L'abitudine, suonai il campanello
un alito freddo mi accolse,
lo sentii sul collo aprendo quella porta
il vento gelido della tua assenza,
le tue cose impolverate,
inutili smarrite senza te
e cominciai a cercarti in ogni posto,
in ogni stanza, nella tua camera,
quel letto che fino alla fine
ti aveva accolto,
nella cucina,
dietro le porte come se la morte fosse un gioco,
a nascondere l'amore.
E sentivo i rumori della tua presenza,
un rubinetto aperto,
una goccia che cadeva, le lancette dell'orologio
avevano fermato il tempo.
Ti chiamavo
e quell'eco rimbalzava dentro
nello stomaco nel cuore,
nel vuoto lasciato dalla tua partenza.
Che giorno era? Lunedì o forse sabato domenica,
ma si era la stessa cosa.
La tua scrittura tremante sul calendario,
le date, gli appuntamenti dal dottore,
le scatole dei medicinali, i tuoi armadi, le tue manie,
il tuo ordine, ora disordine,
i giorni allineati come soldatini,
come pastiglie da prendere
per stare meglio,
i tuoi vestiti vuoti,
appesi, le pentole, i bicchieri,
le cose dentro il frigo,
le foto alle pareti, ricordi di una vita,
traslocare, vendere, liberare i sentimenti altrove,
dentro una speranza o fra quel bianco gelido
del marmo in quella casa che lo so
non ti appartiene.
Destinata a cercarti ancora, a cercarti sempre
in un telefono che resta muto
e scoprirti nonostante il tempo sempre più viva,
come un dolore, una ferita aperta
e scoprirmi nonostante il tempo
sempre più bambina
perchè è così che torno quando piango,
ogni volta che suono il tuo campanello,
che chiamo il tuo numero,
ogni volta che ti rincorro
mamma,
dentro ad un ricordo
senza più fiato.