Giace Fonzaso, in la terra dove nato i' fui,
in la valle cinta da cinque monti,
due dalla folta chioma e l'altri da scure rocce e anfratti bui.
Là ove Feltre s'adagia con vie e terre confinanti.
Cismon che dolcemente scorre e, spesso, dirompente,
da ciottoli e gravi massi è osteggiato,
e a destra e a manca a monte e a valle, pria a ricordar di mente,
tante croste dure e scure ha modellato.
E ancor lavora in la buia e stretta cava,
e che da Serra s'incunea tra Vallorca e Avena
e che tutta la dura e ghiaiosa terra lava.
La dentro mal s'infiltra il sol, che par si che il ciel nol'mena.
Prosegue, poi, giù tra Frassenè, Arten, Giaroni e Agana ifin al Corlo sommerso,
e quivi circondato da frassini, faggi, carpini e larghe foglie,
raggiunge lo gran buco nell'acqua immerso,
ove precipita tra li due monti, finché Brenta non l'accoglie.
Quando brentana mal lo trasforma,
tutto sommerge e spazza via, le dolci oasi verdi tra li bianchi sassi,
e li campi appena arati e vigneti dell'uom l'orma,
che lavoro e speranza e ogni ben par che scassi.
Lo rumor de' rotolar de' sassi nell'acque bigie e scure,
colman li giorni e le notti d'angoscia e de paura,
si che par che tutti li monti intorno cadan co' lor rocce dure,
finchè al fin tutto s'acqueta e l'acqua ridivien novellamente pura.
Dentro la stretta gola, di Vallorca roccia,
la gran sedia del diavolo dall'acque è li stata scavata, che par fauci di bestia immonda,
ove a luna piena diavoli e streghe fan bisboccia,
e ballando e ridendo malefici sortilegi a' cittadin manda.
Al di sopra dell'antica ed alta sponda ove ghiaia d'Avena s'è adagiata,
sorge la cittadina con bassi e sassosi muri con calce e sabbia si legati,
con tetti dagli scuri coppi e con canne e lucernai, ove d'inverno la neve, spesso ghiacciata,
co'calor de coppi e grondando crea stalattiti come denti lunghi, aguzzi e congelati.
Lo dì quivi è alquanto corto, che lo bel astro sorge da Tomatico ch'è si alto che l'alba tarda,
e che s'adorna di maestosa e lucente chioma, finché lo sol spuntando sfavilla tanto,
che attraversando lo sereno ciel, par che tutta la terra arda;
finché arrivava colà ove Vallorca è vinto e l'ombra scende come grande manto.
Veste la terra lo grande lume che nel vasto ciel splendendo riede,
anco quando l'umido vapor s'innalza dalla valle e cuopre li monti attorno ad essa
e par si che ogni doglia e ogni cattivo umor perda piede.
Anche inimicizia c'avvelena 'l mondo par si che con l'alba diventi fessa.
Un tempo, là nella roccia d'Avena scura, un picciol castel, con merli e campanella in loco,
costruito fu dall'uom entro due anfratti ombrosi con chiesetta e madonnetta bianca,
e un custode vegliava la città là sotto ed avvertiva tutti se v'era mal evento, brentana o foco,
e sonava al mattin presto per destar la gente ancora stanca.
Questi avea famiglia in quel loco ameno, alcuni capri e piccioli animal,
una vigna sotto e una cengia da sfruttar, acqua che uscìa dal monte e che scorrea su forte cima d'acciaio
per dissetar sé stesso, la famiglia e le bestiole, per scongiurare i mal,
che a mancaza d'elemento avrebbe causato un grosso guaio.
Questua era suo compenso, di farina e d'alimenti e non danaro,
che scarso avea in tasca il cittadin, che vivea sol di campo, artigianato e picciole botteghe,
e s'arrangiava qualche oste che a raro passegger dava riparo.
Qualche vacca, galline e porci s'allevava, v'era un mulin e due picciole e rumorose seghe.
La picciola chiesa co' suo campanil alto e aguzzo che dominava la valle tutta,
avea un altar maggiore e otto secondari e statue e affreschi d'ottima fattura
e la gente venia a seguir la messa stipati in panca in legno costrutta,
con inginocchiatoio per giusta tenere la postura.
Un organo posto in alto loco, da non vedente sonato venìa,
con musica solenne in feste e grandi eventi
e con lugubri note quando qualcun de' cittadin se dipartìa.
Ed era si forte e chiaro il suon da farsi sentir anche all'assenti.
Quasi tutti eran cristian credenti e con numerosa prole
e chiedevano a Dio salute, lavoro e vita etterna,
quando l'ora fatal venìa e quando Egli vuole.
Paradiso era la meta di vita esterna.
Al piè del gran monte ove il ghiaion era coltivato
da vigneti e frutta e di cibar altre cose,
dalla parete rocciosa alta e scura era sovrastato,
con cenge, cespugli ed alberelli vari che natura pose.
La cima d'esto monte, di pascoli era ricoverta in parte,
e di vasti boschi e natura selvaggia e tanti animal che mente non misura.
V'eran capriol, falchi, serpentelli ed altri, e tutto creato ad arte
da un Dio che tutto dava all'uom sanza usura.
A fronte stà Vallorca la cui punta lo ciel sempre par che taglia
ove sopra Mellame v'era ostello con irta strada
che portava al gran forte ove vi fu aspra battaglia,
tra boschi e pinete e rocce e fauna brada.
Roncon facente parte di Grappa, il gran massiccio fiero,
sotto sua folta chioma v'era la via di pressata terra,
che in alto se stringea e s'allungava fin al gran cemetero
dov'eran sepolti l'eroi della gran guerra..
Tutta la valle da' monti fino al sacro fiume,
furon invalicabil barriera a lo stranier, che d'Italia nostra
volea lo dolce suol conquistar col suo prezioso lume,
e che dopo tanto sangue la sua volontà fu prostra.
Esta verde e selvaggia terra era come paradiso
e mai nessun, almen nel cor, l'avea fatta fella.
Tanta povertà v'era, ma anche molto riso
ed è per ciò ch'era tanto bella.
Dalla prima stagion al freddo e gelido vernaccio,
nell'aere terso e nelle notti belle,
ciascun coi piè in su le punte e levando 'l braccio,
parea si con dita di toccar le stelle.
Nell'ultim mese del cinquanta quando lo sol splendea di più nell'emisferio basso
ove siede capricorno che l'intero sud di pianeta abbraccia
e ove ogni uom, camminando, dal gran calor divenìa lasso;
quivi, nel settentrion d'Italia, lo freddo era si intenso c'ovunque in la terra v'era ghiaccia.
Esto gelava l'umido vapor de'vetri interni, che con cristalli trasparenti
pingea fior di varie specie e si strani e belli c'ogn'un in cor a guardar godea
e nessun uom coglier potea, nemmen le nostrane genti,
che nelle case al calor de' foco, ciascun a scaldar le membra sue, sedea.
Alta la neve, che per l'intera notte fitta scesa era nel settentrion intero,
sovra l'altra che pria s'era adagiata e che l'uscir di casa arduo parea
se con badil non si spostava a' lati pe'costruir sentiero,
che fuor de' cortil menava infin alla strada di Mezzaterra, che giuso fin alla gran piazza andea
I' aiutai lo genitor mio a scavar quella via stretta e mera,
che da due muri de bianca coltre se chiudeva, e ritornando al loco ove eravam pria,
mirando la picciola mia casa, si alta sembrò che per neve verso lo ciel ita s'era.
Corsi suso in mio eremo sul tetto e li stetti sdraiato sulla neve, finché son me vinse e con mente volai via.
Così me trovai, con mia imaginazion, ai piè del gran Vallorca ne la profonda cava,
proprio sotto a lo gran buco ch'entrava nella roccia scura,
che sol a guardarlo era sì brutto e buio come de'vulcan la fredda nera lava.
Ne' profondo del cor mio, ne' vederlo suso, me mosse dentro 'na gran paura.
Quando vidi da quaggiù un uom con pelle rossa come sangue in vena,
che un dito mosse come a dir: "vien suso fin quassù in quest'alto loco",
e disse "frena di me la tua paura, che qui nessun te ferà del mal o te darà pena,
che lieti siam di tua venuta, di molto e non di poco".
Ei era basso di statura, con picciola gobba dietro al petto,
la faccia era lunga e magra con suso, sanza villo, gran capoccia.
L'occhi sui eran a guisa de fessura, sanza ciglia e lo naso con foro netto,
dal qual pendean due bargigli, che in la punta eran tondi come goccia.
Ei avea 'na picciola bocca e 'no collo lungo e dritto a mo' di lancia,
ch'entrava intro un petto liscio come de metal li duri scudi.
Semi vestito era, con straccio infin la pancia,
dal qual uscian due gambe lunghe e secche e li piedi larghi e nudi.
"Qui il salir è alquanto duro", disse " ma tien la manca che'l venir è più dolce per chi va sanz'ala,
che l'andar da l'altra parte ove roccia è più liscia e irta te saria più forte".
Come alpin che roccia scala sanza tema de l'altezza, così salii l'ardita scala,
che da Cismon s'andava in suso fin all'apertura c'avea le rocce torte.
Qualche alberel presi con mano per tirar suso lo corpo mio lasso,
e a un de'spunton de roccia me poggiai, che fuor de' monte se venìa,
finché arrivai lassù ove lo monte è fesso
e poggiai li piedi ove lo rosso uom stava prìa.
"Ora occor che tu entri da la fessura ch'è al tuo destro braccio",
disse lo strano uom che già entrò nella grotta tosta,
"che luce de'tuo sol, anche se poca, m'è molto d'impaccio,
perch'io vedo sol di notte come vipistrel che nell'aere nero ben s'imposta".
I' me ritrassi un po' com'uom che teme e ritorna su suoi passi,
così la voce sua me giunse ancora dalla grotta scura
e dissemi " Intra che noi siam boni e viltà occor che lassi".
Così fecimi forza e là intrai a fatica scordando la paura.
Esta grotta non era proprio nera, ma d'un color arancion purpureo,
come se foco al centro ardesse e le tenebre squarciasse 'n poco.
Infatti, a metà de'gran cerchio piano v'era un grosso lume rosso aureo.
ch'uscia dalla roccia, preveniente da sotto il loco.
Nella piana ove non vedea la fine, di basse piante ed erbe era ricoverta, onde
i' dimandai a lo rosso uom: "vui chi siete e da qual parte arriva esto foco"?
"Tu si giovine" disse "e nun sai che sotto la terra che tu pesti, per pression anco la roccia fonde,
e tutto quel che vedi galleggia sovra esta lava e nui galleggiam su essa anco in questo loco".
"Lo lume ch'esce da là dentro, vien da esto mar caldo che sotto dilaga
e che scalda la caverna e l'irradia tutta co' suo rosso raggio".
"Qui cresce tutta esta flora rossa che la nostra fame appaga
e che in tutto lo piano, sanza tregua, riscresce anco quando, pe' tante volte, i' recisa l'aggio".
"Tutti li monti che saettan verso lo ciel a'settentrion di vostra Italia,
spinti fuor in suso da tremenda forza
di terra d'Africa, che pressò si forte la placca in la vostra faglia
si che, con doglia dè l'animal, ruppe la sua spessa e dura scorza".
"Nui semo l'esseri venuti in questo loco da luntano assai
con nave che non veleggia pe' vostri mar, ma son di quelle
che ratte attraversano l'universo, vasto più che vostra mente ragionar può mai;
e semo quelli che vegnon da no mondo che trovasi di là delle vostre stelle".
"Esto pianeta gira intorno al gran sol che più del vostro brucia
in una faccia, che niuna vita ve seria, poiché lo suol nell'etterno dì par che arda;
e come lo vostro pianeta su se stesso gira, lo nostro nun se cruccia,
che fermo stà, si che l'altra parte è sempre notte tarda".
Anco le quattro stagion che quivi stanno
a causa de l'asse de rotazion che rispetto al tuo sol è inclinato,
da nui ve n'è una sola in tutto l'anno,
si che vui avete lo freddo, lo caldo e lo clima temperato
"In quella faccia de lo pianeta scura, la gente mia vive assai a lungo e v'è poco lutto,
che trecento de' vostri anni lo nostro corpo và, ed io n'ho già ducento e son tanti".
"Così lo nostro intelletto è si alto che leggi d'energia e matera conosciam quasi tutto,
e possiam curvar lo spazio e lo tempo si che luntananza a nui non vanti."
"In dieci semo quivi giunti non per nostra voluntà, ma per essiglio,
poiché le leggi de' nostro feroce imperador abbiam violato,
sol per libertà che li non v'è, ne buone regole ne buon consiglio,
e quivi 'na gran nave, per scontar nostra pena, c'ha portato".
E i' parlai: "se licito m'è, tu che si sapiente, i' vorrei dimandarti se puoi squarciar li veli
de' misteri che nostre religion van a parlar d'un Dio che creò questo e l'altri mondi;
s'Ei guarda ver nui per farci un dì contenti, se l'orazion li peccati nostri celi".
"E dov' Ei dimora nel vasto ciel e se altre realtà fecondi".
Così parlò ei: "I' e l'antenati miei le strade d'universo abbiam percorso invano come fiumi,
e di si alta potestà mai trovammo traccia alcuna, ma nui crediam che sia Colui,
che creò l'energia e le sue leggi, la qual crea matera e la move, ed appiccia li tanti lumi,
che de notte tutti miriam in lo ciel, con li pianeti e gli spazi che sembran bui".
"Tante galassie son state accese dal material che cotesta forza nel tempo ha plasmato
e, forse, essa stessa è quel Dio che nui cerchiam da sempre tra le cose belle".
"Se così fusse lo nostro Creator sarebbe ovunque, in tutto l'universo amato;
così anco nui, poveri mortal, l'avremmo in grembo, perchè siam fatti co' la matera de le nostre stelle".
"Infatti, esti lumi grandi fornaci sono e a cominciar dal primo elemento de matera,
dal gran calor insiem se fondon l'un co' l'altro, fino ad arrivar all'ultim, che ha si tanto peso
e forza molta, da tener legati li pianeti ch'intorno giran a la gran focosa sfera;
finché al fin, col passar dè millenni, lo material che dà lo gran calor vien speso".
Lo rotar de mondi vien da cotesta forza, che vui chiamata "gravità"
e che tutto l'universo governa ed influenza sanza posa alcuna
ed è tanto più forte quanto più massivo è lo celestial corpo che girando và.
Lo tuo pianeta gira intorno a lo tuo sol, ma la sua gravità tien ver sè lo picciol corpo che vui chiamate Luna.
"Alcune d'este gran stelle al fin esplodon e tutta la matera intorno a lor gittan si
che se forman li pianeti, le lune, le comete e altro assai e anche lo nostro mondo".
"Lo vostro lume per pochi miliardi d'anni ancor vivrà, poi pian piano li sui rai diverranno rossi,
s'espanderà e ingoierà li pianeti e lentamente se spegnerà diventando una sasso duro nero e tondo".
"La vita sparirà per sempre, l'omini li augel e l'altre specie tutte,
perché anco lo vostro mondo co' tempo sarà coverto d'esti rai rossi
e lo pianeta diverrà secco come li diserti e le terre asciutte,
poiché dispariranno li mar e tutti l'altri fossi".
"Altri pericoli ve son per la vostra amata terra e anco per la nostra,
come l'asteroidi o le comete che passan si vicine, che posson cader anco adesso
o in ogne momento. E Andromeda che punta dritta alla galassia vostra,
si che un dì la inghiottirà tutta e non le serà più, com'ora, sol d'appresso.
"Poi tu devi capir che tutto ciò che ne' l'universo sta, ha avuto un inizio,
cioè v'è stata 'na causa prima pe' poter esister in ogne parte;
in altro modo, se dovrìa andar a retro all'infinito se ciò non fusse vizio".
"L'albero ha avuto lo seme e lo seme lo fior pe' far la sua arte".
"Or lo nostro Creator esta causa efficiente non v'è mai stata, altrimenti nun sarebbe un Dio,
e, se ben ragioni, Ei sarebbe in atto da sempre se causa non v'è stata alcuna,
così non sarebbe mai nato, come un tempo siam nati tu ed io,
ma sarebbe sempre esistito e sempre esisterà nei millenni sanza fin niuna.
"Tu si lo maestro mio" dissi "e voglio dimandarti ancora, ch'i' non cape, molte altre cose".
"Primera fra tutte; com'è possibile che la matera, che inanimata è cotale,
possa crear la vita in questo e in altri mondi, che si lontani Dio pose,
dove l'animal movon li piedi e lor mani e de' l'augel batter l'ale"?
"E lo cor che pulsa intra lo nostro petto si che lo sangue vada in suso
e possa plasmar de l'omini lo lor intelletto puro,
si che scienza possan scalar sanza mai andar in giuso,
anco se lo sentier de conuscenza è si tanto duro"?
"e ancor; tutti li nostri pensier e li tanti ricordi,
che per mente passan ogne minuto, ogne dì e avante ancora;
le tante erbe co' lor color e lor frutti che anco tu mordi;
tutte l'acque, le brezze, lo stormir de' foglie e la forte bora"?.
E dissi novamente: "e le gran tempeste, che agitano li mar e in la terra tutto,
la piova, li fulmini e li tuoni che fan si gran rumor;
l'amor e l'odio, le gioie e li dolor, la violenza e la bontà, l'allegria e 'l lutto;
infin a la cuscienza che molte volte morde dentro a lo nostro cor"?
Ed ei rispose: "se l'occhi tui sarien si forti da penetrar matera,
tu vedresti tanti piccioli pianeti rotar intorno a' lor soli, che quivi in terra qualcun per ora cita,
e son si tanti, che stelle in ciel son poche, che in lor confronto la conta è mera,
e se combinano fra lor formando le molecole, li aminoacidi, le proteine e la picciola invisibil vita".
"Esta picciola vita ne' millenni sè evoluta si, che altre specie, nel mar caldo, da essa sono nate;
se formaron li piccioli pesci che notavan nell'acque e che qualcun, un giorno, se n'è uscito fora".
"Li mezzi del notar d'esti pesci se mutaron in arti, si da farli camminar su terra e prate,
Finchè un dì se formò l'uom che se mutò fino a quel ch'è ora".
"Le emozion e li movimenti tutti, son frutto de la massa cerebral c'avemo tutti intra la capoccia,
ove li neuron mantengon per lunghi tempi le memorie che in vita nui accumuliam si tante".
"Le confronta sempre, quando nui pensiam de far 'na cosa e le interpreta e ce dà risposte goccia a goccia,
a seconda de movimenti che vogliam far, a' ragionamenti e a l'intenzion tutte quante".
"Quivi avvengon certi fenomeni che posson dar gioia, dolor e, ancora,
aggressività, generosità, pentimento e molte altre emozioni".
"La coscienza è cosa più complessa, che lo ben e lo mal separa ed entrambi memorizza ed esplora;
poi compara le memorie in senso tal che te avverte se l'atti tui son malvagi, che ad altra gente imponi".
"Se ben hai oprato e l'altri son contenti, te dà gran gioia e ben t'ammiri;
se mal hai fatto ad alcun, lo fai triste o l'uccidi, esta coscienza te perseguita sempre e te dice che sei abbietto;
la senti ora dopo ora, giorno dopo giorno e ovunque e in qual modo tu te giri,
finchè te rende la vita grama e al fin, pe' far ammenda, te fa batter li pugni al petto".
"Li fenomeni natural, che tu hai citato innanzi, son frutto de l'energia tutto quanto,
che move tutt'intorno a nui la matera, cioè le galassie, li soli, e li pianeti".
"Lo calor, che fa salir l'umido vapor che in alto in acqua riede, s'accumula in ciel si tanto,
che fa scoccar li fulmini tra le stesse nuvole e la terra che, a volte, sembran queti".
"Questi son frutto de la diversa energia che negativa e positiva è,
si che quando l'una più forte è dell'altra, tendon a compensarsi a lor dimanda,
per legge natural che tende a mantener l'equilibrio quando lì non v'è".
" Lo globo ove tu vivi è positivo a attira li fulmini che lo ciel ver vui manda".
"Li fulmini son si veloci e accecanti, che luce de' vostro sol a lor se compara,
e trasportan material si caldo, ch'è nomato plasma, che serpeggiando di tutto lo vapor intorno priva,
e sposta l'aere con gran violenza, la qual qui in terra non è si rara".
"Tal spostamento fa lo gran rumor che vui chiamate" tuono", che all'orecchio vostro arriva"
"Anco lo rotar de' vostro mondo crea vortici d'aria o altri gas che là vi stanno,
si che se formano li venti, li temporali, la bora o le gran tempeste,
che fan cader la piova, la neve e la grandine, che son si numerose in tutto l'anno,
e a volte son si furiose e si devastanti che fan, al lor passar, le genti meste".
Ancho lo calor che move l'aria calda verso l'alto con moto vorticoso,
crea un vòto che aspira l'aria fredda che tutto intorno v'è,
che veloce riempie esto spazio e può esser si violenta che lo mar fa periglioso,
con doglia de' naviganti che via di scampo, in quel loco, poca ve nè.
Mentre parlavam d'este cose, sentii no picciol tremor mover la terra
e no leggier rumor come vento move le foglie intra l'bosco.
Lo rosso uom drizzò l'orecchie punte e guardò suso ove la roccia in alto serra.
I' fei altrettanto ed ei disse un po' sorpreso "esto fragor già i' lo conosco"
"Nun te crucciar se di quà un poco, tu vedrai cosa assai grande
che niun in esto tuo mondo ha giammai veduto ancora".
"Fa che in quel sasso la tua persona posi e tienti stretto al masso, quande
a guardar lassù l'iride de' l'occhi tui, par maraviglia, più se spanden fora".
Come luce filtra lo spesso vetro e che ratta il trapassa
si che dall'opposta parte esce tal come pria era,
così vidi n'oggetto de metal chiaro e che lucea, passar le rocce come fosser glassa,
che scese infin all'orto lo qual si sciolse e divenne come rossa cera.
S'aprì 'na porta tonda dal suo chiaro scafo, con picciola scala che scese in giuso.
Ond'io: "cos'è esta cosa e com'ha fatto a trapassar lo muro"?
"I' non posso ben chiarir la mente tua", diss'egli, "che la cosa è si alta che tua ragion non va fin suso".
"Da nui è cosa che se fa sempre, ma quivi e con te il parlar sarìa duro".
Ei parlò con lo rosso uom che scese e spirò con parole che parean de gloria,
poi se spinse ver me e disse: "nel mio mondo lo gran imperador è sconfitto e morto,
e questi che tu vedi son sin qui giunti per portar noi al nostro globo pe' festeggiar vittoria
e pe' ricompensar nui che avem subito si grande torto".
"Diavoli e streghe mai più de notte vui vedrete, poi ch'eravam nui ch'uscivam no poco,
a lavar nostre persone e a spirar l'aere puro nel torrente che sta la sotto".
"Poi pria dell'alba salivam suso ancor in questo loco
e spettavam la notte dopo, per uscir ancor da' esto sentier da le rocce rotto".
"Se lo tuo voler è dotto, puoi venir con nui a visitar lo nostro mondo ove natura li ci pose,
te mostrerò le beltà dell'universo e li sui grand'eventi,
si che tua ragion s'evolva, che quivi non v'è possibilità alcuna de conoscer certe cose,
che sol viaggiando se può veder e memorizzar ne' vostre menti.
Potrai mirar le immense forze che paion si divine,
che crean e distruggon li vari corpi, piccioli, grandi, chiari e scuri,
e che rompon la matera che v'è nell'universo intero e la rinnovan sanza fine,
si che nulla se disperde, ma ritorna in altra forma, sì che in eterno essa duri".
"Niente se crea e nulla se distrugge di quel che v'è, si che anche tra mille e mille e più anni,
se ben calcolar tu sai, lo conto d'energia e de matera sempre torna, morta e viva".
"Però se dovrà sempre considerar l'energia e la matera oscura che l'occhi umanni
non pote veder come nui vedemo ed è si tanta da superar di molto quella che all'occhio arriva".
"Sali or dunque su nostra nave, che pentir nun te potrai giammai;
alza cun nui le vele del tuo saper per giunger ne' l'alte vette de' conuscenza,
perché altre occasion si grandi mai più n'avrai".
I' assentii e seco lui e l'altri nove salii sul gran vasello e m'accinsi a iniziar a salir la scienza.
"Quivi de luce non ve n'è, nemmen un raggio" diss'io a lo duca mio "e niuna cosa vedrò giammai;
come poss'i' mirar le maraviglie de l'universo se l'occhio mio è spento"?
Ed ei rispuose: "Indossa esto casco infin al collo, che si vedrai le cose anco sanza di tuo sol li rai"
"Ho maraviglia"! Con lo stran cappel l'occhi miei s'aperser si che tutto, in nave, mi fu conto infin a cento.
I' vidi lo nocchier che sanza leve o rote menava 'l mezzo sol co' li pensieri sui.
In testa avea 'na cosa strana con cento punte c'andavan suso,
e l'occhi sui miravan un gran specchio che infin al tetto salìa, ov'io vedei la grotta e gli anfratti bui.
E i'dissi " e mò come femo ad alzar de la nave il muso"?
Così favellando, non m'accorsi ch'eravam già partiti e lo rosso uom me disse: " la terra ove tu si nato
l'avem di già lasciata e Marte è li devante con li sui diserti rossi,
li sui monti e li sentier che l'acque sue, un tempo lontan, han scavato".
"Esto pianeta più picciol è del tuo e ora niuna vita più levar possi".
"Ivi l'atmosfera è rarefatta assai, si che li nocivi rai de lo sol la trapassan infin al suolo,
come li sassi esterni che sovente lo percuotono e scavan buchi assai profondi,
che sembran mari asciutti con alte dune, dall'equator infin al polo".
I' gurdava sanza proferir parola, par maraviglia e pensando all'altri mondi.
Rosseggiando Marte passò in tempo assai breve, onde lo maestro mio
disse: "guarda laggiù che v'è lo grande Giove, ch'è tutta ghiaccia infin al centro,
e gira intorno a lo sol co' li seguaci sui, come se veramente fusse un Dio;
ma nun son l'acque che fan la ghiaccia, ma l'altri gas che in pancia ha dentro".
"Vedi quella gran macchia rossa che sta fuor da lo centro suo"? "Gran tempesta è, che da millenni rota
sanza pausa alcuna ed è si forte, che tempeste in terra non sun niente
al suo confronto, tanto che lo tuo pianeta, dentro ce stà tre volte e, altra nota,
d'ammoniaca e altri gas è formata ed è tanto fredda da congelar qualsiasi mente".
"Oltre questo Dio potente, ve son l'altri Dei che se nomen Saturno, Urano, Nettuno e Plutone".
"Al di là di questi ve son l'asteroidi e le comete, così che occor andar per altra via,
poichè un de questi gran sassi può danneggiar la nave se mal la si dispone".
"Or lo nocchier drizzerà la prua a dritta, e curverà lo spazio e lo tempo pe' arrivar ov'ero io pria".
"Tienti forte a lo tuo sedil, che di quà un poco, grande esplosion avverrà,
la nave tremerà no poco e lo spazio se curverà, da filo dritto a come un cerchio netto,
si che lo punto da cui partiam, vicino a quel d'arrivo arriverà,
si che luntananza è quasi nulla e la nave veloce andrà infin a lo mio pianeta, ch'i' me porto intra 'l petto".
Dopo qualche istante un fragor distinsi e un lampo vidi serpeggiar intra lo specchio.
La nave tremò e ondeggiò no poco, ma poi se stabilizzò.
Mirabil cose vid'io che lo maestro mio additò e votò lo secchio
de sua tanta sapienza, che mente mia elevò e l'orecchie mie drizzò.
"Or guarda laggiù que' due punti, che di color violetto sono cotali,
che pulsan e giran si ratti attorno a se stessi come amorose sore;
este son stelle de neutroni e mandan fora rai si forti e letali
che distruggon ogne cosa che trovasi vicino al loro core".
"Una d'este stelle, più grande dell'altra è ed è si feroce e ria,
che se magna l'altra sora a poco a poco ne' millenni o più avante,
finchè resterà lei sola e serà più forte e potente che pria".
"Serà più luminosa de' l'altre stelle, che lontan brillan si belle e si tante".
I' vidi ancor de' mondi trasparenti come li puri diamanti
che scomponean la luce de lor soli formando arcobaleni
come prismi in terra che di color ne spandon tanti,
e che apparian e scomparian a secondo de lor ratazion etterna e sanza freni.
E vidi le galassie con tante stelle, nubi de matera scagliate in ciel da supernove esplose millenni pria,
buchi neri che traevan ver lor le vicine stelle, che mai più venian fora.
Anco la luce lì intrava, ma da quell'immenso buco più n'uscìa.
Ond'io "maestro, d'este maraviglie parlerò ne lo mio mondo, si che mente umana dovrà salir ancora".
Ed ei disse: "tua intelligenza è grande assai, che hai capito quel ch'i' ho detto e capirai quel che dirò ancora;
ora puoi mirar lo mio pianeta ch'è laggiù ov'è quell'emisferio tondo".
"Come tu vedi ha due color, l'una parte è chiara e l'altra è nera come mora;
tra poco tempo scenderem giuso in lo suol de lo mio amato mondo".
Lo gran vasello toccò lo suol sanza gran rumor, ma l'aere non era proprio scuro,
che tanti fochi rosso bruno uscìan dal suol e l'orizzon era un cerchio chiaro e supremo,
per li rai de lo gran sol che a' limiti de' pianeta passavan per l'aere puro.
E lo duca mio disse: "l'emozion mia è si grande che a guardar giuso, tutto fremo".
Quando fummo scesi in la nera crosta, gran folla s'era adunata con tutti li parenti suoi,
che s'accalcavan intorno a lo gran vasello, gridando la lor gioia,
osannando e onorando co' lor capi chini, li lor grandi eroi;
finchè s'accorser de la mia persona e zittiron tutti e guardaron me con un po' de noia.
Lo mio dottor parlò a tutti nella sua strana lingua e poi se rivolse ver me con reverenza
e disse: "ho detto lor che tu si l'amico mio e che vuoi conoscer lo nostro mondo
e di accoglier te come fan con nui". Tutti iniziaron a chinar lor capo e ricominciò lor gran accoglienza.
I' fei altrettanto chinando lo capo mio e rigirandomi tutto in tondo.
Finiti li festeggiamenti ognun se ritirò ne' loro ambienti,
ch'eran torri alte e strette che saettavan verso lo ciel pien di stelle,
ond'io: "ora che facciam e in che loco vado a loggiar e a mover li miei denti"?
"Vieni meco" disse lo rosso uom, "che ho due stanze assai belle".
Salimmo s'un stran congegno, che i' non vedea bene ne suo color ne sua forma,
che ratto se mosse scansando le torri con gran destrezza,
finchè rallentò sopra un tetto tutto tondo e lo trapassò, come norma,
fermando in un alto pian con stanze e letto e con finestra che fea passar piacevol brezza.
Ei me diè del cibo ch'era in un loco dentro a lo muro.
Eran fior rossi carnosi con frutta e 'na bevanda d'un color nero, la qual me mise un po' d'impaccio.
Li fior avean un buon sapor, tanto che li mangiai tutti, anche se lo stel era piuttosto duro.
Bevvi e me setii sazio, tanto che lo ringraziai e dissi "ed or che faccio"?
"Or sdraiati sul letto e dormi, che devi guardar oltre la realtà, perchè
sempre occorre creder alla maraviglia de' nostri sogni".
"Nui intanto ci prepariam a ritornar, per portar te nel tuo mondo, poiché
quivi non fa per te, che no ve son ne forme ne color che tu, terrestre, agogni".
I' me sdrai sul letto e per la seconda volta lo son me vinse
e me risvegliai dentro lo gran vasello nel sedil ov'ero pria.
"Svegliati ben che hai già dormito molto" lo mio duca disse e con la cinta lo corpo mio cinse.
"Or partiam per lo tuo pianeta, ma per diversa via,
si che potrai veder la tua galassia e l'altri pianeti che ancor non hai veduto
e tua mente salirà ancor e diverrai più colto dopo aver veduto tutte quelle cose belle."
Così ce alzam dal suol e salimmo in quel gran mar che parea velluto,
che s'estendea sovra lo pianeta e ch'era carco di brillanti stelle.
Ei disse: "ora puntuam dritti alla galassia tua, si che tu la potrai mirar sol con l'occhi tui".
I' sentii la nave tremar ancor sotto li piedi e lo specchio divenne chiaro sol per un momento.
"Vedi laggiù quel piatto tondo che brilla più al centro che de fora? Li dentro v'è lo tuo sol co' li mondi sui,"
"miliardi di stelle là ce stanno co' lor pianeti e le lor lune". I' gurdai maravigliato e con lo cor contento.
Dopo qualche tempo vidi 'na stella che lucea più dell'altre e dissi: quello è forse lo mio lume"?
"Si", diss'egli "ma occor restar un po' lontan che li rai son si potenti da bruciar la nave se gli stiam d'appresso, e or vedrai l'altri due pianeti che prima della terra tua galleggian come piume".
"Ecco lo picciolo Mercurio ch'è si caldo che vita lì non v'è e lì è Venere, che luce a par di stella anco adesso".
"Quest'ultim è simil a la tua terra, ma è si caldo per l'atmosfera densa ch'intorno v'è".
"Ivi le nubi, d'acido solforico son formate e fan si ch'esso luca più all'alba e alla sera,
tanto che le antiche genti lo veneravano come un Dio, poiché nessun pianeta così' lucente c'è".
"Nel passato tempo lo chiamavano stella del mattin o del tramonto, quand'era opposto alla focosa sfera".
"Guardali ben che più li rivedrai, imprimi tutto in tua mente si che sarai sapiente più di quando son te vinse".
La gran nave veleggiò e trapassò Vallorca roccia sin nella caverna da dove eravam partiti pria.
Lo mio dottor era ancora meco e si compiacque di me tanto, che al petto suo me strinse.
I' fei altrettanto e anco lo baciai con affetto, e m'accinsi ad andar via.
"Questo però nun è n'addio" me disse guardando dentro l'occhi miei,
"se ben rimembri tu m'hai visto ancora nel passato tempo, quande
ne' tuo letto ben dormivi e sognavi li tuoi grandi dei".
"E anco se lo mio mondo è si lontan, ben posso entrar ne'sogni tuoi e risponder a tutte le tue dimande".
"Or va" ei disse "che l'ora sè fatta tarda, che lo sol già in mezzo a lo ciel è arrivato".
"Trapassa la roccia da cui se'entrato e che serrerò quando te ne sarai ito".
Quel che disse feci e giù discesi dal sinistro lato
e arrivai all'acque del torrente che forte scorrea nel suo sito.
Guardai in alto e vidi lo strano uccel che forò Vallorca roccia
e si spinse tanto in alto che l'occhio mio lo perse
e sparì nel ciel tra le tante stelle, tanto che non lassò più niuna traccia.
e verso lo luntan pianeta suo, veloce verse.
I' pensai un po' e ricordai d'aver sognato lo rosso uom, addietro assai presto,
e dissi "I' son sicuro che te rivedrò ancor e te penserò di tanto in tanto,
infin a quando mia mente serà in grado de sognar, quando dormo e anco quando i' son desto,
poiché sempre occor sognar ne la vita se vuoi goder e aver vanto".
Poi all'orecchio m'arrivò 'na voce che pronunciò lo mio nome "Luigi"
e mi svegliai un po' affreddato per la neve ch'era suso in sul tetto bianca e bella.
Era lo mio genitor che non savea dov'ero e dove la neve lo mio piede pigi.
Me tirai su seduto, me stroppicciai l'occhi e rividi ancor la mia lucente e amata stella.
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l'autore Luigi Antonio Bottignole ha riportato queste note sull'opera
Si può scaricare il file dell'opera "Ode a Fonzaso e la leggenda degli uomini rossi" e del libro "All'ombra dei giganti" sul sito: www. librofonzaso. altervista. org