San Marco...
Un paesino tra i monti:
colà, ci aveva condotto
la nostra auto turchina
al babbo, piaceva respirare
l’aria buona dei campi.
Scendemmo: tutta la famiglia,
il babbo, la mamma
e noi figli adolescenti
e, dopo, tante curve
e odore di benzina,
respiravamo, finalmente
a pieni polmoni.
Io avevo capelli lunghi,
castani, spioventi
come manto monacale
e gli occhi erano malinconici;
non mi piacevano i monti
che opprimevano il cielo;
non disdegnavo assaporare
invece, il fresco odore dell’origano,
appeso ai muri esterni,
di antichi casolari.
Giungemmo alla piazzetta:
io scorsi un asinello che era
certamente molto stanco,
per via di due gerle
sull’uno e l’altro fianco:
le gerle erano piene di frutta,
ma qualche arancia, la testolina
spinse fin troppo in giù
ed insieme ad altre sorelle rotolò.
Si accorse don... non mi ricordo più
che mancava qualche arancia;
inveì, il maledetto contro la povera bestia
e così gli gridò nel mentre lo picchiava:
“Svergognato,
come hai potuto fare questo sgarbo
a me che sono il padrone!
Anzi il tuo capo! ”
L’asinello piangeva: le lacrime
cadevano sul selciato.
Guardavo io, con occhi sempre più tristi.
Mai avevo visto una bestia,
piangere così tanto.
Avrei voluto al cattivo gridare:
“E tu saresti un capo? Capi non ne vogliamo
e poi se avessi una testa,
non ti saresti comportato come hai fatto! ”
E queste frasi che pronunciar volevo
rimasero nel cuore:
avevo dodici anni
avrei sperato in una fata
che potesse compiere la magia:
“Asinello vai via! ”
E l’asino avrebbe corso
come se avesse le ali ai piedi.