Credo che tutti noi abbiamo dovuto fronteggiare più di una volta nella nostra esistenza l'assalto del dolore, in qualsiasi forma lo si voglia intendere: dolore fisico, morale, esistenziale.
Esso provoca angoscia, sofferenza, perdita di lucidità, abbandono e frustrazione. La percezione della realtà, in presenza di questo stato d'animo, diventa sempre più debole e le figure che la realtà ci mette davanti agli occhi si tra-sfigurano, ci sembra di essere naufraghi abbandonati su una zattera alla deriva.
Il viaggio diventa una follia, la fuga di fronte ad una realtà che ci soffoca e ci spinge alla chiusura e all'alienazione.
La sensibilità del poeta cerca di organizzare la follia nel tentativo di dominarla, di comprenderla, di organizzarla.
Il conforto della poesia è la catarsi del dolore. È attraverso di essa intesa come strumento di arricchimento che si aiuta l'anima a superarlo, e si trova quella forza di capire e di ri-cucire brandelli di realtà, che l'annebbiamento ci aveva fatto perdere di vista.
In tal modo la letteratura svolge una funzione per così dire salvifica, getta un'ancora a cui aggrapparsi per evitare la deriva, diventa una "risorsa" che permette all'uomo di camminare a piedi nudi nella propria anima, scavarne le profondità e la problematicità, confrontarsi col proprio grido di dolore e sfidarlo.
Io sono dell'idea che il dolore, e qui sto parlando del dolore non fisico, non possa essere conosciuto fino in fondo se non si cerca un atto di ribellione che ne scavi le ragioni profonde e tenda al suo superamento. Il dolore è un'esperienza necessaria, ineluttabile, certamente difficile da vivere, ma se non lo si affronta, se non lo si combatte, se non si trova un modo per controllarlo, per servirsene al fine di approfondire l'esperienza di comprensione del proprio io e del mondo che ci circonda, non ci potrà mai essere via di uscita dalla prigionia.