Mi ricordo ora dei lunghi anni trascorsi con Calipso, nella sua lontana isola, ad Occidente. Mi ricordo dell'amore innaturale di quella ninfa immortale per me. È la donna con cui per più tempo, nella mia vita, ho diviso il letto. È bella, è sapiente, è una dolce amante, è immortale. La mia intima e prolungata consuetudine con lei mi ha permesso di riflettere a lungo sulla condizione dell'immortalità. Parlo, beninteso, dell'immortalità che si coniuga all'eterna giovinezza, ciò che non capitò in sorte al valoroso Titono, sfortunato sposo di Eos, costretto ad invecchiare in eterno, sempre più mostruosamente.
L'immortale eterno giovane non ha urgenza, non ha bisogni la cui soddisfazione non può essere rimandata; non ha impulso ad agire, perchè ne ha tutto il tempo; non consuma a caldo vendette, perchè può attendere, o perdonare, o dimenticare. L'immortale non cerca favori, possedendo già quello supremo, nè cerca gloria. L'immortale non ha posteri. Egli, ella, non ha curiosità perchè ha l'eternità per poter conoscere. La curiosità esige l'urgenza.
Non ha paura, perchè sa che a tutto sopravviverà; e dunque non ha sentimenti, perchè tutti i sentimenti - amore, amicizia, avversione, tenerezza, angoscia - contengono in sè una componente di paura. Non ha voglia. L'immortale non ha motivo di agire, e si adatta all'immobilità, all'assenza perfino del pensiero. Il pensiero, in quanto progetto costruttivo, in quanto somma di operazioni, gli è alieno.
Calipso, ho sempre pensato, volle per una volta tentare la fuga da quella prigione dorata amandomi come le più focose e passionali donne mortali sanno amare, donando se stessa, affrettandosi a soddisfare ogni mia necessità, giorno dopo giorno. Ne fui presto stanco. Desideravo la mia donna e la mia patria. La nostalgia molte volte mi ha portato al pianto, anche perchè avvertivo la colpa di venir meno al giuramento di fedeltà a Penelope. Ma la stanchezza divenne man mano angoscia, oppress
"E qui voglio degli affreschi floreali ", Livia Drusilla aveva ordinato a Ennio Libone anni prima. "Anzi no, voglio un giardino, il mio giardino."
Il povero artista aveva pensato che si trattasse di una richiesta assurda, nettamente fuori luogo e difficile da realizzare in quel locale sotterraneo, con poca luce e aria. Ma non aveva osato avanzare alcuna obiezione, non poteva discutere i desideri della moglie di Augusto.
"Voglio tante piante, fiori e uccelli, infiniti uccelli" aveva proseguito Livia "e tanto alloro, la mia pianta."
Anche l'insistenza sull'alloro gli era parsa alquanto stravagante, ma non aveva osato dar voce ai suoi interrogativi. Con la sua maestria era però riuscito a creare l'affresco del più bel giardino che si potesse immaginare. Non appariva qualcosa di illusorio, ma vivo, palpitante: se ne potevano quasi percepire i profumi, i fruscii.
Quell'orto magico era un'oasi di pace e Livia vi si rifugiava spesso per meditare e riposarsi dai mille impegni domestici e di stato in cui il marito la coinvolgeva.
Ennio era riuscito anche a scoprire qual era il significato dell'alloro. Si narrava che, nel giorno delle sue nozze con Ottaviano, un'aquila le aveva fatto cadere in grembo una gallina bianca che teneva nel becco un rametto di alloro. Livia l'aveva considerato un auspicio aveva subito fatto piantare quel ramoscello là dove poi sarebbe sorta la villa.
Erano passati gli anni, ed Ennio Libone controllava regolarmente la tenuta della pittura, sistemando o rinnovando le parti più deteriorate. Ci sarebbe andato anche quel giorno.
Scendendo pesantemente la scala, provò una specie di brivido, come mai gli era capitato in precedenza. E ripensò all'ultima volta che vi si era recato per uno dei soliti ritocchi, circa un mese prima.
Anche allora era molto impensierito, perché sua moglie Apollonia, che amava dilungarsi in mille dicerie, ultimamente gli stava riportando i malevoli rumores diffusi sulla padrona, e su tutte le disgrazie ca
PREFAZIONE DELL'AUTORE
Prima di tutto, il fatto storico che mi appresto a narrare, con mie parole, con mie invenzioni ad adattamenti poetici, è un fatto veramente esistito, questo per non pensare che sia il prodotto di qualche mia fantasia onirica.
Non vorrei rivelarvi più di molto sul succo del racconto, essendo obbligato a dire però che i fatti qui descritti si collocano intorno al 390 Dopo Cristo, quando l'Impero Romano entrava ( ma era già entrato seppur minimamente) in crisi e quando la Chiesa era già religione di Stato, approvata, contrapprovata e dichiarata.
Vescovi, chiese, cattedrali, Messe, si affiancavano agli ultimi fasti dell' Impero che aveva dominato il mondo.
Una società del resto molto simile alla nostra.
Buona Lettura.
L’alba sorse a Tessalonica con l’impiccagione del governatore Boterico.
Tumulti avevano infiammato la cittadina il giorno prima, durante lo svolgimento annuale dei giochi olimpici con i carri d’oro e le quadrighe bronzee.
Boterico non era il solo a pendere dal muro degli orefici, che si affacciava sulla piazza dei giochi olimpici.
Accanto a lui il funzionario romano Lucio Ventrone e alla sua sinistra il suo spietato consigliere, Emilio Sandalo.
Poche ore dopo giungeva da Salonicco un nuovo governatore, alleato del Cesare Romano, di Teodosio, Savio Parmalo, il quale con un pugno di legionari in molto silenzio prelevò i corpi impiccati e con la carovana delle zucche li spedì a Roma, dall’imperatore.
Questo Savio Parmalo covava un odio profondo per Tessalonica e si aspettava una bella punizione da parte di Teodosio per gli empi cittadini.
I corpi, ben sistemati da Parmalo e i legionari, arrivarono all’imperatore tre giorni dopo con tanto di lettera.
Teodosio credette di svenire davanti a tanta crudeltà.
Là giaceva il suo caro amico Boterico, che presentava sul collo le nette linnee della corda assassina.
E nella lettera, abilmente cucita da Parmalo, l’accusa diretta ai cittadini, ai miglia
Tic tac…. tic tac……
Può apparirvi strano che questo racconto provenga da un assai singolare narratore come posso esser io, ma va detto, ad onor del vero, che il sottoscritto è l’unico essere ad aver assistito a quello che fu poi narrato come un evento di enorme importanza per le sorti della mia opulenta nazione e, perché no, per le vicende dell’umanità tutta.
Sono opera di un fine disegnatore, a nome Valadier, e plasmato da un valente ebanista ed intarsiatore, il Rouillon in persona, della sua medesima bottega. E sono un orologio. Legno intagliato, poi scolpito ed infine dorato, per quello che, modestamente, posso ben definire un vero capolavoro della fine del settecento. Ebbene, ometto di tratteggiare la finezza dell’intaglio, ovvero la perizia della doratura, nonché la stupefacente vena ornamentale che il Valadier posò sulla mia parte superiore, ove un Mercurio si slancia verso l’alto, per non parlare poi della grazia del quadrante smaltato, con numeri romani per le ore ed eleganti numeri arabi a segnare i minuti. Durante quegli anni turbolenti della Francia passai di mano in mano, di corte in corte, di dama in dama. Tutti, grazie a Dio, esterrefatti dinanzi alla beltà delle mie forme, alla sapienza stilistica con cui mi pavoneggiavo, immancabilmente, sulla mobilia e le credenze di maggior pregio che ospitavano quelle sontuose abitazioni in cui albergai per tanti anni. Non mi soffermo, poi, sulla raffinatezza di gaudente armonia con cui scoccavo l’incedere del tempo di quei curiosi parrucconi, tutti assorti, all’ora incipiente, ad attendere l’idilliaco rintocco che promanavo.
Ma quando la dimora del visconte di Monfort fu messa a ferro e fuoco, quel terribile luglio dell’ ottantanove, il padrone di casa non ebbe il tempo o, forse, la voglia, di condurmi via con sé. Eh già, quella notte lo vidi predisporre in fretta e furia una decina di ingombranti bauli, aiutato dalla servitù, e partire, ancora buio, verso destinazione ignota, as
... perché è colpa degli ebreacci anche la crisi di oggi, non lo vedi?
Aziende che chiudono, le banche che falliscono, hi hi mi vien da ridere... Chi c'ha le banche? Ma si sa, gli ebrei! Da sempre gli ebrei c'hanno le banche, ma mica le banche sono in crisi, nooo! Siamo noi risparmiatori che ci rimettiamo, la crisi la fanno con i nostri soldi, hai capito?
Che razzaccia, ma non aveva fatto bene Hitler a mandarli via, a cacciarli dal paese?...
Che dici? L'ha ammazzati?
Ma non è vero niente, ancora credi alle favole che ti insegnano a scuola su quei libri scritti dai rossi?
Hai sentito mai parlare di Paul Rassinier?...
No? Ecco, vedi, è quello che ti dicevo prima, ti riempiono la testa con Aush-vitz, Bucenvald, Daciau e Annafranc ma di Paul Rassinier niente, per carità, mai sentito nominare. Eppure lui lo dice chiaramente che erano tutte esagerazioni e anzi lui stesso, da prigioniero, non ha mai visto le camere a gas...
Non ci credi? E allora fidati della famosa Annafranc, che il libro, si sa, non lo ha scritto neanche lei ma il padre, dopo la guerra, e allora dimmi tu se possiamo credere a una cosa del genere! Ma tu sei libero di farlo così come di credere a tutte le bugie e il fango che gli americani hanno buttato sulla Germania.
Ma lo sapevi che agli inizi del Novecento la Germania era la potenza industriale numero uno nel mondo?...
Sì, certo, anche gli inglesi erano forti e allora capisci bene perché i massoni e gli ebrei hanno fatto scoppiare la prima guerra mondiale, perché dovevano eliminare una potenza concorrente. Allora mandano un pezzente slavo a far fuori un parente dell'imperatore e quindi scoppia tutto il casino per ridimensionare la Germania, per farla fuori e siccome non ci riescono da soli, allora chiamano gli americani e le banche ebree americane che finanziano tutta la guerra in Europa. Ma la Germania non si riesce a battere...
Ah si certo, per carità, una sconfitta l'hanno subita, ma mica i francesi, gli inglesi o gli
Erano da poco calate le tenebre, quella notte, quando dal castello prospiciente il Monte del tempio, furono udite forti grida che squarciarono il cielo sopra la colonna cavalcante di sette templari di ritorno dalla perlustrazione della valle a ridosso di Gerusalemme. Tutti i cavalieri si fermarono all'unisono e il primo di essi, tale Goffredo, alzò la mano indicando il maniero donde provenivano le grida. Armati di coraggio, e della propria spada, si mossero verso il pendio, attraverso un sentiero costeggiato da alberi di ulivo, che davano ampio riparo da eventuali occhi nemici.
Giunti a ridosso del fossato, sguainando le spade si mossero circospetti verso un lucernaio a destra del portone accanto alla torre sud. Altre forte grida, proveniente proprio dalla torre sud, gelarono i due cavalieri più vicini. Questi, lanciando le funi, si apprestavano a salire di soppiatto fino alla sommità della torre, con l'intenzione di sorprendere le sentinelle di vedetta.
Una di queste, si accorse di quanto stava accadendo, e mentre sciabolava la propria spada con l'intenzione di tranciare la fune, venne fulminato da un violento colpo al capo, procuratogli dal secondo cavaliere che a distanza di pochi metri dal primo, lestamente era riuscito a salire sulle mura merlate che congiungevano le torri. I due templari, di nuovo uniti, si mossero carponi verso l'entrata superiore della torre dove si intravedeva una ripida scalinata.
Un'assonnata sentinella presidiava l'accesso, ma un colpo al capo, ne assicurò rapidamente un sonno profondo. Non c'erano più ostacoli, oramai, dieci gradini scesi in un baleno e i due eroi si trovarono innanzi ad una nobildonna con le mani legate a due pesanti catene di ferro ancorate al muro in pietra. Due fragorose scintille, seguirono ad altrettanti due colpi di spada ben assestati e le catene spezzate caddero a terra. Il più robusto dei due cavalieri caricò il debole corpo della nobildonna sulle spalle, mentre l'altro circospetto e la spada in pu
Miei cari avventori avvinazzati - disse il vecchio ai due giovinastri -, vi racconterò. Vi racconterò.
Era ancora la prima metà del secolo, ed io vivevo, con la sola compagnia del mio vecchio maremmano Gilles, in una barca trasandata adibita a dimora in quel del Lago di Como.
Di giorno in giorno passavo di sponda in sponda, di paese in paese, a portare la mia musica. In cambio non chiedevo null'altro che almeno uno o due dei miei ascoltatori lasciassero nel mio vecchio cappello scucito giusto due monete: il necessario per tirare avanti un giorno di più.
Nessuno mi disprezzava, non ero insultato, maltrattato, ignorato, come quelli che al giorno d'oggi voi giovinastri chiamate barboni. La gente mi amava. In ogni paese i bambini accorrevano al mio arrivo, e più di una fanciulla aveva ceduto al mio fascino. Sapete, quello dell'uomo di strada, del vagabondo: avevo storie da raccontare, un passato.
Le donne mi adoravano, già. Eppure mai, mai ne incontrai una che mi facesse veramente sciogliere.
Che fosse in grado di ispirarmi sogni, poesie, canzoni. Una musa, insomma. Non l'avevo; mi mancava, ma ancora non lo sapevo. Ero convinto che tutto ciò che avevo fosse tutto ciò di cui avevo bisogno.
Non era così.
Era in realtà da poco che io ero approdato a quei lidi e avevo iniziato il mio giro: quasi un anno. Tanto per voi, un'inezia paragonato alla totalità della mia esistenza.
Ebbene, io allora avevo deciso che quell'anno lo avrei speso così, di paese in paese, giorno dopo giorno. Trecentosessantacinque paesi in trecentosessantacinque giorni, quello era il mio obiettivo.
E poi via, verso altre mete. Fallii.
L'ultima tappa dell'anno, il trentuno di dicembre 1943, fu lei, Como.
Ed appena vi giunsi, mi innamorai.
Lei era bellissima, davvero bellissima. Clara il suo nome. Era infermiera nell'ospedale della città. Un ospedale da operetta, sia chiaro. Ma lei per quanto poteva vi si dava da fare, per i molti oberati dalle più disparate malattie e fe
La pagina riporta i titoli delle opere presenti nella categoria Racconto storico.