poesie » Poesia surreale » Carme dei Studenti (una parodia)
Carme dei Studenti (una parodia)
A DEMETRIO G. SCAZONTE
alunno diligente e studioso
Rinchiusi nelle classi e con la noja
d’una lezione di Dante: immagini
per noi fato più crudo? Ove speranza
data non sia di sconto o d’un’assenza,
con cui alleviare il peso mesto e grave
di questa mole immensa di sapere;
ove l’uscita con l’amica amata,
o con l’amico, a noi venga negata:
sì che la casa è l’unico ritrovo
per i tormenti nostri e per i pianti,
lunghi alla Luna lamentosi e tanti:
ne’ mi vuoi dir che cazzo posso fare,
se dopo ore spese in mezzo ai libri,
mi passa anche la voglia di studiare?
Non vorrai tu che la mia vita passi
Tra polverose pagine d’un libro,
senza curar le pubbliche importanti
relazioni, o l’amore o quelli due
che son della novella età famiglia
dolce e graditissima per tutti,
fuor che pe’l quasimodo poeta?
Pur è vero, Scazonte, anche la Speme,
ultima dea, fugge i studenti e un pianto
mesto diffonde per le aule morte,
dove finiamo preda di vampiri
e spinti siamo giù, fino alle porte
della Città di Dite e se bussiamo
“Non vi vogliamo” dicono, ché abbiamo
già sulle spalle nostre tale pena
che il Ciel ci nòle e pur lo fa l’Inferno:
buon regno è quello e men cattivo questo!
Chi bene in classe guarda altro non vede
Che spiriti dagli occhi un po’ socchiusi:
non dormono attenzion, ché in questo caso
poca pietà n’avrei, ma van pregando,
con l’occhio chiuso in pia concentrazione,
che sia lor reso più leggiero il tanto
crudele peso ch’è causa di pianto.
Celeste è il cielo; nera questa turpe
Corrispondenza di pene e d’affanni
Che già tradusser per tediosi anni
Lunga progenie di egri malanni.
Sol chi con l’ascia i professori affetti
Più lieto è della scuola: poi che’l sangue
Tinge le pallide pareti, più n’è data gioïa
Che pia ai mortai ristori la lor noja;
così che grida van per la finestra
come un’orchestra il giorno della festa,
come il boato che vorace rugge
del terremoto quando ogne destrugge.
Pur nessun crede, amico mio, che sia
Questa la folle condizione d’ogni
Studente che la scuola attenda. Resta,
nel guardo di chi m’ode gran sospetto
che dalla fantasia o dal mio diletto
perverso, nacque di codesti affanni
la descrizion che fònne nei miei versi.
Lor mostrerò, ed anche a te fratello,
qual verità sofferta invece celi
questo mio canto che li induce al riso.
Anni passati son da quel che dico
Pochi e serbarne è facile il ricordo.
Terzo correva in settimana il giorno:
il più leggiero era in mezzo ai sei;
io me n’andavo con li amici miei
lungo la strada che portava al loco,
loco in cui vidi quello ch’ora dico.
Fuor di quel loco, di cui taccio il nome,
genti diverse per natali ed anno
calca facevan, non per loro grado,
ma per la legge che tutti ci vole,
e in tutto ignora quanto sia di danno,
a scuola. Ecco che suona la campana:
e la condanna giunge!, quando odo,
proprio davanti all’infernale ingresso,
un urlo, di madre che il figlio chiami
disperso. Io fui per ritornar più volte
volto verso la fonte dello strazio.
Lo feci infine e n’ebbi gran rimorso:
si contorceva in terra studentessa,
dell’anno primo, o del secondo, nescio,
e singhiozzava da spezzare il cuore:
era il suo pianto pieno di dolore:
“Chi salverà la povera fanciulla”
gridava “dall’uomo senza pïeta,
che interrogarla brama in ittaliano?
L’Ore compagne del mio studio furon,
testimonianza possono recarmi:
ma son sicura che quell’uomo, duro
nel cuor come non è nel pacco, vuole
mettermi due!” Or vedi, amico caro,
quanta sofferta sia la condizione:
dell’altrui crudeltà era sicura
tanto da trarne tal disperazione!
Agli studenti non è dato fiore
se non gli reca nutrimento l’acqua
che dai lor occhi sgorga. Pianga dunque
l’animo duro di chi vuol negare
A quella studentessa il suo compianto.
Dal dì che nozze, tribunali ed are
L’ordinamento poser nelle genti,
prima ferine, sciocche e deficienti,
tre cose almeno furon ritenute
alla salute pubblica importanti:
carceri, scuole ed ospedali buoni.
Se pur del primo e terzo l’esigenza
Si può capir, la crudeltà seconda
Mi sconcerta, si ch’a pensarci tiro
La coperta fin sulla punta della
Testa: con lor nasceva infatti il luogo,
tra tutti il più temuto in assoluto,
che usato fu per rovinar le menti
dei giovanotti ridotti a studenti.
Non sempre, forse, avevano i docenti
Quegli strumenti figli del progresso
Con cui la spiegazione è fatta meglio:
vedi gl’attrezzi di laboratorio,
vedi le mappe e le cartine astrali,
e quelle cose varie che, per vero,
mai figuraron nelle mie lezioni
( genti future n’avranno i favori!);
ma cosa c’è che mai non è cambiata
dai tempi delle scuole prime ad oggi:
è quel rapporto tormentato e crudo,
d’inusitata infamità imbevuto,
che ricordarlo ti fa stare male,
che tanti giovanotti disperare
ha fatto, che s’impone tra docenti
e discenti. Eccone uno, è notte,
s’alza nel sonno, con tremante fiato,
come chi desto sia quando l’imago
vana d’un malo dono di Morfeo,
tanto si faccia viva e forte in mente
da sconfinare in percezion concreta,
e timoroso con le mani fruga
sotto il cuscino: chè vi avea nascosto,
prima di notte, uno dei suoi libri.
Flebile luce gli porge candela,
raggio fugace di una lampadina:
ecco ripete con incesso spasmo,
la sua lezione. Teme il professore,
ma soprattutto teme le sue armi:
vergate ieri, oggi sono note;
ieri sui ceci, oggi giù dal dieci;
ieri occhio nero, oggi prendi zero.
Diversa forma e identica sostanza
Rese, dal tempo dei Romani a noi,
timorosi i studenti, o Scazonte!
Anche quell’uomo il cui dolce sorriso
Era ai quiriti mores castigatio,
che per il mio paese venne, i suoi
nemici amici al fin di ricongiunger,
d’un suo magister ci tramanda il caso,
beneventano (gli insegnò’l latino),
che al fin d’imprimer più l’insegnamento,
btte menava e verghe, come vento
che folle su già brullo prato insiste
e allora smette quando lo fa triste
d’alcun sorriso fiorito. “Plagoso”
Orbilio, perché mai le forti usavi
Maniere? Io già ti vedo col tuo ghigno
Crudele e da pietade alieno e vedo
Lungo e possente sollevarsi il braccio
Al suo bersaglio dritto indirizzato.
Trema la testa sul suo debil collo,
cenno d’assenso al tuo imperare porge:
sorgon dagli occhi, come a ciel sereno
pioggia scrosciante appresso al suon d’un tuono,
lagrime in fiume di arginata rabbia,
che come i flutti dell’oceano romba,
ma la sua sede di lasciar non osa.
Cosa mai vedo? Orbilio ancora esiste!
Tu ben lo sai, amico mio Scazonte:
chi se non lui ti volle, o diligente?
Chi se non lui ti chiama, o studïoso?
Resta ricordo del suo no imperioso,
della sua mano resterà il timore.
Come Nettuno sorse in mezzo ai venti,
per comandar che fossero diverti
da quella scia a cui rizzò l’antenna
il di Venere figlio pio, e d’Anchise,
con gran furore sì che pure il Noto,
tra tutti i figli d’Eolo il più selvaggio,
altro non fece che cambiare aria,
sì quello giunge quando in classe viene
l’esame matematico per fare.
Spostasi il banco, vola in faccia al muro;
muovesi quello e dà le spalle a questo;
senza fiatare devo io volare
al lito che vorrà a me lui indicare.
E se per sbaglio vola una sol voce:
ecco ti becca e con la forte pacca
con fare delicato il viso accosta
al banco. Certamente non fu il solo
tra gli insegnanti miei ad esser motivo
di rimembranza strana e assai curiosa.
Saprai di quello dal petroso naso,
che venerò come ’l miglior poeta
quell’aquilino naso fiorentino:
credo che fosse per la somiglianza!
Così saprai finanche di quell’altra,
che spesso al testo ripiegando il guardo
vuole insegnar l’origine del mondo:
dubito io se sa che sia rotondo.
Con insistenza e petulanza chiede
Se del suo detto sia chiara l’essenza;
resto convinto solo d’una cosa:
fenomenale fu la sua ignoranza.
Per ben due fiate m’ebbe tra le schiere
Costretto degli olimpici studenti:
soddisfazione magra ‘n vero n’ebbi
della trionfale posizione mia:
non un saluto, non un freddo abbraccio
mi guadagnò agli occhi di colui
che, faccia freddo, tiri il vento o ciocchi,
ai suoi ragazzi reca ogni mattina
il suo sorriso. Ecco che s’affaccia
alla memoria un altro bel portento:
fine maestro di sfiziosa storia
Dell’arte, che condita col suo detto,
Piena è d’autentiche cazzate. Dico
Che a lui fosse rivolto il noto detto:
“Più non parlare, fermati grilletto!”
E se fuggendo più non anderà,
di classe in classe spinta dall’angoscia
del programma, tu la vedrai seduta,
l’esiliata, affannosa respirando:
scioglie le trecce lunghe e il guardo posa
sopra di noi con triste fare. Aduna
intorno a sé chi vuol prestarle ascolto:
pochi davvero, sì che in pianto sbotta.
Solca la faccia e nei canali scorre
Delle sue rughe un fiume amaro. Cade
Ai suoi piè la goccia, bagna il suolo.
Noi che sappiamo cosa sia il dolore
Sommessamente a lei c’avviciniamo.
Lei si riscuote e con voce tremante
Dice: “Ragazzi, gente del domani,
speme futura dell’umana specie:
ascoltate il mio detto. Non potete
per il sol peso delle carte scritte
volgere al cielo sì profondi pianti;
voi non potete scomodare i santi
con la speranza che vi diano il voto
che l’insegnante a mettervi è chiamato.
Qual fia ristoro ai vostri impegni un nove?
Qual desiderio mai vi mena al dieci?
Qual differenza c’è ch’abbiate sette?
Quale premura mai vi spinge al sei?
Ditemi: è questo quello che volete:
numeri scritti su di un foglio bianco?
Un po’ d’inchiostro: questo è ciò ch’ambite?
Dunque non altro voi desiderate?
L’unico premio che dal vostro studio
Sperar potete di cavare un giorno
Di poco a poco cresce dentro voi.
Un dì, magari, ve ne accorgerete:
e allora certo voi sorriderete.
Prestate orecchio a chi di voi è più vecchio:
dolce ricordo ai voi sarà quel giorno
anche di quei momenti più sofferti.
Ripenserete ai tempi ormai passati
E cercherete allor che cosa resta:
ciò che di bello conservate in testa,
quello è il tesor più grande che tra i banchi
va raccogliendo chi si reca a scuola.
E se guardando andrete nei ricordi,
vi rivedrete tutti quanti insieme
a raccontar di quell’etate allegra
quando preoccupazione non si aveva
che di scansare un’interrogazione.
Quindi ora andate e la novella età
Vivete. “ La sua voce cheta e tace.
Scazonte, amico, so che condividi
Il suo pensier, la sua mesta rampogna.
E poi che in strada suona una zampogna
E ben tre mesi già sono passati
Da che man misi a questa mia presente,
credo del detto mio esser bastante.
Concludo qui la sciocca imitazione,
Che dai Sepolcri un carme trarre volle
Che gli Studenti sollazzasse un poco
Nella speranza che ti sia piaciuto.
Se così è stato, son contento e lieto
D’averti reso un dono ben gradito.
Se poi ti fu d’impiccio: cosa dire?
Recami pure tutto il tuo disprezzo,
ma non recarne, prego, mai a coloro
dei quai ho narrato le sciagure umane.
123456
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- ... Spero vi divertiate a leggerlo quanto mi sono divertito io a scriverlo...
Si vede che ti sei divertito a "creare" questo specchio... e questo denota che
la "scuola" è riuscita, nonostante i suoi disagi... a stimolarti, a farti uscire dall'anonimato, quindi ti dico solo: complimenti!
- A parte qualche licenziosità che potevi evitarci, sembra che tu voglia nascondere le tue capacità presentandoti come uno studente svogliato e mediocre ma, questa che tu chiami parodia è proprio meritevole e non da tutti, bravissimo e continua così. Saluti da Caserta. Ugo.
- Beh, cara Adelaide Cantafio, ti assicuro che ho una vaga padronanza degli articoli determinativi e non m'è affatto sfuggito che la S impura di studenti vuole l'articolo lo ( e gli al plurale). Diciamo che rientra in un tentativo di anticazione del titolo, sulla base dell'originale foscoliano. Ti ringrazio per l'ammirazione del resto.
Quanto a Carmelo Luca Sambataro, mi spiace davvero che non abbia esplicitato ulteriormente le sue perplessità: intendo questo sito come pagina di confronto e di scontro costruttivo e mi piacerebbe aver di che rispondergli...
- Beh, cara Adelaide Cantafio, ti assicuro che ho una vaga padronanza degli articoli determinativi e non m'è affatto sfuggito che la S impura di studenti vuole l'articolo lo ( e gli al plurale). Diciamo che rientra in un tentativo di anticazione del titolo, sulla base dell'originale foscoliano. Ti ringrazio per l'ammirazione del resto.
Quanto a Carmelo Luca Sambataro, mi spiace davvero che non abbia esplicitato ulteriormente le sue perplessità: intendo questo sito come pagina di confronto e di scontro costruttivo e mi piacerebbe aver di che rispondergli...
- NOTA DELL'AUTORE!
Credo che questo testo meriti un commento particolare in cui possa chiarirne, se non altro, il senso. Lo scrissi nel corso del mio ultimo anno di liceo, tra il mese di ottobre e Natale, spinto dalla passione che scoprii per il Carme dei Sepolcri di Ugo Foscolo. Mi chiesi cosa ne sarebbe uscito se qualcuno avesse rivolto agli Studenti una simile analisi, storica, filosofica e poetica e, scherzando scherzando, creai questo componimento di 292 versi, come l'originale, tutti o quasi tutti endecasillabi, con tanto di parallelismi con l'originale foscoliano. Non so quanti dureranno la fatica di leggerlo: alcune battute e alcuni passaggi, temo, riusciranno poco chiari a chi non sappia di certe miei insegnanti o di certi modi di scherzare della mia classe di allora. Mi piace però proporlo: magari, qualora aveste domande su passi specifici, resto a vostra completa disposizione... Spero vi divertiate a leggerlo quanto mi sono divertito io a scriverlo.

Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0