Lo guardo.
Penso alla profondità del concetto di coerenza: così difficile da mantenere...
Penso alla responsabilità che il suo ruolo ricopre: inesauribile fonte di gioie e dispiaceri.
Penso alle sue parole: taglienti come lame d’acciaio.
Lui osserva le sue pecore con l’occhio del padrone attento ma la sua testa è sperduta su qualche lontana catena montuosa, ed il cuore, se c’è, è ammaccato.
Lui percepisce l’inaffidabilità del suo operato, la sua trascuratezza di fondo, il suo eterno inconcludente sognare.
Lui costruisce idee con la stessa intensità con cui distrugge i cammini già avviati.
Non ha capito l’escatologia di PaoloVI quando diceva che si sarebbe entrati in un’epoca in cui necessitavano non maestri bensì testimoni.
Ha male interpretato i propositi di salvezza propinati dal Concilio.
Ha lavato le sue mani alla fonte della secolarizzazione.
La sua donna lo ha pungolato con lo stimolo della rassegnazione.
Il suo orgoglio lo ha ridotto a polvere del deserto.
Le sue omelie hanno il sapore dell’apparenza.
Quel povero bussa alla sua porta ma è sempre troppo tardi.
Quel giovane cerca la sua disponibilità ma non è il momento giusto.
Quella ferita scavata dagli anni l’ha evitata perché estranea.
Una croce senza legno, un’ostia senza lingua, una Novella senza spiegazione.
Lo guardo.
Se la Chiesa sta morendo lo deve innanzitutto al prete.