Era un giorno come tanti,
di una primavera che sbocciava
con i fiori, fra zefiri miti
che soffiavano da un cielo terso
di un azzurro profondo che
tanto ricordava quello di mari lontani,
di epoche passate in cui ancora
l'uomo dialogava con la natura.
D'improvviso, mille saette coprirono
il sole, mentre la terra, tutta tremante,
si squarciava, s'apriva a mostrar le
viscere oscure, meandri contorti
da cui presero a sbucare esseri informi,
viscidi e squamosi, assetati di sangue.
E fu lo scempio.
Uomini che fuggivano con gli occhi
sbarrati e le braccia troncate, teste
che ruzzolavano fra i solchi rossastri,
petti squarciati da cui l'aria fuggiva,
corpi a brandelli, urla strozzate.
Mani scheletriche uscivano dal terreno,
afferravano le caviglie, bocche sdentate
s'apprestavano al festino, mentre il
cielo si tingeva di fuoco in un buio incipiente
che tutto avvolgeva, soffocando la vita.
Un sudario pietoso scese dall'alto
a ricoprire il mondo e in esso mi avvolsi,
le palpebre pesanti, stremato, senza più volontà,
se non di chiudere l'ultimo capitolo
della storia degli orrori dell'umanità.