Scie di velenosa arsura tracciano,
queste lampeggianti umiliazioni,
lavoro ch'a maledire il lavoro
fu sedotto e addestrato.
Graffi di vacue,
inascoltate imprecazioni
urlano su un cartellino impotente
sangue non più fiero
si scorgono le transeunti ore,
nulla più
che birilli fetidi di rimpianto,
ch'all'oblio prostrati mendicanti,
gementi s'accostano
nel supremo anelito all'annientarsi.
Odora il corridoio
innaturalmente silente
del pugnalante
stridulo sghignazzare
di colleghi insolenti
della carnascial maschera madidi
di ben calcolata perfidia.
Severo m'osserva il mio dolore
dietro le labbra d'una porta
un tempo desiderata e benedetta,
mentre altro non mi resta
che parlare tremebonda e rassegnata
con un computer
che lo strato nobile del mio sguardo
fende e indebolisce
e l'ancestrale silenzio
d'una scrivania impolverata;
più non so dare un nome o un volto
all'incomprimibile tensione del liberarsi,
annientarsi o riconquistarsi,
al gioco perverso donarsi
di ricomporre lo scrigno
dell'aurea epoca
in cui percorrere le scale
il fascino ardente possedeva
dello svelarsi il paradiso.
Perchè, capufficio,
ai nostri anni consentisti,
di febbrile, serrato lavoro
di svestirsi d'un lampo
dei freschi panni della preghiera,
per scorgersi effigie lugubre
di serpenti ignobilmente affamati?
Perchè mai, Wanda,
di mille affari, serate e caffè
solida e riservata amica,
i nostri ricordi consegnasti
alla fiamma dirompente del rinnegarmi
del rimuovermi in un colpo di file?
Rinascere ha ormai
l'infido dileguarsi
di una sfuggente, ingannevole lotteria,
il tuo stritolante amarmi, mobbing,
rivelato mi ha,
forse per sempre,
la potenza del mio insano detestarmi.