Autobus pieno, come ogni mattina.
Odore di sudore e di fango si diffonde lentamente fra i sedili e le persone che, stanche, si poggiano sui pali e afferrano le maniglie che scendono dall'alto.
Fuori la pioggia.
Gente che corre, che sbraita, che diventa un tutt'uno con l'acqua.
Il cielo è grigio cupo. L'aria, fresca, sembra essere visibile, colorata, fra le fronde degli alberi che danzano.
Ticchettio di gocce sui vetri. Adoro ascoltarlo con gli occhi chiusi. Mi riempiono il cuore. Gocciola anche lui, cantando con loro.
Poi le guardo.
Dritte scendono sul vetro appannato. Corrono, si fermano, corrono ancora.
Mi fanno pensare all'essere umano. Corre, corre, corre, corre, finché non cade fra il mare di gocce che si è fermato sul bordo del finestrino.
Poi ci sono gocce più lente. Guardano passare le altre, aspettando chissà cosa.
Ne guardo una in particolare che è lì da un pò, in attesa.
Un'altra goccia le si avvicina. Lei la scruta e sembra seguirla, ma l'altra è troppo veloce. Cade, mentre lei torna immobile.
Passa un po' di tempo. Gocce di vario tipo rigano continuamente il vetro. Razzi d'acqua creano graffi sulla parete trasparente. La feriscono, la colpiscono. Dolori? Miserie? Paure?
La mia goccia però, al contrario di altre colpite dal bombardamento acquoso, rimane sempre ferma lì.
Altre si aiutano l'una con l'altra a scendere nel mare di pioggia che si è formato fra davanzale e vetro.
Altre seguono la strada che ha spianato la compagna prima di loro.
Altre ancora, sbandano contro una goccia più lenta e la portano giù con sè.
Così accadde alla mia goccia. Mentre attendeva, la goccia che tanto aveva aspettato arrivò, dritta su di lei, e riempendola, appesantendola, arricchendola, la portò via con sè, verso quell'immenso mare di lacrime del cielo.
Che quel Mare sia l'inferno o il paradiso, io questo non lo so.