Il cielo ripugna fantocci
inclini a trame di mondo.
Posticce marionette aduse
a vano ostentare d’ipocrisia.
L’indiscusso sangue d’eroi
è a piccoli ruscelli sul corpo.
Noi, all’inattesa fonte virtuosa
ci spalmiamo di generosità.
I drappelli degli angeli
fomentano notti di luna.
Poi, a imprevedibile quiete,
lo spirito muove tenue canto.
L’inesplorato nitido letto
ha sempre grinze di pianto.
Il suo lino ricetta screzi
e anche carezze mancate.
Un sospiro affonda zigomi
e aliena ossigeno alla sera,
una bisaccia di sudore
sempre ripaga l’aspra terra.
L’invenzione del male
si palesa in lunghi rettili,
ma anche il bruco contamina
e insinua bellezza di pomo.
Mi stringe la mano un amico
lo emula più forte il nemico,
siamo all’epica svolta?
A quale maschera credere?
Quando avvenne l’eclissi di luna
erano già stipati i miei pensieri.
Sempre effimeri, si velano ad astri:
così, gli affetti spersi, non si ripetono.
Un cuore di latta opaca
scandisce battiti forzati,
la commozione è plastica
per finzioni d’amore.
Il diavolo veste l’anima
di chi abilmente t’inganna.
Dovrai privarla della corazza
prima di vincere quei raggiri.
Nell’ora delle tenebre
si plasma il nuovo giorno,
il tempo passato s’afferra
sempre meno alla memoria.
Lunghi rigagnoli di pioggia
destano vita nei chicchi,
forse spazzano, inconsapevoli,
granelli minuscoli d’altre vite.
Spesso dico a me stesso:
“No, al tasto insulso del potere”
(la bestia ha il tridente
e l’erta mole indolente).
Riservo i miei affanni al vespro
che ha pregio di placare
il cardiopalmo alle corse.
Poi, il camino, annuvola riflussi.
Quando si spiegano le ali
per cieli nuovi di poesia,
si consacra il perpetuo scalfire
se oso planare in melodie.
Facile appare vivere
agli occhi comodanti
e la finta modestia d’altri
per poi cadere d’inganno.
La superbia umana
è gracile edificazione
su fondamenta di paglia.
L’incendio si cela nelle vene.
Qualcuno tenta di ricomporre
il teatro dei nostri giorni,
ma il districarsi tra mille fili
lo impicca come marionetta.
A piccoli balzelli d’astuzia
s’arrocca il dominio dei furbi.
Ma il fango straripa le tasche
e se li porta via come relitti.
Dell’iridescenza mattutina
ho dimora di lusinghe nel cuore.
Anche dei raggi rifranti
mi restano sopite scintille.
A timido accenno di ragione
ho schiuso pensieri pressati
e ora, germogli di vita
affollano il mio granaio.
C’è umore di vino e di terra
nel cimitero del mio paese,
forse aromi dei contadini
s’aggrumano alla quiete.
Dei fiori recisi restano steli;
mai lama impedirà che inchiostro
percorra fluido l’amato binario,
né che taccia libero pensare.
Lavate scorie d’egoismo
prima d’appellarvi a ingiustizie.
Sappiate che gli equilibri, talvolta,
sono stratagemmi di convenienza.
Pietra, legno o metallo,
come edificherò la mia casa?
Mi basta una patina d’onestà
e un calice vivo di fede.
La terra sbiadisce in rena
il sentiero che porta al mare.
Ebbro d’onde scorgo orizzonti.
Naufrago, m’attende la battigia.
Nell’effimera presenza di vita
può farsi materia il genio.
Dell’orma, nessuno s’avvede.
Dopo la morte: tangibile eco.
Fragile, mobile duna,
il sole è nei tuoi palmi sabbiosi,
ancora ti vedo friabile argento.
Sono già svaniti i miei passi?
Quella lucentezza d’occhi
che ancor mi divaga,
ora è guglia di suggelli
che infiltra sguardi celesti.
Amici nati e cresciuti insieme
su strade polverose e di tufo,
partiti a stille, lontano,
spersi a laconici garriti.
Una sirena sfiora litorali
a intermittenze azzurrine,
la strada nera è lavagna
pinta di scarlatto notturno.
L’improvvida sera abbuia
volti stanchi e muti di fatica;
altrove, è ora di visi scarni
e anche falsi candori mondani.
Così, a sbadigli di risacca,
s’affratella nuova rugiada.
Sotto manto di vetro m’assopisco
in ragnatela ammiccante.
In cento farse ad imbrigliarmi
scopro d’essere inetto a recitare
testi convenienti d’ipocrisia.
Arduo mutare, scelte ancestrali.
L’ala d’un borgo romano s’acuisce:
radi pilastri ergono ossa di case.
Stanno abusando edili nel cantiere
con gobba di tufo sotto la volta.
Non temo fauci di gallerie
né vortici scaltri di vento.
Temo cime anguste di monti,
ammassati pensieri e tiritere.
A labili cenni di tarde stagioni
sottende misura lieve d’amare.
Forse cederò a trame di nebbia
o a lusinghe d’autunni carmini.
Tra aghifoglie sperse di vento
e rombi d’irruenti motori,
colgo attimi a ricami di versi
da grani marini e idee minute.
Ah! Potessi forgiare nel vino
cristalli d’acqua e d’argilla,
in sublime connubio di forme
e rimestare frizzante di libertà.
Nel placarsi d’anni la vita,
s’attornia di petali una corolla.
Bello che ancora il tempo
offra lusinghe d’altre stagioni.
Insieme non si dilegua l’eco
dei nostri antichi padri.
Ebbra, la pietra ora si frantuma
al chiasso d’ingloriosa storia.
I tuoi flutti, mare d’Apulia,
annegano su bagnasciuga.
Tornerò presto a posarli
in pelago di cuore fanciullo.
Vorrei portarti a braccetto fede
per le strade accigliate di Roma,
temo però, che la civetta ci sperda
in centro, alla “Salita del Grillo”.
Si giunge a portoni d’amici
certi di slancio nei discorsi.
Poi t’avvedi che loquacità fluviale
svapora come vino nel bicchiere.
Non dirmi che Iddio
sia privo di lacrime per il mondo,
poiché del suo creato
ora non resta che vago dipinto.
In questa terra violata e denudata
ai contadini si priva quella d’oro,
e una manciata d’insetti colorati
per ravvivare il petto di collane.
Risuonano frastuoni nelle piazze
belati mattutini nelle contrade.
Di sera gli ovili intonano allegria,
gli amici vestono gomitoli di lana.
Frantumi di cielo, galoppi di muli,
pani benedetti placano il maltempo,
rivoli e canali lavano strade paesane,
gai calessi seminano odori di stalle.
Ho sognato una dea di sabbia
svanita tra le anche del golfo,
a danza turchina cedeva il mantello
e la battigia rifletteva d’argento.
Imbrunita la pelle dei contadini.
Sono forse argilla secca
o terracotta le loro mani?
Muti, recitano sempre col piccone.
Non vorrei cadere nel fosso
prima d’aver trito la spiga di giugno
o ben modellato grappoli di cera.
Poi s’affastelli pure la curva del tempo!
Di mistero vagheggia il cuore
se il sole indora la mia casa,
sì, come la pioggia delira le piante
e inebria il mare a ricami di rena.
Ricorda: tergi la tinozza del vino
e colmala di nuziale allegria.
Brinda nettare con amici poiché
breve è il banchetto di vita.
Ha segni dissoluti la bellezza
e più si guasta agli anni il viso
tra rughe fonde di malizia.
Lei sa pure come si raggira un uomo.
Un muro sotterrato dalla storia
erge la civiltà che ostentiamo.
La pietra è remota e resta muta:
resiste ancora, si serba per chi verrà!
Tre colonne di parole sui giornali
per una cronaca di giovani feriti.
La tempestività anima soccorsi
ordinata su gerarchia di nomi.
Presto scenderò all’arenile
dipanando aspi di lenza
contando aloni e substrati,
come s’apre speranza alla fonda.
La spiaggia è ruscello di gente:
io vi costruirò un minareto.
Sacrosanta torre di preghiera
per una visione di prostrazione.
L’ideale di pura letizia:
un rudere ornato di capperi
nel podere di nessuno,
ove s’alberga e si ristora poesia.
Su duna di brezza sapida
forse, ignaro, affonderò di rena,
coperto d’aurei granelli.
Da lì, d’albe nuove, avrò ricetto.
Non più frammenti di stelle
nei viali dei sogni rincorsi.
Altri volti incedono decisi
su orme di strade frammesse.
T’ho ritrovato silenzioso
in taverna di periferia.
Ubriaco, inseguivi ritagli d’affetti,
con labbra su anfora di vetro.
Noiose zanzare per le strade.
Piccoli scooters ronzanti.
Prima era un gioco afferrarle
ora rombano a grappoli.
Ovvio che l’imprevedibile rosa
spanda lusinghe su petali di sole
e rifiorisca da gemma notturna
il tuo canto d’alga azzurrina.
Sopito sotto l’estivo gelso,
in transizione lenta di pianeta,
non destatemi poiché scrivo
dentro il bozzolo che m’ingloba.
Si libra la vita a trame d’uomini.
Le spine d’agosto hanno memoria
e una crosta di percosse e lividi.
Noi seminiamo coraggio di spighe.
Amici! Venite nell’aia dei canti
a centuplicare i piedi fra i chicchi.
Raccontatemi la vostra storia
fino al declino di gioventù.
Una bretella cadente al gioco,
dondolare su fianco scarno.
Era estate a splendere di tele
e riccioli bruni di madri pazienti.
Se gramo singhiozza il verso:
capo chino triste della parola
s’imposta a tendere la mano
al poeta accanto che ti consola.
Giovani! Siete flaccidi come ronzini
e vi abbatte la foschia dei tramonti.
Vedo ragazzi smilzi: non bisacce
su spalle callose d’anime stanche.
Anche stasera tuonerà d’ottobre.
L’han detto nubi di stoffa scura
e un vespro inoltrato d’autunno.
L’han detto anche alberi spogli.
Centomila cartelli sfilano al centro,
protestano a leggi sulla campagna.
L’han chiamati “maiali di Roma”.
Era una folla che agitava sangue!
Ditemi dei mulinelli di rena sottile
e riverberi di cime flessuose.
L’han piantata a Luogovivo?
La ginestra, la viola e la rosa?
Caro poeta d’India, non avermene
se nel bicchiere verso calda bevanda.
I poeti d’occidente han canto leggero:
beato te che sei risorto da un vasaio.
Inebriarmi d’armonie apparenti
e catturare candore stellare.
Ho poco fiato per tacere vane voci:
vorrei gridare su leggìo di fiori.
In quel tempo inseguivamo
una treccia bionda o bruna
e un letto rosa di piume d’oca.
L’umore di baci era vibrante diletto.
Lasciati andare al vento che denuda,
non fremerai più di tanto alla paura:
Eolo suppone veli di ventura.
Tu, invece, sei luce romita e vagante.
Io sono breve come stagioni
e mi rallegrano precisi rintocchi.
Mi sento lieve d’eco nella cava
erta di pareti, fluente a lava.
Quelle barche scivolate alla risacca
in perpetuo sale di remi stanchi
si concordano a spuma; solo
spine sguazzanti di pesci morenti.
Io del trifoglio ho sentieri convenuti
sin dove degrada il campo delle greggi,
là, nello strapiombo, dove non mi curo,
v’è il ruscello lurido che si discarica.
E la lepre è libera nei covoni
curiosa a tane e anfratti nuovi.
Ti prenderò per il primo bacio.
Il tuo rossore mi schiude il cuore.
L’abitacolo si racchiude d’indolenza.
Catorcio di lamiere e di frantumi.
Conteranno anime con torce vive
prima che il cielo stringa le sue spire.
Sappi che da una lode è nato il canto.
Era seme ignaro e marginale.
Era presenza introversa e rifuggente.
Ora è radice e stelo fiorente.
Un’era breve è la nostra vita.
Assemblaggio di giorni e ore.
Forse anche gl’istanti fanno era.
E io rimango specchiato d’ombre.
Ove soccorre mano di cielo
germoglia amore su terre di morte.
La fede anela salmi e palmizi
per soffici zolle sfarinate e redenti.
Su davanzale di sole i suoi seni.
Candido gesto di donna fiorente.
Lusinga d’onda si frange di spuma:
lei ha occhi smarriti di calura.
Al vecchio maniero d’Umbria
tra creme di tartufi e goliardie.
L’erta finestra è icona di valle
come istantaneo lapillo di vita.
Quell’arpeggio di mare danzante
a catturare la luna nei fondali.
Brillio lunare e moto instancabile:
la notte genera specchi amanti.
L’eco del mio pensare è quiete
di violini a tenue incunearsi.
Più che tentare musica
involgo i risuoni delle valli.
Addio bei grappoli, trionfo di viti.
Ormai siete fratelli di sangue,
bellezza liquida nelle botti.
Presto esplorerò il vostro mare.
Scarponi caldi, amici di campagna,
non scorderò il sorriso vero
e il canto che l’angelo v’accorda.
Un centopiedi vi sta insidiando.
Tutto è nei fiori: il verde,
il nettare, nitore di linfa.
Anche viso di fanciulla
che trascende incertezza.
Strade nuove, sapore di vecchio,
sparse ragioni d’esistere.
È questo il giusto sentiero
che spegne ogni altro desìo.
E dunque si commuove l’onda
al suo finto migrare,
a questo graffiare prolisso
che spumeggia di vita.
A varcare costa flessa
in affliggente balbettio,
plana novella rondine
su bagnasciuga stantio.
Ecco la città nel rito serale:
splendente sfera di colori.
Immensa vetrina vivente
nuvola d’umori e ambizioni.
Torno dove il passo si fa greve
e ripiega a penombra lo sguardo.
Qui si gualcisce il quaderno bianco
a divaganti balzelli di fantasia.
Se il baùle dei ricordi va a librarsi
residuano solo gesti razionali.
Non si dirocca il muro del passato
senza che il presente si frammenti.
Poeti vi ho in collera.
Curate la parola che è ferita.
Vi fate circuire da vocaboli sminuenti.
Anche al soldato sussidia la barella.
Contadini! Adoro il vostro sudore:
quel che la terra imprime a rughe
e aggruma su fronti scure,
poi s’asciuga a eloquenza di pensieri.
Se ai miei lidi andrò di settembre,
con calpestii sfocati d’imbrunire,
ruberò il soffio di vento a levigare
granelli spenti di rena ad altre orme.
Propongo trama di giorni vissuti
quale inestricabile romanzo.
Anni d’afflati e venture
in ragnatela di bassi e acuti.
Quando avrò viso e petto di canizie
inventerò storie ai bambini.
Le terrò in custodia nel mio cappello
come calice alberga ostie d’amore.
Avevo la bicicletta sulla duna
e guardavo le cosce bianche sulla riva.
Cosa muta tra me e lo struzzo
che ha la testa vereconda nella rena.
Ci esorta a punti fermi questa vita
d’avere tracce salde nella mente
a ingombrare e colorare il tempo.
Solo affanni smantellano memorie.
Un genere di vento ignoto batte,
batte forte al davanzale dei desii.
Si fa mulinello nella scia, s’inerpica.
Non sarà puro timore d’effondersi?
Qui dove il cielo spiana il colle
e il viaggio segue in agro romano,
come crisalide cresce la mia casa:
dimora di luci e piccole moine.
Angustiarsi a tramonti ora
che s’anima la stanza a liete grida
è flebile resa di coraggio.
M’impiglio a coriandoli di vita.
Mai si placa l’ala dei pensieri.
Ma ora ditemi: quale gronda
ancora ha nido da esplorare?
Sono finiti i celesti continenti?
Vicoli paesani, scialli neri, formicai.
Le donne vanno pensose al vespro
col viso racchiuso nel velo grigio.
Vanno per pregare e svanire d’ombre.
Ho gli occhi in acquerelli di storia:
vedo quiete di campi e villaggi,
zampilli dai monti e gai ruscelli,
schiene piegate e salti sui fossi.
Ordisce la cicogna in paludi malsane,
timide membrane e zampe scheletrite.
Ristagna il pantano, vira la zanzara:
varia così poco il nostro mondo!
Piccola manciata d’anni nell’urna,
s’annidano stille d’universo.
Conservano memoria i sospiri
in agile ausilio di clorofilla.
Chissà se il mantello della sera
non induca a frangere ambizioni.
E il canto libero dei fringuelli
non sia speranza oltre la cecità.
M’aliena di sogni il sole ridesto,
poiché il giorno è ampolla visiva,
anfora smagliante d’oriente.
È anche germoglio d’oniriche notti.
È gran festa nella piazza.
Baracche, bambole, magia di carburi.
Brune e bionde fanciulle
forgiate con argilla di Puglia.
A Lido Azzurro le case si fanno piane
e i terrazzi transigono ai venti.
Non che s’attenui la mia mente
o ceda a inebriarsi di brezza.
T’appiani luna a sporgenza di ciglia,
vorresti forse, involgermi l’anima?
Lasci che almeno sfumi il tepore
da questa pelle stanca di sole.
Vorrei esilio nell’isola creata,
beatitudine longeva di silenzi.
Lì, ove demorde la forza dei marosi:
solo, con anime inventate.
A notturno pentagramma di stelle,
s’allea incanto di cortei cherubini,
ilarità di meteore solitarie.
A braccia aperte inglobo atmosfere.
In vaporose, calabre vesti,
scorgo figure bronzee avvizzite.
Rimira Taranto d’altiforni,
con beltà sfrondate su stampelle.
Lasciata la casa all’imbrunire,
chiamo amici ad amplessi di vino.
La taverna d’approdo ha canti,
stornelli paesani e confessioni.
Provo a scrivere versi ribelli
e di rabbia per il vano mondo
intrigato a tentacoli d’astuzia.
Ma il cimento muore nella stanza.
Si scuote e si frantuma il sogno
a sedimenti di lotte perdute.
Le battaglie stremano il muschio
su pareti invalicabili del conscio.
Serrande metalliche, segni d’albe,
irrompono sbadigli Balcani.
L’astro, allunga di grazia le chiome,
l’orto allinea solchi e sementi.
Mi stupisci terra umile di spighe,
piana secca di giugno cocente
che si doma a filtro di ponente.
In lische riverse afflato di carezze!
Drappeggi rosso porpora
schiudono sipari a trincee.
S’odono inni gai ad arie tirolesi.
Sono bandite le barriere di neve?
A piccole cime s’inarca la guglia
tardo fremito di stagioni.
Vegliano le notti i venti
che involgono il tempo a mulinello.
Non temo notturni singulti
né tetra parete di nebbia:
rattengo solo fiato costretto
a recita vana su palco di mimi.
Sono nato da ventre di guerra
in terra d’Apulia, gola di Salento.
Capezzoli di sole nella bocca,
mani di farina nei capelli.
Tace tardo il dondolio d’amore
tra cuscini esausti di crine bizzarro.
L’indomani i diverbi colmeranno
di parole l’assurda infatuazione.
Verso il mare nella conca
ove alieno e ripongo lo spirito.
Mai lascerò sgorgare il fiume
che prosciughi lago di segreti.
A rammendare lembi di mondo,
ove si frammista aria di lezzo
e di sangue, trascorro le ore.
Ricamo anche squadriglie di stelle.
Se i versi stingono corolle
e si fa roco il canto celeste,
resto muto a lusinghe di sole
come stelo di pianta riversa.
Ho liberato l’anima trepida
a inabbordabili scogliere.
Ora m’appare nitido il molo:
spargo sereno gemme stivate.
Ti regalo la notte osteria:
affogala nelle tue anfore di creta
con infiltrarsi vorace d’insetti.
E si scolori l’inchiostro perenne.
Poco approdo su lettiga d’onda
a serbare armonia d’oceani,
poca, per sentirci veramente nulli
nell’immensità di minuscole gocce.
Vai pure ai solfeggi di primavera
a schiudere calendule insicure
e salici tremuli di giovani trecce,
va, ove si decanta immemore eco.
Dove siete che vi abbraccio
anime d’africo emisfero,
ornate i fianchi a danze,
berrò con voi filtri d’eguaglianza.
A cupola di cinabro s’ispira il cielo
poiché il tramonto irretisce il sole.
Da secoli l’orizzonte recita le sere
orazioni di sangue d’altri eroi.
Prive d’anima le piume della virtù,
non sanno più planare di letizia
sugli usci della giustizia morente
con maschera burlesca.
Distesa liquida: viaggio infinito.
Non sapevo di amarti tanto.
Tentami ancora perla ametista,
velluto ammantato di rena.
L’inverno ormai incalza di rughe,
segno che il ciliegio ignora
l’inibita e incerta gemma.
Anche la rugiada frigna sui rami.
Muti rondinella che volteggi antica
nella pagina tersa del mio cielo.
Muti a nuovo ordine di stagioni,
con finto garrito di memoria.
Vi lascerò poco anime buone
ignote e sperdute a nubi di case.
Presto si diraderà la coltre grigia.
Io vi offrirò ruscelli di luce.
Per centralità la piazza del paese
ha un castello a cinque torri.
Nella cornice, rari vecchi ingobbiti
e quattro panchine sbilenche.
Caro amico, ormai nel glossario
sbandi come scalzo pellegrino,
ed hai vesti grinze di scalate:
stilla ora all’erto zampillo dei monti.
Risuona la preghiera della sera,
salmo vespertino e compunzione,
sfavilla rosario utile silenzio,
si genuflette opacità di veli.
Affratellate carte nella stanza,
righe, binari non smessi di parole.
S’arenano forse i miei pensieri
arresi ad aie di chicchi lucenti.
Al tuo gran fiato di mare inquieto
gli ottobrini flutti fanno alte ali,
e i miei piedi, ferrati di sfida,
su gola scura d’acqua fonda.
Avevo già fragile malizia d’anni
scaturigine d’occhi languidi,
lei, voluttuosa, scalava dune,
ma si tuffava di verecondia.
Non vano candore d’incenso
riversa futile nebbia nei sogni.
S’alterna la comparsa dei flussi,
a immancabile raggiro di luna.
Sicilia, evaporazione di sale,
arido sentiero di fiumara
s’imprime a vorticoso scendere.
Ed è afflizione di sconfitta amara.
È madida la chioma della sera.
Il chiacchierio dei merli ci lusinga.
Roma all’imbrunire svela nidi
dalle parvenze tonde e ammalianti.
Con abili gesta il mattino
indaga la stanza con strali di luce.
M’adesca l’ora celeste socchiusa
e un galoppo leggero di vita.
Rade stregate a tumulti di mare:
alcuno stupore ai fatui vortici.
Del resto naufragio di pensieri
disfa bussole all’onda dei zefiri.
Il cane di stoffa è nel ricordo,
l’altro di pelouche è sul letto.
Li ho visti abbracciati nel tempo
con anelito di fratellanza.
Lì dove il vicolo senese è arcuato
e si stringe il labirinto del viaggio,
s’erge il simbolo del Drago
su cavallo di fama e di rabbia.
Su conche levigate dal tempo
il passo certo conquista lo scoglio.
Ove s’acquieta schiuma frizzante
l’anima s’attenua a sciabordio.
Sono ebbro di luce antica
quando s’inneggia iridata storia.
È ingiusto il veleno del tempo,
e vorrei velo di grazia nell’uomo.
Odio i sotterfugi dei poteri
dietro nembi grigi e difformi.
So che ordiscono inganni,
e spacciano plateali comizi.
Riprovevole sgualcire il giglio
col naso irriverente nel calice.
Maggio di Maria non è distante
per caute e fulgide effusioni.
Un giorno feci la scommessa
d’inseguire la mia anima,
correndo nel ventre dell’aria.
E l’aquila m’avvinghiò come preda.
Valva di fondale il tuo respiro,
prisma di luce traversa il mare.
Tu berrai con me gocce d’aurora
siccome sgusciano da rosa gli effluvi.
L’autunno accenna tramonti
su rena scarnita di sole:
ocra perpetua di stagione.
Si rivela così, il teschio dei cirri.
Non chiamarlo vano poltrire
ma dimesso abbandono d’ali.
Ho corpo esausto di passi
su limitato bagnasciuga d’onde.
Se restavi vivo Giovanni
senza il tuo sparo al cuore,
saresti morto per un dardo
impregnato di questo mondo.
Quando finiranno i pensieri
suonerà incantata la pieve,
poi sfiderò il grillo sotto le felci
con insinuazione serena di cincia.
Vanno errabondi per le strade.
Hanno gobbe grinze e fagotti.
Soccorro due zigomi di fame,
poi ho terrore a ossi di siringa.
Il tuo ultimo grido Khayyam
è salpato da eco d’anfora vuota
che ancora rimesta rigoglio
in perpetuo lamento di naiadi.
Si narra che ribollire di vino
abbia pregio di gran salti.
Mia nonna ballava tarantelle
per finte punture di scorpione.
Remo di sogni la notte
sopra cagioni di vita reale.
Parto dall’astro di Sirio
a spigolare offerte di cielo.
Non tentarmi scaltrezza
in questi pensieri di sabbia.
L’orbita maligna ti rimpingua
di malie adunche e alchimie.
Ormai disabitate la mente
corse felici verso le rive.
Ho solo sussulti di cuore
su carte di muri incolori.
Io sono mattino-cartilagine.
Non ho che minimo fiato
di luce scarlatta e fioca.
M’irride pure ingenua credulità.
Vai a balzi recondita voglia.
Asimmetrici progetti di vita.
Oggi attento al mirino d’altri.
Domani, come incerta farfalla.
Tavoli, anfore ricolme,
gomiti alti a inni d’oblio.
Bevi che il vino è sogno,
abbraccio di liberazione.
Oh! Superba Castelluccia
hai artigli su picco di scogliera,
velleità d’impavido torrione
su pietre strette di paura.
Hai mandibole grandi egoismo,
come oceano scuro d’anfratti.
Ostenti sembianza di corvo
e ipocrisia d’infima quota.
Come allegra fiamma di camino
vanno alla deriva i giorni miei.
Ma faville giovani, viste appena,
han già eternità di firmamento.
Non temere, poiché è solo ombra
quello che, infine, ti sovrasterà.
Tu sarai artefice di quel gioco
sotto mille grani cristallini.
Pochi mugugni liberatori
per dover azzittire ai capi.
Altri avventati e aperti reclami
per non essere di certo azzannati.
Così nasce da splendido cuore,
la misera capanna d’estate.
Minimo albergo di rena ardente,
in canneto violato di sole.
Stanotte Roma echeggia di canti.
In Valle Giulia è tempo di concerti.
Lì, potrai rendere tremula la pelle,
assorto sul declivio dei tuoi anni.
Se hai tanfo di vino, ti perdono.
L’inebriarsi rende sinceri
in questo mondo che impone
d’essere sempre un po’ bugiardi.
Parla, parlami sfinge che ho teso
la vena grande del mio braccio.
Come vedi io scrivo e pago,
pago la tua superbia arroccata.
Inizieremo il nostro dialogo mare,
quando le parole incideranno
graffiti sui flessuosi fondali,
lentamente berrò la tua storia.
Rinato con sembianze d’avventure
giunsi a voi, mercante d’altre terre.
Avevo aromi di spezie e profumi,
tempra di macchia e arcana magia.
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