Disegnava il fumo ribollente
sull'intonsa lavagna dell'urano
d'una fiera produzione l'effigie,
chiamava acciaio economia
financo fors'anche poesia.
Ridevano i prorompenti altiforni
infrangibili sentinelle
si scorgevano le sbuffanti ciminiere
su un mare inconsapevole
di profumare sempre meno di mare.
E il fumo
lento e orfano di freno
a insinuarsi freddo seguitava
nell'indifesa pelle d'una Taranto
che sempre più affannosa e smarrita
tossendo respirava.
Gemiti sordi dall'acqua erompono
con pugnalante, mascherata violenza
di antica ellenica tragedia
la morte, subdola,
picchia perfida sulla porta
ma nulla, nulla da fare,
dove inquinato è il cuore
e il senso del dovere
di chi preservare doveva Taranto
dal morso incandescente e subdolo
di uno strisciante inquinare.
Lacrime di giovani operai
di cui il falso, incontrollato progresso
gli amici, i compagni incenerì,
fotografie scattano sull'orizzonte
intrise di rimpianti e maledizioni,
e un canto intrecciano a corolla
"Taranto, nascesti orchidea per fiorire
e ai soldati di metallo del profitto
mai dovrai consentire
di vergare sul tuo italico volto
l'impronta incancellabile del morire".
Chiede ora supplicante
il libro poliedrico della storia
che una nuova pagina gli sia donata,
produzione che al futuro guardi
da questo traballante presente
senza mandare a morte, una volta ancora,
le persone e l'ambiente.