poesie » Poesia amore sognato
» Sobrepena
Sobrepena
Un atavico suono di tamburi lontani
muove l'aria pesante (quasi densa) tra i rami al vento.
Una specie di miele lavicamente vischioso
dalle porte del tempo, dal profondo, da sempre
racconta chi siamo dal nostro millenario calpestar la terra.
Mischiati a questo, cantilena di rumori secchi:
un can c'abbaia all'ombra di luna oltre ogni dove
appeso anch'egli a quel narrar di guerre
a seguir la padrona specie "Da Secula Seculorum... Amen".
Quindi io... al rimpianto dei miei peccati di dozzina
gabellato da sempre, ritto alla porta
teso l'orecchio all'aer del remoto ascoltio a secchi
rumori, che dal sonno strappato questa sveglia impone.
Suoni perduti e ritorni... Campane a presagio di sogni incantati
urli notturni che sferzano como el viento quest'uscio.
Assi a me spinte... nuovamente poi ritese
come un rilascio di cuore dopo il batter suo naturale
(tale e tanto) che i chiodi a mano lavorati a fuoco e ferro
divelti saranno in un'implosione di legno e schegge.
Imponendomi quindi ai glaciali rumori: ascolto
silenzioso e teso, laddove anche il minimo respiro
confonderebbe la provenienza mischiandone quei dubbi
che già d'oblio mi perseguitano.
La mano mia che trema, or dissennato io, e sperso
impaurito sto, tra un tremolio di mani
e l'innaturale momentaneo palpito del mio cuore.
Come in sequenza di tuoni, odo:
aghi di pino e rami d'ulivo, lungo il sentiero
mossi e spezzati da passi lenti che strascicati
obscuramente vengon posti.
Un pellegrino vestito di stracci, opino:
un magro bambino col viso smunto
o un vecchio insolente, irriverente e stanco
la cornamusa ripete la sua tiritera eterna
del colpo alla morte e uno alla vita.
Il breve temporale tra'l passato e il venire.
Un'ombra scura infinita, di gufi e spettri,
fantasmi e cenci, muschi odorosi e velenosi funghi.
Che un calzolaio (o un povero sarto)
col suo asso mancato, e il suo pugno di fango rappreso da un lato
come un santo arretra con mano tesa e l'altra
come un "retro vade satana" che non so qui spiegare...
O un cieco, o uno storpio qui alla mia (povera) dimora
a chieder mangiar che neppur'ho per me...
Ultima mia, dicevo, povera dimora
che nascosta con parsimonia da occhi indiscreti
in questo remoto bosco... nessuno dovea trovare mai.
Che il mio cuore spento non vuol più amare il prossimo
e bussa forte e piano, a volte stanco... e penso:
"O, il Santo di "Sobrepena" stanotte passa qui per caso
oppure è la fine... e questa volta, certa è la fine".
Poi la paura torna a bussare, non del morire
ma del dolore di chi lascio senza voluto farlo... soli.
Infine, uno strascico, un pianto antico
un portico infinito che dal nulla sbattuto quin'divelto.
Poi'l tempo fugge, poi ancora vento, e buio e freddo
e la notte di luna piena appena 'parsa
io che gl'avvicino lento l'udito... poi di scatto muovo verso...
Io... l'umano (pensate) che passo all'erta.
Quindi un lampo, la decisione, un istante d'azione
pronto io, al terrorizzato no urlato a tutto cuore
avvolto come paio, da un acquiescenza risoluta
come una attiva rinuncia
ma un braccio armato di tremule lacrime sparse
tra un pianto spezzato e la reazione ultima
guerriero che sempre è in me, mai dimenticato.
Ricordatemi così (direi se fosse l'ultima: "Pronto a morire"...
Don Chisciotte io, con l'arme alzate e il cuore in mano...
orgoglioso che questa voce impaurita a tutto diaframma
(unica arma che ormai mi resti) spaventi il nemico...
ed esco brandendo l'urlo...
ma ai pochi passi dell'impeto mio adrenalinico
da furore a introspettivo panico infinito di questo "fuori"
mi guardo intorno...
Dove sono il pellegrino, lo smunto bambino, il vecchio insolente
i gufi e gli spettri, cenciosi i fantasmi, i muschi odorosi
i velenosi funghi
E quegli strani rumori? L'atavico suono di tamburi lontani
l'urlar del vento, l'abbaiar del cane alla luna? Dove sono?
Nulla... nulla di nulla, pur guardandomi intorno
all'infuori di me, nulla di nulla.
E or la mia mente dispera, tra i suoi due me:
quell'appoggiato ai ginocchi così piegato che sta
coll'urlo impavido abortito... e quel che sghignazza dentro
quel nemico mio ché da sempre in me.
Raspo terra tra lacrime mischiate e rabbia
Le dita che impastano fango inginocchiato ancora
Parlo col sarto
che nel mio cuore sta ogni istante.
Io, sempre l'io mio, solo ogni volta, notturno in silenzio...
ancora una volta... raccolgo anch'io...
un povero pugno di fango rappreso...
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
1 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- apprezzata... complimenti.
B. S. il 08/02/2010 18:46
"poi la paura torna a bussare, non del morire ma del dolore di chi lascio..."
Non facile, ma bella.
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0