C'è la fenditura traditrice,
di un graffio che sfugge
alla morsa schiavizzante di ogni nome;
solitudine,
ladra incombattibile di fonemi,
quante volte forse
ti vidi e parlai senza vederti nè udirti,
nel carcere d'avorio di una conchiglia
sedotta dal mare e abbandonata nella sabbia?
Sì, solitudine,
sei tu il disegno di bambino
di quella paranza scolpita nello zucchero,
che si dimena
come tigre tra le fauci di una gabbia,
e si insinua in frammenti di onde,
con sè recando,
ciò che della mia anima arlecchina,
sono e fui incapace di intercettare.
Sei tu, sì,
solitudine,
l'impronta di quel treno dispettoso,
che si è concesso all'abbraccio della nebbia,
senza mai assaggiare il respiro ristoratore,
del bacio di una piccola stazione.
Sei tu, solitudine,
il sanguinare di quel ponte spezzato,
dove l'alfa piange
lo smarrimento dell'omega,
il pianto dorato di un bambino,
che rifiuta di fuggire dagli occhi,
perchè teme di scoprirsi vita;
la mia daga è impolverata,
in questa disfida dell'impedirti,
di conoscere di me,
più di quanto tu già abbia annientato.
Sei il filo nervoso
di elettricità ancora vergine,
pronta a pugnalarmi con le sue scosse,
il sonnecchiare pur orgoglioso,
di un castello di sabbia
costruito per essere dimenticato,
e che per vendicarsi,
abbrustolisce impietoso
la pelle indifesa dei piedi.
Quante storie stai ancora cercando,
su cui mettere il tuo autografo assassino,
quante penne stai ancora tentando di sedurre,
docili e umiliate dalle tue urla,
come lo è da un getto d'acqua prorompente,
il soave miagolare di un gattino?
Vieni, solitudine,
ti ho prenotato un biglietto,
per viaggiare con me tra le nuvole,
dove scorgerai l'essenza della tua vacuità,
e più non potrà udirti,
neppure il più piccolo granello di realtà.