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ALLA CATENA
In una masseria della terra di Puglia campava un cane - un lupo dal pelo nero intenso - inchiodato ad una catena lunga tre o quattro metri, per tutte le stagioni : e al vento, e alla pioggia, e all’afa soffocante. Una ciotola davanti, d’acqua neppure limpida, e gli avanzi dei pasti dei suoi padroni ; a Natale e a Pasqua le ossa dell’agnello. Probabilmente nessuno si era premurato di dargli un nome, ma a che sarebbe servito? L’animale era nato quale cane da guardia, il brillare degli occhi, che ancora emettevano l’assoluta fierezza della sua razza, bastava a tenere alla larga i malintenzionati.
Anni su anni vissuti con quella catena come compagna avevano reso “ Senzanome “ - così lo chiameremo - cattivo. L’odio che ogni suo tratto sprigionava avvertiva che non era il caso di avvicinarsi, manco per scherzo, al suo angolo. Le oche e le galline del cortile, abituate da sempre all’abbaiare e credule di quanto tramanda il proverbio, subito avevano sperimentato di avere incontrato una eccezione, perciò il loro becchime lo cercavano altrove e avevano reso l’animale ancora più solo e ancora più feroce.
A Senzanome tenevano compagnia, certo! la luna, le stelle, il cielo, il sole, alti sopra il suo sguardo, altissimi, ma egli non poteva non spiare e non immaginare oltre la recinzione, di dove gli provenivano i rumori ed il chiasso dei contadini, di dove s’incamminavano i camion e gli aratri per un viale fra olivi che si smarrivano alla vista, e non gli era per niente di conforto intuire la presenza di altri cani e lo strusciare di mille gatti. L’unica consolazione gli derivava da una cuccia, ricavata fra carcasse d’auto e tirata su con pezzi di lamiere, nella quale si rifugiava nei momenti in cui percepiva più intensi i suoni della vita. Allora, là dentro, pur vergognandosi di sé stesso, si domandava perché mai fosse venuto al mondo e quali colpe dovesse espiare.
Forse neppure era più in grado di camminare ; la sua stessa voce si era conservata sì tonante, ma rassegnata. Un unico, simpatico piacere gli era concesso, quello di odiare e desiderare di fare del male a chiunque si fosse avvicinato. Difatti, un certo giorno, gli fu buttato vicino un cagnetto vecchio e cieco affinché fosse suo privilegio distruggere la larva di vita che il poveretto conservava.
I padroni della masseria la sapevano lunga. L’istinto di Senzanome, il suo primo istinto, fu di sbranare quell’essere che, giunto sin lì di sua propria volontà, di sua propria volontà sarebbe potuto andare via. Invece egli decise di cogliere due piccioni con una fava, di uccidere cioè il cagnetto a sua insaputa dopo avergli lasciato “ gustare “ qualche giorno della vita della masseria e, insieme, di lasciare soffrire i bambini e gli adulti della casa che, trepidi, aspettavano la sua reazione.
La bestiola, ignara, dal primo istante aveva provato per Senzanome simpatia e affetto. Quel grosso cane, per come era in grado d’immaginarlo attraverso i ricordi di quando i suoi occhi avevano posseduto la luce, maestoso, con una voce tanto possente, un portamento eretto, audace, nobile, avrebbe dato sostegno alla sua fragilità. Per anni egli aveva vagato fiutando il cibo nei rifiuti, evitando i luoghi affollati, sfuggendo gli animali, e sfuggendo gli uomini, che sempre gli avevano riservato un trattamento non troppo... affettuoso ( ed un uomo in particolare, che gli aveva tolto il gusto di vivere buttandogli della calce sugli occhi per vincere una scommessa. ) Dunque, al bastardo pareva di essere diventato lui stesso finalmente un cane vero, finalmente un cane da non prendere a calci, finalmente protetto, finalmente temuto : sì, temuto in tre metri quadrati, ma : via! ad un cieco distese di prati non servono, ad un cieco basta un rifugio, bastano degli avanzi, basta una pozzanghera per abbeverarsi, basta un tetto in caso di pioggia e la sera può addormentarsi in pace con la propria coscienza, ringraziando il suo Dio.
Il randagio comunque non era una bestia stupida. L’esperienza acquisita gli aveva fatto comprendere che Senzanome gli portava del rancore, la pelle del lupo si rizzava allorché, per addormentarsi un poco più al caldo, si accucciava contro la sua schiena. Sforzandosi di non pensare che con un mezzo boccone quello avrebbe potuto divorarlo, reagiva parlando, parlandogli, raccontandogli episodi della sua vita, ingigantendo quel niente di avventure che gli erano accadute, per dare all’amico sempre vissuto prigioniero storie e ricordi, per rincuorarlo, per aiutarlo a sopravvivere, facendogli comprendere di avere trovato - lui, vecchio ottuagenario - un amico se non addirittura un padre.
Ai discorsi dell’altro Senzanome preferiva non rispondere, oppure rispondeva con malagrazia, ancora coltivando, ma vergognosamente rimandandola, l’idea di sopprimerlo : del resto, che altri piaceri la vita gli avrebbe riservato?
“ So bene che non vedi l’ora di liberarti di me, “ una sera il cagnolino gli sussurrò recuperando di un fiato tutto il coraggio : “ se lo desideri, ti prego : fallo, è un tuo diritto, io qua sono un intruso. Se perdessi anche la tua amicizia, ti sottrarrei il gusto di uccidermi, se appena sapessi come un cane possa suicidarsi. “
Senzanome capì, avvertì nel cuore una sensazione sconosciuta, sentì l’orgoglio di essere padre, lui che mai aveva sperimentato il piacere dell’amore e, di conseguenza, la paternità. Capì che, come esistono gli uomini, esisteva anche un essere brutto, tozzo, goffo, miserrimo discendente di cani, che aveva bisogno di lui, e del quale lui era la speranza di sopravvivenza. Non gli rispose, perciò, ma pianse. E dalle lacrime il cagnetto a sua volta capì.
Da quel giorno iniziò un nuovo rapporto; i giorni non erano più così angoscianti per Senzanome, meno fastidiosa la presenza della luna, più larga la cuccia, regale il pavimento, altrove i gatti. Ormai neanche più provava il piacere d’intimorire chiunque osasse avvicinarsi, anzi aveva ceduto all’amico il compito con i pulcini, dopo averlo un tantino istruito su come emettere i do di petto.
Le notti, poi... le notti conoscevano in un baleno l’alba del giorno successivo. Serrato con l’amico nella cuccia, bisbigliando come se fosse preoccupato che qualcuno potesse intenderli, Senzanome apprendeva il colore dell’erba ed il profumo delle femmine ; a sua volta informava l’amico su cosa significa, o vorrebbe significare, essere un cane con un garrese sei o sette volte maggiore.
Infine, una certa sera: “ ho notato, “ il cagnetto gli disse bisbigliando ancora più piano, “ che la tua catena ha un attacco di corda. Se la raspassi perderei alcuni denti, ma poi potremmo fuggire verso il verde, verso la libertà... Dovresti sopportare il disagio di un pezzo di metallo intorno al collo, ma la libertà lo vale. Ed io ti aiuterei... Mi porteresti con te, vero?... Conosco un poco il mondo...”
Senzanome, saresti libero! Senzanome, conosceresti finalmente l’al di là del cancello! Senzanome, il fuori diverrebbe tuo, lo vedresti, lo gusteresti, correresti avanti e indietro sino a fermarti spossato, assaggeresti l’acqua sorgiva, saresti riscaldato da una, da due, da centomila femmine, la luna, il sole li ammireresti da animale vero, il cielo e le stelle accompagnerebbero i tuoi nuovi passi : Senzanome, Senzanome!...
Così avvenne, poiché le storie di animali sovente riservano una lieta fine.
La masseria perse un cane da guardia - presto sostituito, si suppone con misera fantasia - ed un cagnetto, la cui presenza d’altronde era passata inosservata; le rimasero in compenso alcuni denti e delle tracce di sangue.
Chi è fortunato, per certe strade delle campagne del Tavoliere può intendere il canto innalzato da due esseri liberi, ma vederli, seppure in lontananza, non è concesso. Essi sono come gli dei : felici, ma dagli uomini appartati.
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