L'uomo che imitava gli aquiloni
aveva braccia grandi di sequoia.
Si misurava in gioco,
ogni giorno, verso sera
con gli uccelli migratori.
Attraversava nubi di brina
e si bagnava le piume dell'anima
con le gocce cadute da arcobaleni sbiaditi.
Si dava appuntamento nel bosco delle betulle
ad imitare il rosso del fogliame.
Scricchiolava la sua anima come ramo spezzato
che ardeva di gemme inesplose
Contava quanti passi lo separavano
dallo sguardo delle sue amate ninfe.
L'uomo che imitava gli aquiloni
non aveva un nome proprio,
si chiamava da solo con un nome nuovo
ogni primavera.
Quando s'innalzava troppo in alto
soffriva di vertigini
sognava di vedere cose nuove,
cose che sulla terra non esistono,
Cose che destavano stupore alle sue stesse pupille,
socchiudeva le palpebre e vedeva paradisi
di braccia tese.
Braccia come ramaglie di querce ed ulivi.
Braccia come grovigli di nasse.
Come reti che sognano mari aperti e pescosi.
Braccia come baci che ti stringono.
Braccia come catene che ti legano,
braccia come passaporti aperte alle frontiere dell'amore,
braccia come lasciapassare in un mondo di accoglienza.
L'uomo che imitava gli aquiloni si assentava spesso,
metteva il cartello "closed" e spariva per mesi interi.
Era naufrago su rive azzurre e piane
Era seduto sotto palmeti di quiete.
L'uomo non ricordava mai il suo nome,
se glielo chiedevi ci doveva pensare su qualche momento,
poi scrollandosi le ali coperte di brina
ti fissava dritto negli occhi
e ti diceva un nome, uno di un altro,
un altro e non il suo.
L'uomo che imitava gli aquiloni era un mistero
persino a sè stesso,
non aveva nome, né carta d'identità, ne domicilio, né dimora,
né cane, né donna, né amori.
L'uomo che imitava gli aquiloni abita nel mio sogno ricorrente.
Io lo chiamo con un nome misterioso.
Il suo nome è quello di un principe,
un principe folle di nome Wolfang.