Io con te della morte ci ho sempre
parlato, da prima che ti soffiasse
a fianco, perchè era il nostro gioco
innocente cercare risposte impossibili.
Allora tu eri più timorosa
(dovevi nel ruolo),
io imbracciavo come un fucile la parte
di chi entra per primo nel giardino della paura
dal cancello arrugginito
che cigola dietro ogni movimento
e ti chiamavo per nome quando i luoghi
erano diventati più sicuri.
Allora tu facevi piccoli passi
verso di me, cauta, a non svegliare un pericolo
che fa sempre da cane da guardia ai profanatori.
Io riprendevo ad andare avanti,
quando ancora ti sentivo tra le mani tremare
le spalle dopo avermi raggiunto,
e se fosse apparso un mostro,
pensavo,
sarebbe scomparso con una strizzata degli occhi
o nel peggiore dei casi
avremmo giocato agli yankees e agli indiani
dove uno muore per finta
e intanto il pericolo e il male si allontanano
e non se ne parla più.
Poi ci sarebbe stata una corsa
alla crostata di mirtilli
che preparava la vecchia prozia
del mio amico,
e saresti stata lì anche tu,
perchè ti ho calata nella mia infanzia
con l'ascensore.
E la morte sarebbe stata
come la fame che si può saziare
e come quella stanchezza che ci piombava
addosso alla sera
e ci vedeva abbracciati
in sonni e sogni di bambini.