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Le carrube

a Monchiero, neu tempi in cui filavano
Domenica, Annunziata, Caterina
e le altre donne del pellegrinaggio
a Vicoforte e al bosco del Calvario,
c'erano i grandi cavalli frisoni,
grigi, solenni, pazientemente
rassegnati. Trascinavano carri
rotondi fino al Tanaro, che riempivano
i sabbiatori della sabbia bianca
del fiume, e nella polvere di strade
faticose lenti si allontanavano
verso chi sa quali colline, dove
certo gli architetti di Dio e del re
innalzavano regge e cattedrali.
Nell'attesa del carico, i padroni
davano loro le carrube, quali
quete illusioni di piacere. Erano
lunghissimi baccelli, dal colore
bruno bruciato, come in qualche incendio
in lontane estati, nel Sud perduto;
e lentamente i cavalli, scuotendo
le orecchie appena, quando più fastidio
davano loro vento, mosche e polvere,
masticavano, tenendo fra i denti
il dono, perché più a lungo durasse.
Si fermò a guardare Vittorina
la prima volta, a maggio, che, in segreto,
andò a fare il bagno nella conca
chiara in mezzo ai salici, sicura
da vortici e da anfratti scivolosi
e irti. Vide appesa a un ramo di pioppo
una borsa di cuoio, che era piena
di quei frutti mai visti. Ne prese uno,
lo pulì col lembo della camicia
che aveva ancora in mano, incuriosita,
lo morse, masticò la buccia spessa
e i semi piatti, e subito sentì
uno strano languore per la troppa
dolcezza, e avvertì sciogliersi le membra,
e un piacere misterioso, mai prima
provato, che le penetrava i sensi
fino quasi al deliquio: e il cavallo,
davanti la osservava, sempre più
triste, e sembrava fosse divenuto
ancor più gigantesco, il monumento
della vita che dura, mentre sensi e anima
non sono altro che brividi che passano
(la ragazza, vergognosa, si mosse,
fuggì via).

 


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