Lo so, tu hai le tue albe certe di canti.
Un canto di gola con note esatte,
con la voce calda fiorita nel riposo.
Questo dissimila le nostre mattine.
Albe in cui io sono vuoto di te come un canale irriguo riarso.
Con lo stesso percorso di pietraia nuda.
Senza fiato, nemmeno per raschiarle.
Conto i passi del doppio risveglio:
cinque ore in tutto oltre il ritorno incerto.
Che duri o non duri non dev’essere una questione da poco:
se la pone anche il cielo
fino a quell’anticipo di notte
che apre alla luna una mano
e la accomoda per l’elemosina del sole
sul sagrato dell’universo.
Lì, ti ho avuta con stelle ai piedi e raso di comete
per la tua veste di galassia al suolo.
Un suolo sul quale l’arco discute delle frecce.
Perché morire trapassato non è solo un coniugato verbale.
Quindi, lievitano dubbi di attese.
- Perché non aspettare?
Aspetto, certo, ad un confine noto:
l’argine del tuo nome.
Eppure,
sei in questa stanza adesso
proprio perché non ci sei
e c’eri ieri, prima del sonno altrove.
Ti rendo viva e tu nemmeno vivi mentre ti evoco.
E occulto i resti del bivacco notturno
perché non testimonino per i tuoi occhi aperti:
I tuoi occhi! Ah, i tuoi occhi assenti!
Un bosco di sguardi attenti,
bosco dei tronchi amati,
quello in cui si sposano le api con i fiori
e figliano un miele a colori.
E sono sguardi sviati da petali dolenti!
Perciò non ci sei mentre ti muovi intorno.
Vorrei scucirti l’ombra per ogni vestito di sole
tirando un filo di quell’iride che cola
come una pioggia dolce, ma senza che tu accumuli
pietraie nella mia terra.
Avere il tronco adatto ad ogni foglia che tu immagini
ad ogni fiore che ti canta come un pesco di chitarre
e radici che attraversino l’argilla
fino alla roccia del tallone.
Da lì una corteccia di carezze servirebbe a sorprenderti
cerchio a cerchio
nei giri di non solo amore.