Tra mille, in sommo rigoglio, nacqui.
Non fiore, ne arbusto, ne frutto.
Foglia nacqui, niente più, e tra i mille miei fratelli
i festosi canti di pettirossi accompagnavano il fischiare del vento,
che come magico strumento usava noi per comporre la più fine melodia,
sottile ed impercettibile bisbiglio di antichi e dimenticati saperi,
e un giovane e forte sole ci baciava ed avvolgeva d'un tepore più antico dell'essere.
Crebbi forte, aggrappato con forti braccia al mio paradiso;
di sublimi cantici e naturali prodigi l'eterea madre ci viziò,
in un crescendo di fiori, che coi più svariati colori parevano sfidare il cielo,
e di arcobaleni, riflessi stessi dello spirito madre, con cui il cielo rispondeva al gioco dei fiori;
e di uccelli e roditori, che tra le nostre dimore, e le di esse radici, crescevano e prolificavano,
e dei figli d'Adamo, grandi sognatori a volte tristemente vinti da troppe illusioni;
e di tante, non meno importanti, altre meraviglie, con le cui lodi potrei colmare il tempo.
Se ripenso a quei giorni, a come mi sentivo eletto, eterno!
immortale! in quanto della vita stessa mezzo ed estensione.
Le nubi; le stelle; i cieli che ho visto chi mai li vedrà?
E tutte quelle danze di cui, con tutti i miei fratelli, mi sono fatto interprete, chi le ricorderà?
Le mie braccia una volta forti cominciano a dolermi, e tra i miei fratelli odo strisciare la morte!
Il sole non ci avvolge più nel suo ardore, non più, e passeri e pettirossi hanno abbandonato i loro canti.
Loro che possono spiccano il volo, ma noi? Noi abbiamo solo il nostro giaciglio, e debole diviene l'appiglio.
Il vento gelido soffia ora tra noi, vulnerabili e fragili figli della vita;
i primi cadono, muti, in silenzio, senza nulla potere; poi i secondi sui primi, ed i terzi, ed i quarti.
Gli uni sugli altri s'adagiano al suolo, impotenti, rassegnati alla fine.
Giunge il silenzio. Tutto tace, tranne il vento, che con tono insensibile inneggia alla morte.
Se guardo la, dove i miei fratelli danzavano coi falchi e dove la farfalla spiccava il primo volo,
vedo solo un vuoto paradiso, tristemente spogliato di tutti i suoi angeli.
Sono solo, ultimo tra i mille che con me nacquero. Nella solitudine anche un paradiso diviene inferno.
Non piangerò, crudele madre che ora mieti con falce d'oro le vite dei tuoi figli una volta adorati;
non piangerò, possente vento, caronte la cui dolcezza ci cullò nelle spensierate danze, e ch'ora ci culli verso la fine;
d'oro e di fuoco si veste la terra, si veste coi resti dei caduti angeli, come in un tremendo mimare del cielo i tramonti.
Il cielo è terso, e piange! Non per la gioia dei primi fiori ne nella furia della sua gioventù, piange malinconico,
unico affranto dal nostro destino. E il sole? dove getta ora i suoi raggi? Non qui, non su noi che tanto l'amammo.
Baciami o cielo con le tue lacrime, baciami madre, baciami e lasciami scivolare nel mio abisso! Baciami!
E nel cullare più dolce che è quello del vento, senza rimpianti, affronto la mia fine.
Presto nulla resterà di me, ma prima d'allora, di quel tremendo tramonto che sfoggia il suolo, io, sarò il cuore del sole!