Dimorate con me, voi almeno
carezze ondeggianti di astri sfuggenti,
in quell'abitacolo che per alloggio possiedo.
Altro non mi resta,
che scartare caramelle di soave fantasia,
forse damigella di respiri speranzosi,
o fors'algido
indiavolato cecchino
d'un futuro che tal chiamar non oso.
Si accomodano i sogni,
tra le tacche indifferenti del contachilometri,
rovente si scorge il sedile
materasso di percepiti fallimenti,
un'altra preghiera, l'ennesima,
perimetri dolcemente accoglienti cesella
d'un salotto, una cucina, un televisore,
una stanza baciata da un letto vero.
No, più non si lavora,
più non si dimora,
è perimetro di lacrime vestite di perle,
questo scendere dalla portiera
a ogni sbuffante rintocco di campane del mattino,
l'onirica seduzione di potersi lavare,
un pasto caldo alla mensa con Francesco,
il rinfrescarsi tremebondo alle parole d'un frate,
di autentica, effervescente carità ricolme.
Occhieggio al comune traditore,
graduatorie ferme, come stalagmiti
ricamate da velenosa, indifferente burocrazia,
d'inerzia e imperizia madida.
Occupare? No, il verbo kantiano ho cucito
sul tessuto finissimo
di quanto del mio cuore sopravvive
"il cielo stellato sopra di me
e la legge morale in me";
quanto è estenuante e umiliante questa contesa,
tra quel respiro che profuma di anelito alla casa,
e quello che scandendo andrà
la chiusura del mio sipario esistenziale;
risposte non ho che sappiano vestirsi
da autentiche risposte
ma solo per albergo del mio disagio
un ammasso di lamiere ancor composte.