C’è un vecchietto in piazza Sant’Oronzo che
vende i biglietti della lotteria e fa
tenerezza vedere il presepe, giù,
nell’anfiteatro fermo da tempo
lontano. Le strade strette guidano
l’anima insicura verso improvvise
apparizioni: chiese e palazzi con
pietre chiare e sfuggenti e il vento porge
i suoi sbuffi silenti tra loro.
Da Porta Rudiae entro nel cuore della
città vecchia; dal sapore nobile
via Libertini mi spinge tra le
braccia larghe di piazza Duomo, dove
è l’esempio del vortice dorato
che la mente subisce dalla bella
visione tra la chiesa e il seminario.
Proseguo nell’incanto: via Palmieri
e i suoi palazzi trionfanti che con
putti e mensole decorate fanno
respirare una calda aria; profumi
inebrianti aprono la vista per
apprezzare la severità forte
di Porta Napoli, che apre lo sguardo
sullo spiazzo universitario. Volgo
le spalle e torno nei meandri di quel
Medioevo magico che assaporo
ancora oggi. Ecco! Fulmineo splendore!
Dopo aver costeggiato con stupore
palazzo Adorno, la magnificenza
spalanca i miei occhi: lussuria e forza
riassunte sulla facciata della
basilica di Santa Croce. Non ho
parole bastevoli per lodare
il fascino tra sacro e profano di
quell’orgiastica espressione artistica
chiamata Barocco. E non mi stanco di
camminare fino a quando non scorgo
un portone antico rivelatore
di una grazia comune a tutti questi
palazzi leccesi: l’ampio cortile
che motivi vegetali rendono
gentile e contrasta con le anguste
stradine. Forti vibrazioni sento
nell’atmosfera, in una città dove
la primavera è in ogni ora presente.