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Concetto spaziale
Bianco ovunque. Bianchi cieli. Bianca la terra. Bianco il nulla che mi circonda. Solo un orizzonte bianco ed io che mi interrogo. Ero nel mio studio, credo un paio di giorni fa, anche se qui il tempo non ha un vero significato fisico, almeno non lo ha come lo intendiamo noi. Stavo esaminando un manoscritto indiano del primo secolo a. c., un testo che non avrebbe dovuto neanche esistere. Conteneva infatti strani disegni raffiguranti circuiti elettrici, motori a scoppio, bobine e quello che a prima vista sembrava un modem. Non si trattava di uno scherzo di qualche collega del dipartimento di Storia dell'Arte. Avevo effettuato io stesso le analisi al carbonio. La datazione era esatta. Non era espressamente spiegato a cosa servissero tutti quei macchinari ma qualcosa avevo intuito.
In lontananza scorgo una figura: finalmente qualcuno. Mi affanno per raggiungere lo sconosciuto, ma nuovamente appena lo guardo in volto, la delusione mi assale: non è altro che un riflesso di me stesso. Devo essere passato già di qua. Il tempo qui nelle regioni del bianco, non scorre come da noi. Ormai l'ho capito. È infatti possibile, e probabile, se come me non si ha una guida del posto, imbattersi in riflessi, poco meno che fantasmi, del passato. Da quando sono qui mi sono incontrato almeno dieci volte.
Tornando al manoscritto, non posso spiegare la mia emozione nel constatare che si trattava del progetto di un macchinario unico e fantascientifico. Ero alle stelle. Completamente ubriaco per le possibilità che mi si aprivano. La macchina avrebbe completato il mio percorso e mi avrebbe consentito di abbattere il muro di vecchiume e preconcetti che alberga nella comunità scientifica universitaria. Tutti pronti a gridare al miracolo e nessuno che si voglia sporcare le mani. Avrei oltrepassato i limiti del pensiero per giungere lì dove è nata l'idea stessa di universo. È inutile aggiungere che fui preso per pazzo. Un ciarlatano. Buono per una favola o per la puntata di lancio di una serie tv americana. Non mi detti per vinto. Anzi, rubai i fondi per i progetti di ricerca e sviluppo e scomparii in un paesino vicino Latina, dove potei continuare indisturbato gli studi sul distorsore spazio temporale.
Ultimai il progetto in meno di sei mesi poi cominciai con gli esperimenti. Il primo tentativo di teletrasporto andò meravigliosamente. Riuscii a far sparire una mela e a farla apparire meno di un secondo dopo fuori dalla porta della cucina. Ero euforico. Due settimane dopo fu il grande giorno: lo spazio era sotto controllo, volevo controllare il tempo. Calibrai la macchina su Newton, il mio gatto e fedelissimo confidente da almeno dieci anni, e lo mandai indietro nel tempo. Non ebbi risposte. Quella sera mi ubriacai al bar della piazza e feci a botte con un cameriere che mi chiese l'ora. Ma non ne sono sicuro, ricordo molto poco. La mattina seguente a svegliarmi fu proprio Newton: era lui, il collare, le fusa, il colore, tutto combaciava; era lui ma cucciolo. Ero un genio. Il problema con i geni è che generalmente sono pazzi, e se non lo sono, lo diventano inebriandosi nell'autoglorificazione. Decisi di provare a viaggiare nel tempo e nello spazio lì dove nessun uomo era mai stato: dovevo raggiungere l'alfa, l'istante e il non luogo da cui tutto ebbe origine. Dovevo vedere in faccia dio. Ripensandoci non è stata la mia idea migliore. Oltre il tempo e lo spazio, oltre ogni limite immaginabile, c'è solo questo nulla bianco, un limbo infinitamente esteso e circolare. Rassegnato mi appoggio sul fianco e dormo. E sogno di trovarmi in mille posti diversi contemporaneamente: sono in Cile e a New York, a Pechino, al polo nord. Sono ovunque. È un dolore insostenibile. Voglio svegliarmi. E mi risveglio urlando. E malinconico come se ricomponendomi avessi perso qualche pezzo di me. Per un po' non mi accorgo neanche che la mia prigione è cambiata. Il bianco si scioglie dal cielo e dalla terra, e mostra un non volto in cui riconosco tutti i miei amici, tutta la mia famiglia fino al nonno di mio nonno, un non volto che ha portali su tutte le finestre dell'universo, ha occhi che assomigliano, anche se nettamente diversi, ai miei da bambino. Pieni di speranza e meraviglia. È stato un attimo. Poi ho sentito strattonarmi e una voce.
<< Signore scusi, ma la mostra sta chiudendo >>.
Sono disorientato. Tutto intorno tele, pannelli, sculture. Di fronte ho una tela bianca con un lungo taglio verticale al centro. Scuoto la testa, come ubriacato dalla realtà, ed incerto di tutto saluto con un cenno gli uomini della security, e mi getto in pasto al traffico e alla vita.
<< Certa gente è proprio strana. Pensa, quel signore, è da questa mattina che stava impalato davanti quel quadro bianco di Fontana. Non ha visto nient'altro. Mah. >>
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