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Il cuore del corvo-seconda parte
Le giornate trascorrevano tranquille. Tutto sommato le ferie estive non mi dispiacevano.
Girovagavo per la città in cerca di una qualche ispirazione che sbloccasse la mia creatività, e decisi di fermarmi nel parco per rilassarmi all'ombra di un albero. Mi stesi sul prato, incrociai le braccia dietro la nuca, e chiusi gli occhi.
Il profumo dell'erba mi riempiva le narici, ed il vento fresco e leggero potava con se un intenso profumo di fiori. Questa era, senza alcun dubbio, la mia stagione preferita.
Mancava una settimana al festival dei fiori nel mio paesino. Si teneva ogni anno, vicino alla spiaggia, e mia madre era sempre fra i partecipanti. Amava coltivare fiori, in particolare le orchidee. Diceva che erano come una donna ammaliante: eleganti, sobrie e profumate.
Sorrisi, ripensando alla serietà della sua espressione, mentre pronunciava quelle parole. Mi mancava molto, nonostante non ci fossimo più parlate dopo la morte di papà. Era una specie di tacito accordo, io sarei scomparsa dalla sua vita, e lei non mi avrebbe mai detto che, in realtà, pensava che fosse accaduto tutto per colpa mia. Diventò apatica, troppo persa nel proprio dolore, per accorgersi di quello degli altri.
Il cellulare squillò, e cacciò via i brutti pensieri.
"Pronto?"
"Allora, ci sarai?"
Riconobbi subito la voce all'altro capo, era Emma. Mi aveva invitato al festival, visto che non vi prendevo parte da due anni, e si era gentilmente offerta di ospitarmi per un paio di giorni nel cottage che aveva affittato assieme al fidanzato.
Meditai qualche secondo prima di rispondere.
"Ok, tanto che male può farmi."
"Fantastico! Ricorda di chiamarmi appena arrivi, verremo a prenderti in auto."
Non avrei voluto disturbare la sua vacanza di coppia, ma c'erano delle cose che dovevo fare, e non potevo più rimandare.
Nei giorni che seguirono, preparai i bagagli, sbrigai qualche commissione, e partii.
Il viaggio fu tranquillo così, dopo circa due ore, arrivai a destinazione. Non chiamai Emma, avevo voglia di fare due passi.
Il sole era alto, e c'era un vento lieve, che faceva tremolare appena le fronde degli alberi, che costeggiavano il viale principale. Il profumo del mare travolse i miei sensi.
Mi sentivo a casa, e ne ero felice.
Percorrevo le strade a me così familiari con una calma innaturale, sospesa in un universo parallelo, fino a che raggiunsi quella che, un tempo, era stata la mia casa.
Guardai quel vecchio palazzo bianco come un vecchio amico, e tutti i ricordi che cullavo nell'angolo più remoto della mia mente, si fecero largo con la forza di un violento uragano.
Piansi, fino a sentire il cuore vuoto. La mia vita, la mia famiglia, il mio mondo, avevo perso tutto.
Il suono del cellulare mi riscosse violentemente.
" Dove sei? Va tutto bene?"
Emma sembrava preoccupata.
Inspirai a fondo, e risposi.
"Si, arriverò fra poco. Dimmi dove si trova il cottage, prendo un taxi."
Nonostante la sua riluttanza, alla fine si convinse a lasciarmi fare come volevo e, dopo avermi dato tutte le indicazioni, riagganciò scocciata.
Guardai il cielo. Era pomeriggio inoltrato.
Mi volsi verso quella casa, che avevo tanto amato, e la salutai per l'ultima volta, consapevole che mi stavo lasciando il passato alle spalle, un pezzo alla volta.
Camminai a grandi passi, e raggiunsi la spiaggia poco dopo.
Finalmente, il mare. Lo scroscio delle onde, l'intenso profumo dell'acqua salata, il mio corpo diventò leggero, e mi sentii in pace.
Mi lasciai cadere sulla sabbia fresca e, in pochi attimi, caddi in un sonno profondo e tranquillo.
Mi svegliai sotto un tappeto di stelle. Mio padre lo avrebbe adorato.
Mi misi a sedere. Intorno a me c'era solo oscurità, non mi dispiaceva affatto.
Non avevo nessuna voglia di andare a cercare il cottage di Emma, così decisi di restare lì; dopotutto nel mio bagaglio c'erano delle lenzuola, avrei potuto cavarmela quella notte.
Improvvisamente, un rumore di passi veloci mi fece sobbalzare. Mi alzai in piedi, e puntai gli occhi alla mia sinistra. Cominciai a distinguere una figura alta, probabilmente un uomo, a giudicare dalla stazza. Mi accorsi che correva nella mia direzione. Mi spaventai, e cercai qualcosa con cui difendermi da un'eventuale aggressione. Era sempre più vicino. Le mani cominciarono a tremarmi, mentre cercavo a tentoni nella sabbia un ramo, o qualcosa del genere.
Improvvisamente, l'uomo si fermò. Era a pochi metri da me. Sentivo il suo respiro corto e veloce. Mi voltai a guardarlo. Riuscivo a distinguere i suoi lineamenti forti e regolari, e la sagoma di un corpo ben proporzionato.
Mosse qualche passo.
Indietreggiai.
"Non voglio farti del male"
Aveva una voce calma e profonda. Mi era familiare.
"Cosa vuoi allora?"
Parlai con un filo di voce.
Infilò una mano nella tasca dei pantaloni, ed estrasse qualcosa che mi puntò addosso. Scattai all'indietro istintivamente.
Alzò le mani in segno di resa.
"Sta calma, è solo una torcia"
Restai sulla difensiva, fino a quando un fascio di luce mi colpì il volto. Schermai gli occhi con una mano, e mi sforzai di capire chi era il mio interlocutore.
Incrociai il suo sguardo, e ne fui pietrificata. Era lo stesso ragazzo che mi aveva quasi investita pochi mesi prima, ne ero certa.
Quegli occhi, avevano la stessa inquietudine che avevo riconosciuto la prima volta, eppure ora sembravano brillare di vita propria. Quei due pozzi di catrame mi parvero lo specchio della mia anima.
Il ragazzo abbassò la torcia, e si avvicinò con cautela.
"Non posso crederci. Non pensavo neanche che tu fossi reale. Avevo creduto in un'allucinazione. Non scappare, ti prego.. voglio solo farti delle domande.. Io.."
"Tu parli troppo, e non dici niente"
Restò interdetto dalle mie parole.
Accennai un sorriso. Lo trovavo buffo.
Rise imbarazzato.
"Hai ragione. Mi chiamo Alex"
"Io sono Irene."
Ad un tratto, sentii la testa leggera. La mia vista si offuscò. Tentai di restare in piedi, ma le gambe erano tremendamente pesanti. Alex mi parlava, ma lo sentivo distante. Mi sentii cadere e, prima di precipitare nel buio, notai un corvo, tatuato sul collo del ragazzo con gli occhi ossidiana.
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