Tiro a lungo, l'ultima sigaretta prima di andargli a morire accanto.
Esperienza scioccante di ogni sera, evitata il più possibile ma infine destino obbligato.
Lontano dal letto ho più coraggio, mi conosco, lontano dal letto sono solitamente più lucido.
Io l'amo, lei non più o non lo vuole più.
Il male è intenso, profondo, tanto cinico da rimescolare pensieri laceri e lasciare solchi dolenti sul mio corpo.
Per darmi tregua avrei voglia di abbracciarla e stringerla forte, ma ora sono cauto, perso nel tormento del rifiuto atteso.
Non cerco il contatto, ho smesso di cercare il sotterfugio, l'incidente, il tocco fortuito che, seppur rubato, offre un attimo di ristoro.
Un gesto inutile e inconciliabile con la bufera che senza sosta fruga nei miei pensieri e flagella le mie carni.
Mi stendo accanto infine; e avverto, prima di spirare, un dolore fisico che non so spiegare.
Voglio pace, dare pace. Voglio sollevare e sollevarmi. Voglio tregua.
Darmi forza per fare un passo, magari trovare un posto dove andare a morire da solo.
Un divano, una sedia, un gradino, forse un piccolo giardino.
Ancora più solo, più disperato forse, ma sollevato e assolto dalla pena indegna di sentirla accanto immobile, sfacciatamente armata d'insopportabile indifferenza.
Lei compagna di un nulla impalpabile, presenza vitale del tutto virtuale, vuole dirmi qualcosa che non sa dirmi