, grande, di un colorito mulatto, affascinante, non seppe resistere e cedette alle sue insistenti richieste pur non capendo bene cosa dicesse. Pur essendo rimasta sola, incinta senza veri punti di riferimento, non si pentì mai di quello che fece, il dolore e il dispiacere provato in quel momento le fu ricompensato con l'amore e le soddisfazioni che le diede in seguito la figlia. Ester era sempre stata una ragazza studiosa, brava, obbediente non diede mai problemi alla madre,- ma per questo volta-pensò -non farà nulla. Infatti aveva da tempo intenzione di fare presente al genitore il bisogno di trovare suo padre. Conoscere anche la parte maschile delle sue origini. Glielo disse un giorno in cucina, mentre stavano per pranzare assieme, la madre guardo un attimo il suo piatto mosse le labbra verso l'interno della bocca se fosse adirata, Ester per un attimo si pentì di averglielo chiesto, ma poi dopo la sollecitazione della figlia sorrise, rendendosi conto che questo momento sarebbe dovuto arrivar

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   2 commenti     di: antonio imbesi


Neve segreta seconda parte

9 febbraio 1965
ore 7, 45
" Buon onomastico Lucia! "
La voce calda e allegra di zia Nives scacciò la mia piccola tristezza. Non pensai più alla dimenticanza dei miei genitori. Mi vorranno fare una sorpresa. Ne ero certa.
Zia Nives invece mi diede subito il suo regalo. Me lo porse incartato ma la sua forma rivelava il contenuto lasciando poco spazio alla sorpresa. Tuttavia quando ti regalano un libro un po' di sorpresa rimane. Prima di scartarlo non sai che libro sarà, se ti piacerà, o se piaceva solo a chi te lo ha regalato. Come tutti i bambini non è che amassi leggere come amavo la cioccolata. Però non ero neanche una bambina che non leggeva mai. Magari per imitazione, vedendo papà sempre con un libro in mano.
Qualche bel libro lo avevo letto anche io.
Lo scorso anno avevano insistito a farmi leggere il libro Cuore di Edmondo De Amicis. A me veramente non era piaciuto tanto. Era triste e pieno di buoni sentimenti. Sapeva di antico. Anche il nome dell'autore era antico. Io non avevo conosciuto mai nessuno che si chiamasse Edmondo. A dire il vero, non ne ho mai conosciuto uno. Neanche adesso che i ricordi che si accumulano mi rendono consapevole di aver trascorso un bel po' di vita.
Pure il cognome sembra venuto dritto dritto dall'Ottocento: De Amicis. Mi faceva ridere. Lo ripetevo più volte e mi sembrava buffissimo. Lo ripetevo mentalmente sempre più veloce e mi faceva ridere. De Amicis, De Amicis, De Amicis, De Amicis. Mi ha sempre fatto ridere, almeno fino a quando non conobbi il nome di un pittore ancora più buffo: Filippo de Pisis.
Presi a ripetere il suo nome sempre più in fretta e mentre le sillabe si affastellavano e si alternavano nella mia mente, un moto irrefrenabile di ilarità mi spingeva a ridere e ridere sempre di più. Per lungo tempo tradii De Amicis con de Pisis, e devo dire che ripetere a lungo quel nome tra me e me aiutava spesso a superare i momenti scuri che pian piano si facevano largo sempre più spesso nella mia coscienz

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   0 commenti     di: Giacomo D'Alia


Mostri

I mostri non muoiono.
Dentro di noi non muoiono mai.
I mostri vivono negli sguardi dei passanti, nei sorrisi degli amici, nel contatto sfuggevole di una mano, nelle note di una canzone…nelle delicate essenze di un profumo che per te è nicotina.
I mostri trascorrono la loro vita nel torpore di un sonno leggero.
È un sonno molto speciale.
Basta il leggero tocco di un fianco attraverso i vestiti per svegliare il mostro, quando ad abbatterlo è servito ben più di una lotta all’ultimo sangue…una lotta all’ultimo battito di cuore.
Non puoi amare il mostro, ma lo puoi venerare.
Un giorno ti alzi e nei raggi riflessi del sole vedi il mostro.
Quel mostro è così luminoso da sembrare un angelo.
Ma ti mastica il cuore.
E tu ringrazi e ti senti sua serva…perché scambi per vita la morte che ti regala ogni ora, ogni minuto, ogni istante…così sottile il differire di amore e odio, luce e ombra…vita e morte.
Ti sembra di non poter vivere d’altro che di quel suo lento ucciderti.
Quando combatti furiosamente contro il mostro ti piange il cuore, perché vorresti baciarlo, non picchiarlo.
Ti sembra di uccidere il tuo cuore…quando stringi il suo tra le dita è il tuo petto a sussultare e a gemere…
Il calore del suo sangue è il tuo calore.
Sei triste quando muore, ti senti un’assassina.
Triste…troppo poco per quello che senti…ma l’unica cosa che sei.
Fa sempre male quando uccidi ciò per cui vivi, anche se voleva sbranarti.
Quel dolore era il tuo cucciolo, poco importava se ogni giorno faceva a pezzi un frammento di te.
Negli occhi di un boia ancora vivo riconosci una te stessa già morta.
Quel pezzo di cuore che pulsava il sangue soltanto per lei giace come cenere in fondo ai tuoi occhi, quando la guardi e non sai che dire, la tocchi e non sai se fare, quando la pensi e vorresti morire.
Il cuore è morto, ma il mostro è vivo.
Cosa resta di te?
Alessia è morta quest’estate, piangendo.
Alessia è morta quest’estate, sanguinan

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   3 commenti     di: Alessia Lotto


Un sogno (1-3)

Che sole stamane! Questo è il primo pensiero che gli veniva in mente quella mattina, mentre il treno correva via veloce. Nulla di nuovo si diceva, come al solito, ma c'era un tarlo nella sua mente che non smetteva mai di scavare...
Ignazio era un impiegato di una grossa azienda che produceva profilati in metallo, destinati all'industria edile. Lui era la punta di diamante dell'ufficio sviluppo, le sue capacità di disegnatore industriale, erano indispensabili per la messa in produzione di intere nuove linee di prodotti, via via sempre più ergonomici e competitivi sul mercato.
Lui abitava a Napoli, e tutte le mattine all'alba, prendeva il treno per recarsi al lavoro in un'altra città.
Era un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri appena spruzzati di grigio, non molto alto ma asciutto nel fisico. Una famigliola affiatata, la moglie insegnante di Scuola Elementare, due bambini e... la sua famiglia adottiva.
Già, Ignazio era stato adottato da piccolino. La mamma adottiva non parlava volentieri di questo argomento, e tantomeno il padre.
Per lui però, scoprire di più sul suo passato era importante, un tarlo appunto.
Desiderava tanto conoscere la sua storia, sapere se la sua madre naturale fosse ancora viva...
Le avrebbe fatto tante domande, chiesto quale segreto nascondeva quell'abbandono, perché l'aveva fatto.
Ma le sue domande sembravano essere destinate a restare senza risposte; intanto la vita scorreva comunque.
Ora però, che la mamma adottiva era morta, la voglia di conoscere il suo passato era più prepotente che mai.
Fuori dal finestrino la solita campagna, dentro la sua testa i soliti pensieri.
E cosí, mentre rimuginava, si aprí la porta dello scompartimento ed entrò una ragazza sulla ventina. Gentile ma affannata, chiese se poteva sedersi ai presenti.
Tutti risposero di si ovviamente, c'erano due posti ancora liberi, ma la sua entrata lí, rischiò di far scoppiare tutti a ridere. Aveva un vestito a fiori, come non se ne vedevano da a

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   4 commenti     di: Marysol


Hedgehog's dilemma

Ciao, nonno. Ti ricordi di me? Lo spero tanto.
Sai, a me capita spesso di pensarti. Vedo ogni giorno i sedili della mia auto imbrattati dai tuoi pensieri bianchi e vischiosi. E dire che io ci ho provato a pulirli, lo giuro davanti al tuo miserabile dio. Ho finito col consumare intere fabbriche di vetro nel tentativo di cancellare il passaggio della tua lobotomia per niente frenata da candele in lattice.
Quando cammino mi fanno male le ginocchia. I jeans scivolano sulle cicatrici che mi sono rimaste da quella volta che mi volevi insegnare ad andare in bicicletta e io sono caduto. Un rullo compressore da venti tonnellate mi è passato sopra e io sono morto. Non è mica fico come dicono quei cantanti con la faccia pitturata e tutta quella roba appuntita addosso. Ma che ne sanno, loro.
Ma io provo ancora a volerti bene. Ho preso i tuoi documenti, stamattina. Sai, quelli in cui hai la faccia giovane e nemmeno un'arteria occlusa. Ho preso una penna color incubo e ti ho truccato come Eric Draven. Solo che la tua foto si è incazzata un casino. Mi ha mangiato la penna e io adesso non so più come fissare le date sull'elenco telefonico.
Adamo non nacque in tempo per venire al tuo funerale. La bara era vuota, tu sorseggiavi succo d'ananas in un bar lontano dal fiore di loto mentre Caronte a quadretti ti traghettava verso una riva che non hai mai voluto raggiungere.
Quella vecchia bicicletta è ancora in garage, sepolta da qualche parte sotto lucciole e gufi. Di notte la sento gridare, ma io stringo forte il mio carro Katjusha e aspetto l'alba senza piangere. È stato Satana a insegnarmi a guidare la Katjusha. Lo ricordo ancora con un Arbre Magique appeso al collo e una rosa tra i capelli. Mi sono beccato anche 30 euro di multa per non aver investito una comitiva di turisti marziani in visita al ricordo quando presi posto dietro alla cloche per la prima volta.
A volte mi sento strano. Le lapidi lanciano le liane dai polsi, ma io sono diventato bravo a schivar

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