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Racconti surreale

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Paradiso all'alba

Parecchio che Marco non viaggiava in treno, meglio, così aveva tempo per pensare alla sua vita anche se lo faceva spesso, per rimanere, ancora una volta, con l’amaro in bocca.
Ma non si lamentava mai in modo eclatante. Certo, sarebbe stato bello se le cose fossero andate in un altro modo.
E poi oggi era una giornata diversa. Dopo aver consegnato i plichi al Ministero, aveva preso la pazza decisione di fermarsi alla Scuola Militare frequentata da ragazzo, quasi quaranta anni prima. Veramente una pazza idea, ma in fondo lui amava vivere di ricordi e quella Scuola era un piacevole ricordo di giovinezza.
Chissà perché, dondolato dal rumore del treno, gli era così dolce e congeniale ricordare tutta la sua vita.
Gli tornava puntuale alla mente il pensiero di non essersi fatto una famiglia. Gli sarebbe piaciuto tanto, una donna, dei bambini, ma non c’era mai riuscito. Non aveva mai provato e dentro di se ammetteva di non avere avuto coraggio, in questo come in altre cose.
Quando si era arruolato i suoi genitori erano ancora vivi, la famiglia unita, i parenti in armonia. Come era bello, quando tornava a casa, giovane, pieno di belle speranze, come erano belle le feste di Natale e Pasqua e quelle del Santo Patrono, tutti uniti, davanti alla chiesetta bianca che si affacciava sul mare!
Per non parlare dei battesimi, comunioni e cresime, dei matrimoni all’antica, che duravano una settimana, con le file di spiedi che arrostivano nei cortili e i vecchi che parlavano di cose memorabili! I nonni tenevano unita la famiglia. Morti loro, erano cominciati i primi screzi, i litigi fra zii e cugini sulla spartizione dei terreni, cause in tribunale, voltafaccia, smettere di rivolgersi anche la parola.
Ricordava i giorni che tornava in licenza, i genitori tristi, abbandonati dagli altri figli, che erano andati a trovare lavoro lontano, come lui. Ma lui tornava sempre a casa appena poteva.
Anche dopo che i suoi morirono. Tornava sempre e guardava con dolore l’e

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   3 commenti     di: alberto tosciri


seduzione

La volevo per me.

Scarpe basse e abbigliamento semplice, quasi casto. Mai desiderato una donna, non mi sono mai data ai piaceri saffici. Dovrei affermare che non so cosa sia scattato in me, ma mentirei. Ho sufficiente consapevolezza di me stessa da riconoscere il puro desiderio di dominazione, l’istinto che mi rende predatrice, la sottile crudeltà che si sfuma nel mio sguardo.

La desideravo.

La voce sottile, l’ovale puro del viso, le labbra rosee e gli occhi smarriti.
Mi domandavo cosa ci facesse in quel locale, fra corpi rivestiti di lattice e pelle, fra stivali dai tacchi altissimi, fra schiavi in catene e donne al guinzaglio. Stonava. Non capivo perché l’avessero fatta entrare con un abbigliamento così poco adatto.

Doveva appartenermi

Stava seduta, quasi ripiegata su se stessa vicino a una ragazza in minigonna e corsetto di pelle. Mi chiedevo se fosse sua, ma l’atteggiamento di quest’ultima non suggeriva dominio, piuttosto complicità. Sembrava illustrarle quello che accadeva nella sala. A uno sguardo circolare potevo vedere situazioni che ai più apparirebbero sconcertanti: un uomo aveva appeso una ragazza ad una struttura tramite un abilissimo intreccio di corde e lei così sospesa sembrava volare. In un angolo una donna matura truccata come un’orchessa teneva sulle ginocchia un giovane e lo batteva con una paletta. Appoggiata con le braccia tese alla parete una giovane donna subiva il morso della frusta del suo Master.

L’avrei conquistata

Il suo sguardo si spostava da una scena all’altra, gli occhi colmi di stupore e di malcelato interesse. Faceva domande alla sua amica che le rispondeva pazientemente sorseggiando una bibita.
Dallo sgabello vicino al banco la osservavo, ne valutavo le movenze, il peso, lo spessore del collo e dei polsi sottili, la piega un po’ imbronciata delle labbra, la lucentezza dei capelli.
Finalmente il mio sguardo la intercettò. Sapevo i miei occhi penetranti, magnetici, sapevo che sarebbe t

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   3 commenti     di: elena cidda


Rabbia repressa

"Ehi, voi!", gridai qualche metro più in là.
Quelli si voltarono, risero tra loro, e si scambiarono un segno d'intesa. Poi uno dei due fissò la ragazza che aveva davanti e che teneva per la gola. L'altro venne verso di me.
Passo tranquillo, quasi indifferente.
"Vuoi prendere parte al gioco?", mi chiese.
Mi avvicinai al tizio col sorriso da stronzo stampato in faccia e inclinai la testa come fanno i cani.
Gli afferrai delicatamente una mano. Poi con l'indice feci un disegno astratto sul suo palmo.
"Mi fai il solletico", disse ridendo.
Sempre con la mano nella sua, mi avvicinai all'orecchio e sussurrai: "Perché non sai cosa ti faccio adesso."
Mi fissò quasi sconcertato, senza capire bene. Gli sorrisi a mia volta e con tutta la forza di cui disponevo, ricalcai il disegno astratto fatto in precedenza con l'unghia piantata dentro la sua carne. Poi gli tirai indietro le quattro dita della mano.
Si mise a gridare dal dolore ma non mi bastò.
"Vuoi ancora giocare?", gli domandai.
Afferrai alla mia destra, una pistola. Con un calcio lo fiondai a terra e lo costrinsi a guardarmi.
"SEI IMPAZZITA, TROIA?", urlò.
I miei occhi s'illuminarono.
Lo afferrai per i capelli con una mano, con l'altra gli sferrai un pugno in pieno viso e sentii le mie nocche schiantarsi violentemente contro l'osso del suo naso.
"Ti piace passare il tempo a stuprare ragazze indifese? Ora sono io a divertirmi."
Mi fissò col sangue al naso, la bocca e il lembo della maglietta sporchi.
Buttai lontano la pistola e cominciai a riempirlo di calci e pugni. Prima al ventre, poi alle gambe ed infine al viso, e ad ogni colpo sentivo la mia rabbia sfogarsi.
Quando vidi una quantità consistente di sangue sull'asfalto pensai potesse bastare.
Se ne stava a terra, ma respirava ancora. Volevo che rimanesse vivo. Sarebbe stata la sua punizione.
In lontananza l'altro urlava qualcosa e teneva per un braccio una ragazza con la maglietta strappata e che piangeva.
Mi avvicinai.
"Ch

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   11 commenti     di: Roberta P.


Morte di un Dio

L'alba, o meglio, quel pallido tepore rossastro stava nuovamente sorgendo. Sentiva già formicolare il sangue vivo e pulsante nelle estremità, mentre il sonno lentamente lo abbracciava. Volse lo sguardo a ovest, dove il cielo scuro era ancora rassicurante e lasciò cadere quei miseri resti. La poltiglia umana scivolò oltre il bordo e rovinò più volte prima di sparire nel buio sottostante. Il pasto non l'aveva soddisfatto, ma doveva accontentarsi di quel poco che riusciva ad arraffare. La terra tremava e bruciava ancora laggiù. Poteva vedere il colore acceso degli ultimi alberi risplendere sotto il cremisi di un sole ancora giovane. Tutto stava lentamente morendo e anche per lui la fine era questione di poco. Poteva rassegnarsi a questa idea? Mai. Viveva ancorato ai ricordi delle gesta di un tempo, quando non era il solo superstite, quando il profumo delle stagioni gli riempiva il cuore sotto quelle squame nere. Era stato giovane anche lui e aveva goduto delle bellezze di quell'età. Le zuffe per l'egemonia, le cacce notturne, il tremore della prima vittima, il sapore dolce del suo sangue caldo. Poi l'abitudine e il dolore avevano reso amaro quel gusto. Il sogno di primeggiare si era infine avverato, anche se le condizioni in cui ora si trovava lo lasciavano schiavo ugualmente del suo stato fisico. Doveva mangiare e procacciarsi il cibo da solo, il privilegio di primo non gli poteva assicurare alcun beneficio ormai.
Così se ne erano andati i suoi fratelli, gli amici e i sottoposti. Chi moribondo nelle lande desolate che bruciavano, chi abbattuto da temibili uccelli di fuoco e chi infine ucciso dai suoi stessi simili per la sopravvivenza. Mai una razza aveva conosciuto sorte più dolorosa. Solo lui aveva deciso di resistere, la sua posizione glielo imponeva. Così anche il pasto giornaliero era divenuto un miraggio, un compito arduo che richiedeva maggiori energie. E lui era stanco, molto stanco. Avrebbe solo voluto riposare un po', chiudere gli occhi e cullars

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Il profumo dell'Utopia

Erano arrivati a un punto in cui, superata la periferia e le ultime case contadine, il paesaggio si liberava delle sue ultime impronte umane e si distendeva in incontaminati paradisi campestri.
L'arcobaleno, pur essendo la giornata serenissima, si tratteneva ad accarezzare il cielo quasi non l'avesse più abbandonato dall'ultima antica pioggia.
L'uomo si fermo' insieme alla sua misteriosa compagna.
Qualche uccello cinguettava sui rami degli alberi. Ma per il resto regnava tutt'intorno una calma sinfonia di silenzio.
 Voleva bearsene.
E mentre in questo modo fuggiva i pensieri, un pensiero più ostinato degli altri gli sovvenne. Era stato così occupato e incantato, durante il viaggio, dalle parole e dalla figura che l'accompagnava, che non aveva minimamente pensato di chiederle chi fosse, da dove venisse, dove lo stesse conducendo, quale fosse il suo scopo. Si era fatto trasportare come si fa trasportare un fedele cane dal suo padrone.
E quella sinistra padrona stava in quel momento immobile accanto a lui.
L'immobilità, unita al lungo mantello che copriva il suo corpo-se corpo aveva- e alla maschera variopinta che portava, saccheggiava gli ultimi residui di umanità della sua sagoma.
Ancor peggio, l'uomo si accorse di un fatto insolito: non proiettava ombra e il suo lungo scialle, tremolante al vento, si faceva trasparente ai lembi, tanto che attraverso di essi poteva vedere la porzione di cielo retrostante.
Ma questo mix di stranezze, che si ingarbugliava man mano che la contemplava, non faceva che renderlo sempre più succube del suo fascino enigmatico.
Si accorse che l'amava dell'amore che si prova verso un ignoto che è per metà mistero e per metà strana e inconscia intuizione.
E fu questa oscura passione a spingerlo a fare ciò che fece.
Gli uccelli si zittirono. Il silenzio si fece più silenzioso.
Tutto avvenne molto in fretta e con la velocità da cui si esce da un sogno.
Si avvicinò a lei. L'abbracciò con trasporto...
Si trovò a string

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   3 commenti     di: Aurora


Ispirazione

Vagavo per luoghi dispersi, grigi senza vita vera nè colori sgargianti, ogni cosa era ormai insipida, i miei pensieri stanchi senza più alcuna vitalità.
All'inizio non ne capivo bene il motivo, da tempo facevo quel che facevo perchè dovevo, ero quasi un’automa, se sorridevo non era perchè veniva dal cuore, era solo un riflesso incondizionato dei muscoli facciali. Qualcosa mancava nella mia vita, ma cosa? Sentivo come una strana sensazione, come se mi avessero rubato qualcosa, qualcosa che dava sale alla mia vita, come un pensiero che ti scappa dalla mente ma non sai esattamente cosa, come un sogno che al mattino non ricordi bene, ma che ti lascia una sensazione strana, finchè poi, d'un tratto ti torna qualcosa alla mente. Ebbene, a me tornò qualcosa al cuore. Ispirazione.
Mia fedele compagna di fanciullezza, colei che mi permetteva di sognare. Ipirazione era come una straordinaria lente, attraverso la quale vedevo le cose nel loro aspetto migliore, i colori più vivi, i miei pensieri erano più felici, i miei sogni più semplici e veri.
Ispirazione, sole di ogni mio pensiero e di ogni mia veduta. Ma dove era ora? La sua voce più non sentivo, come mai?
Bisognava forse che la chiamassi, forse mi avrebbe risposto.
Mi recai nel parco dove ero solita giocare da bambina e seduta su di un'altalena cominciai a concentrarmi guardano un albero, il sole bruciava sul mio viso e chiudendo gli occhi pensai... e pensai... cercando di ricordare come era prima quando lei era con me.

********

Dove sei Ispirazione?
Perchè mi hai abbandonata?
Quando ero piccola eri sempre con me, cosa è successo dopo?
Perchè ora mi trovo senza di te?
Prima bastava che io guardassi anche solo un fiore e ti sorprendevo a sorridermi,
oppure guardavo il sole e tu mi parlavi.
Ora i mio sguardo ti cerca disperato...
lontano... ma ugualmente non ti trova.
Tu eri i miei sogni, le mie speranze, quante volte abbiamo fantasticato insieme

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   6 commenti     di: patrizia sgura


La coda di Babele

Ovada, 27 febbraio 2001
 
Mancano pochi minuti alle 16 quando il mio "capo", mettendosi una mano sulla coscienza e l'altra sul portafoglio, mi invita a tornare pure a casa: "Stai tranquillo, Roberto. Visto il tempo, credo che ti convenga andare. Ci vediamo domani. Buona serata." Ed eccomi inaspettatamente fuori dall' ufficio, mentre fuori nevica pesantemente da molte ore, ormai.
La macchina è sommersa dalla neve, fatico a riconoscerla. Infine, eccomi in viaggio, finalmente. Ritiro il biglietto dell'autostrada alle ore 16. 15 ( fa fede il timbro della società autostrade) e comincia l'odissea... Dopo qualche minuto di marcia, mi rendo conto che c'è qualcosa che non va: un lungo, pericoloso incolonnamento di autovetture che procedono a velocità ridotta, enormi automezzi praticamente immobili, sul ciglio della strada. Ed ecco che, esattamente dopo sette ( 7! ) chilometri di marcia, sono costretto a bloccarmi. Inizia il viaggio immobile e silente. Sono circa le 17, da quel momento in poi sembra di vivere un incubo, anche se il freddo e la fame mi ricorderanno sempre trattarsi di realtà...
Non descriverò le prime due ore di sosta, perché sono state le più facili da sopportare, con la speranza che da un momento all'altro si potesse ripartire e notizie frammentarie di quei pochi temerari che scendevano dall'auto, sfidando l'abbondante nevicata, per portare conforto agli altri sventurati che, come me, cercavano disperatamente qualche informazione tentando, inutilmente di telefonare. "chiamata rifiutata": chissà quante volte ho sentito ripetere questa frase, dal mio cellulare. Sembrava quasi che continuasse a risuonare nella mia mente, continuamente... Verso le 19 il miracolo: ci muovevamo! Ho assistito a qualche scena di commovente euforia, alcuni lanciavano in aria il loro cappello, altri ridevano istericamente. Ci muoviamo, presto saremmo stati a casa, pensai... E il freddo sembrava ormai un triste ricordo e nulla più. Anche lo stomaco smettev

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   0 commenti     di: Roberto Tarli



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