racconti » Racconti del mistero » L'abbandono
L'abbandono
Le sette e trenta. Tra poco vado, anzi è meglio che vada subito, sì, così trovo un posto per sedermi, è inutile perdere tempo, poi non trovo mai un minuto per fare qualcosa d’altro. Me lo dicono sempre tutti che è importante ritagliarsi degli spazi. Che so, per uscire con gli amici, per fare un bel giro in bicicletta. È una vita che non prendo la bicicletta ora che ci penso, la mia bella Daccordi blu, pagata una cifra, è giù in cantina a fare la ruggine. Fa niente, ora mi tolgo questo pigiama, chè non sta bene vagolare per casa in pigiama, poi la barba, un cappuccino e via.
Non ci vedo niente di male a rimanere in piagiama tutto il giorno, ma poi la sera non ci sarebbe nessuna soddisfazione a rimetterlo, intendo, a cambiarsi d’abito, a dichiarare a se stessi di essere pronti per andare a letto, non necessariamente a dormire. Dormire è un’altra cosa.
Fuori è ancora buio, filtra appena la luce opaca di un lampione dalle persiane tutte sconnesse. D’estate è impossibile dormire fino a tardi se non si sopporta la luce. Ma ora è meglio che mi vesta; raggiungo a tentoni l’armadio, non trovo nemmeno la torcia che tengo sul comodino, fa niente, ce la faccio lo stesso, è casa mia, saprò trovare l’anta di un armadio! Eccola, forse ci sono; scorro il legno con la mano finchè non trovo la piccola serratura, ci infilo un dito e tiro verso di me, affondo le mani nel buio ancora più buio di quell’antro e provo a riconoscere i vestiti dalla stoffa: lana, lana, cotone, ancora lana, cotone, un pile… ecco, questa è una camicia, ve bene la prendo, tanto una vale l’altra oggi; poi un paio di scarpe, le calze, un maglione. Ecco fatto. Esco dall’oscurità, vado verso il soggiorno, i miei occhi si abituano alla luce. È una piccola grana non tollerare la luce diretta, specie appena sveglio. Ma il vero fastidio è dover ripetere questa recita della vestizione ogni santo giorno. Ci si fa l’abitudine, dicono. Sarà, ma in vita mia non mi sono mai abituato a niente, anzi, più le cose si protraggono nel tempo e meno le sopporto; proprio così, non riesco a reggere tutto ciò che dura per un periodo che giudico eccessivo.
In soggiorno c’è un certo disordine, si intuisce che Miriam è stata qui ieri sera. Il bicchiere bordato di rossetto, i divani sfatti, gli orecchini che ha dimenticato sul tavolino, vicino al telecomando.
Miriam è fatta così, non riesce a tenere in ordine nemmeno la borsetta, ma anche il suo borsellino è un disastro; lei è peggio di me. Io pure faccio un gran casino con fogli, foglietti, appunti, taccuini, quaderni, libri, ma se non altro il mio è un disordine settoriale: lì mi fermo, anche perché ho pochi vestiti, poche cose mie. No, non ce n’è, il caos è un fattore mentale, che ciascuno si porta dietro e gestisce come può, infatti nel caso di Miriam si stende a tutto, anche alle minuzie, a settori in cui c’è la difficoltà pratica di scompaginare il cosmos precosituito.
Mi metto una bella giacca stamattina, quella blu, quella con cui proprio non si può toppare. Tanto sarà difficile che tolga il cappotto per sfoggiarla, ma fa niente, è una vanità che mi tengo per me, almeno posso pensare Ma tu guarda che bella giacca che tengo addosso, alla faccia di questi straccioni che viaggiano con gli zaini imbrattati di dediche cretine. Quando faccio così Miriam mi dà del vecchio moralista inacidito, ma parla a caso, come sempre. La mia morale è tutta mia, ho opinioni differenziate su tutto; non è un vanto, e c’è anche poco di cui vantarsi, è una constatazione, un dato di fatto che molti zelanti rompicoglioni si affrettano a commentare con un Come sei modesto. Ma chi ha mai chiesto il loro parere.
Mi do una passata col rasoio, senza calcare molto la mano che ho la pelle dannatamente sensibile, poi un nodo alla sciarpa, il soprabito e fuori, diretto alla stazione.
Solite facce per la strada, il solito bar che serve i soliti tre o quattro caffè al giorno, ma come diavolo fa a stare aperto?, mi infilo le mani in tasca, fa freddo, si riconoscono al volo le auto che hanno passato la notte all’addiaccio, con quella lastra di brina spessa e scivolosa che si forma sul lunotto e che bisogna scalpellare un pezzo alla volta come fossero schegge di marmo. La stazione dista solo pochi passi da casa mia, e meno male, così mi risparmio un po’ di freddo, che non è proprio il massimo vista la mia debolezza congenita delle mie vie respiratorie. Non prendo nemmeno il giornale, ho il cinquanta intero, per un euro di quotidiano, mi farebbero storie per cambiarmelo, lasciamo perdere per oggi, tanto ho un pacco di libri da leggere. Mi infilo nella sala d’attesa della stazione, anche qui non faccio che incontrare le stesse persone da una vita, o per lo meno le stesse tipologie di persone: lo studente scalcagnato, vestito di stracci che si occupa di fame del mondo e di contadini del Nicaragua, quello tutto azzimato che prende solo capi firmati, che non si toglie gli occhiali da sole nemmeno al buio e che si trascina addosso un insopportabile olezzo di dopobarba anche se la sua barba è al massimo un’ombra di peluria sul mento, le studentesse che se la tirano, i cessi di ogni età, i professionisti con ventiquattrore e portatile, qualche vecchio che viene a sincerarsi del funzionamento della linea ferroviaria tutti i giorni da quando è andato in pensione vent’anni fa.
Mi accomodo su una delle poltroncine metalliche, di quelle fuse insieme una con l’altra, in modo tale che quando si siede uno di fianco a te, per quanto pesi quaranta chili, produce l’inevitabile sobbalzo che irrita e fa perdere la riga che si stava leggendo. Fa niente, è tutto normale in fondo, e anche il vedere ininterrottamente gli stessi personaggi dà a suo modo sicurezza, fa sentire come in una sorta di famiglia allargata, senza padri, cugini e fratelli, ma solo comparse, figure che recitano un ruolo minore nella tua vita, che fanno da riempimento a certe inquadrature che altrimenti sarebbero deserte. Ora fa caldo, sarà per la ressa, ma la sciarpa attorno al collo mi è diventata insopportabile, me la levo con insofferenza. Noto un tipo nuovo seduto di fronte a me, sul lato opposto della sala, un uomo più o meno della mia età, capelli rossi, pelle arrossata, probabilmente screpolata per il freddo, una di quelle epidermidi delicate che non possono mai prendere il sole. Sta leggendo un quotidiano, talvolta fissa l’orologio, si gratta la nuca, cincischia, ad intervalli regolari affonda le mani nella valigetta, lo fa tre volte in cinque munuti, ma non ne cava niente, ma non ha l’aria preoccupata, per la serie ho dimenticato una cosa importante.
Arriva il treno delle otto e dieci, la sala d’attesa si svuota, quelli che prenderanno l’otto e mezza si presenteranno tra cinque dieci minuti. Per ora c’è una grande calma, restiamo solo io, una ragazza che legge poesie di Hikmet e il tizio coi capelli rossi, che non ha ancora staccato gli occhi dal suo giornale, non lo ha fatto nemmeno quando ha ravanato a vuoto nella valigetta. Accavallo le gambe, estraggo il taccuino e una matita, inizio ad abbozzare una caricatura di questa new entry del mio teatrino, anche se in sé non ha alcunchè di speciale, ma mi incuriosisce, è come se mi fossi incapricciato della sua capigliatura rossa e densissima. Si accorge di me, si accorge che lo sto fissando, mi lancia un’occhiata imbarazzata e subito volge lo sguardo altrove, di nuovo in mezzo a quella massa di cartame che stringe tra le dita. Non riesco a provare disagio a mia volta, ma ugualmente tento di distrarmi, do un’occhiata alla ragazza, che è obiettivamente molto carina, mi colpiscono le sue labbra carnose, velate da un rossetto rosa pallido, ma è facile capire quanto costei abbia poche carte psicologiche per risultare un buon personaggio. Nel teatro vittoriano avrebbe potuto al massimo interpretare la dama di compagnia, ma niente di più, non c’è in lei alcun quid che ne faccia una star, una protagonista della scena; ad occhio e croce non saprebbe nemmeno reggere un dialogo. Mentre il rosso di capelli ha una sua introspezione, una sua capacità di incuriosire. Dà l’idea di essere una spia sovietica, di quelle che conoscevano le lingue straniere senza accento e che avevano in tasca documenti falsi, scontrini e altri oggetti di uso comune per mimetizzarsi anche da morti.
Fanno il loro ingresso i primi pendolari delle otto e trenta. Solito campionario, ma le percentuali sono lievemente diverse. Più gente comune, meno studenti, che certo ci sono ancora, ma hanno un’aria già vagamente più riposata, come se si fossero fermati a fare colazione o che so io. Il rosso di capelli alza a sua volta lo sguardo, avendo cura in ogni modo di evitare il mio, si sofferma qualche secondo su una bella brunetta che faccio fatica a vedere, perché tutta addossata alla parete su cui mi trovo anch’io. La ragazza di Hikmet chiude il libro e lo infila nello zaino, che ad occhio sembra stracolmo di libri; mi immagino lo spuntino schiacciato da qualche tomo di urbanistica sul fondo della cartella, magari un panino, che lei evita di farcire con le salse perché sa benissimo si troverebbe delle brutte sorprese, come ad esempio il già citato tomo di urbanistica imbrattato irrimediabilmente di maionese e tabasco. La sala si riempie di nuovo, forse più di prima, qualcuno esce ad attendere il treno sulla pensilina, nonostante il freddo. Anzi, il freddo è facile che sia più salutare di quest’atmosfera surriscaldata.
Poi l’avviso acustico, i pendolari partiranno puntuali, ho un leggero cerchio alla testa, la confusione di questi attimi non mi fa mai un grande piacere, è come se mi sentissi in ritardo per qualcosa, come se avessi un vago senso di solitudine per tutti questi sconosciuti che partono per un viaggio insulso, che durerà lo spazio di una giornata lavorativa.
La piccola folla è ora tutta sulla banchina, qualche ritardatario si accinge a obliterare il biglietto in tutta fretta, qualcun altro si fionda di corsa verso l’uscita, finchè con uno sbuffo annoiato il convoglio si mette in marcia. Nella stanza ora ci siamo solo io e il tizio dei capelli rossi, che nel frattempo ha piegato il giornale e, con lo sguardo fisso al pavimento, fruga nelle tasche della giacca; oramai non mi faccio più alcun problema a fissarlo, anzi, a studiarlo; mi decido a rompere il ghiaccio: “Serve l’accendino?”, solleva lo sguardo stupefatto, come se fossi stato un soprammobile che s’è animato all’improvviso, non sa neanche ene cosa rispondere, ma alla fine bofonchia: “No, grazie, tutto bene…”, è come se pronunciare queste poche parole gli fosse costata una fatica non indifferente, perché è diventato paonazzo, come se avesse corso i cento metri. Mi rendo conto che quest’individuo non è minimamente portato a parlare, nemmeno a pronunciare una frase di senso compiuto. Ci sono abituato a questa gente, per carità, gente che non si sforza mai di estrarre dal cilindro uno straccio di argomento, e resta lì, impalata, ad attendere supina di ribattere con un’ovvietà ai tentativi di pensiero complesso dell’interlocutore. Eppure il rosso non mi aveva fatto una cattiva impressione in prima battuta, magari è solo un timido. Ora ho il problema di non sapere come ammazzare il tempo, certo, ho i libri, ma anche concoscere qualcuno sarebbe stato un diversivo, niente di che, ma almeno qualcosa di nuovo. Non è mia abitudine intrecciare conoscenze, per quanto superficiali, nelle sale d’attesa, non solo in stazione, ma anche, che so, dal medico, all’aeroporto; non so mai come liberarmi di questi amici temporanei, anche perché mi sono sempre capitati soggetti che hanno un’infinità di osservazioni da proporre: aneddoti, massime di vita. Mi sono abituato a prestare attenzione a tutti, a cani e porci, indifferentemente.
Il rosso ha ripreso le sue attività inutili, ora si sta pulendo la punta delle scarpe con un clinex, per cui mi arrendo almeno per ora, è inutile insistere, senza contare che in fin dei conti ha tutto il sacrosanto diritto di starsene per i fatti suoi.
Estraggo dalla cartelletta una copia dell’Orlando furioso, mi è venuta voglia ieri sera di riprenderlo in mano, di riscoprirlo, al riparo dalle tossine scolastiche. Inizio a leggere, senza la convinzione che sarebbe necessaria, sono ancora assonnato in parte, e poi mi distrae l’idea del tizio sconosciuto, ho quasi la sensazione che mi stia fissando. Ma nonostante tutto leggo. Passa il treno delle nove, quello delle nove e venti, quello delle dieci e dieci, quello delle dieci e quarantacinque, il tipo è sempre lì. Passa un pendolino, a velocità esagerata, tremano i vetri della sala d’attesa, istintivamente mi volto, e faccio in tempo a vedere gli ultimi vagoni biancastri perdersi in direzione Svizzera; una voce alle mie spalle: “Ho provato a prenderlo più di una volta, quasi quasi lo preferisco all’aereo…” è il tizio dei capelli rossi, ha una dizione pastosa e il timbro piuttosto squillante, chissà perché mi aspettavo una parlata del genere: “Bè, l’aereo è una seccatura, c’è da andare fino a Linate, o addirittura a Malpensa, per i viaggi più brevi si fa quasi prima in treno…” rispondo.
Quello annuisce vistosamente, poi riprende: “Assolutamente… sì, sì, è vero, sono andato spesse volte a Roma, a Firenze, ma anche a Zurigo, e si fa prima in treno…” provo ad indagare più a fondo, detesto di norma farmi i fatti degli altri, ma per questo buffo soggetto che è in sala d’attesa con me da due ore faccio un’eccezione: “Dipende dal lavoro probabilmente…” Il rosso non deve aver capito al volo, ma abbozza una replica ugualmente: “Già, già, il lavoro…”
Insisto ulteriormente: “Attende il prossimo treno?”
Aggrotta la fronte, forse si aspettava un’osservazione del genere, se la cava con un: “E lei?”
“Per me non fa differenza, questo o quello dopo, pari sono.”
Sembra soddisfatto dalla mia risposta, mi osserva compiaciuto, gli scappa un sorriso appena accennato: “Diciamo che per me vale lo stesso…”
“Ah, bene… è un freelance anche lei…?”
“Sì, freelance, mi piace…” La sua figurina flaccida e untuosa nonostante la giovane età oscilla avanti e indietro, dando luogo ad un mivimento del bacino abbastanza ridicolo. Ho la sensazione di trovarmi di fronte ad un uomo non del tutto padrone di sé, normalissimo all’aspetto e parecchio disturbato nel modo di ragionare, anche la sua espressione ora che ci faccio caso ha un qualcosa di infantile, di bambinesco, come se nel suo comportamento persistesse un nodo irrisolto. Poi si ridesta: “Che ne dice di un caffè?”
“Volentieri, stavo per proporglielo io.” Mi alzo, ci dirigiamo al bar della stazione che tutto sommato non è poi così osceno, ordina un caffè macchiato, io prendo il mio solito cappuccino, è il rosso a riprendere la parola: “Lei che fa? Non per farmi gli affari suoi, ci mancherebbe…”
“Scrivo, scrivo tutto il giorno, e leggo… cose così.” Cerco di essere molto naturale, mi riesce bene.
“Interessante. Ho iniziato a leggere anch’io sa? Leggo il giornale, i quotidiani, ogni tanto qualche rivista, sono un lettore freelance in un certo senso… le sembrerà bizzarro forse…” si schermisce dietro un colpo di tosse.
“Affatto, è una cosa normale, intendo prendersi del tempo per sé. E poi anche leggere un quotidiano è un lavoro no?”
“Ecco, appunto, è quello che dico anch’io… scrive eh? Posso chiederle che genere di scrittura pratica?”
“Scrivo cose, articoli, cose insomma, qualche racconto… mmmh, sì, cose…” Se uno rivela subito quello che fa ha già rivelato in partenza quasi tutto di sé, e non va bene.
“Bello” dice lui “scrivere dà un ordine mentale, aiuta, aiuta molto… fa bene a scrivere sa? Io non ho mai nemmeno iniziato, sono un contabile, lascio a chi sa fare.” Sorseggia il suo caffè macchiato, lo fa appoggiando la punta della lingua sul bordo della tazza, poi con una leggera torsione del polso sospinge in gola un piccolo sorso di bevenda.
Il cappuccino ha un bell’aspetto, ha una schiuma densa e compatta, vi riverso un paio di bustine di dolcificante, ne sorseggio un poco, perché è bollente: “C’è in giro un sacco di gente che non sa scrivere in effetti, eppure scrivono, scrivono tutti…” Sorrido livemente. Il cappuccino, nonostante il latte aggiunto fosse freddo è ancora incandescente.
“Ma è proprio così, sarebbe come se io mi mettessi a dare indicazioni a un medico su come eseguire un trapianto di cuore perché ho leggiucchiato un atlante di medicina, o come se dicessi ad un pilota di aerei come pilotare perché ho visto un film… eh eh eh, invece tutti si permettono di sentirsi scrittori…” Ride, lo fa con una vena di amarezza, mentre stringe in una mano la tazzina, nell’altra il piattino, “Ah, ma la capisco sa? È una concorrenza sleale, ma poi niente mi toglie dalla testa che alla linga paghi la qualità di quello che si produce.”
Entra una ragazza con un cagnolino al guinzaglio, il barista le dice di tenerlo fuori, lei allora prende la bestiola in braccio, è solo uno di quei cagnolini insignificanti con il muso umido e la coda saettante, di quelli che abbaiano per niente. Lei non si scompone più di tanto, porta con rara volgarità una pelliccia ecologica tutta spelacchiata e visibilmente sporca.
“Che vuole che dica? Nessuno sa stare al suo posto… pensi se mi mettessi a dare consigli al prete su cosa deve dire nella predica…” Rido a mia volta, il rosso anche, sembra che abbia proprio apprezzato il mio commento, sghignazza al punto che quasi si rovescia addosso il poco caffè che ancora deve bere, diventa paonazzo, in tinta con la sua capigliatura, poi si ricompone. Posa tazzine e cucchiaini finalmente: “Ha proprio ragione, vede, io nemmeno mi ci metto a voler fare il critico letterario, che posso dire? Al limite se una cosa mi piace o no, ma nemmeno io saprei dire perché mi piace, rendo l’idea?”.
Do un ultimo sorso al cappuccino, poi poso a mia volta la tazza sul bancone, mi asciugo le labbra con un tovagliolo; in quel momento noto la cravatta del mio interlocutore, blu, lavorata, di grande pregio, con le iniziali ricamate in oro sul fondo: G. P. D.. Riprendo la parola dopo qualche istante: “Il critico in effetti dovrebbe trovare dei significati nelle opere che nemmeno l’autore stesso sapeva di aver dato.”
“Interessante questa prospettiva, davvero molto interessante. È vero allora che il modo di parlare comune è davvero insensato, quando si dice ma l’autore mica voleva dire tutte queste cose o roba del genere.” Sfila il portafoglio per pagare, non mi chiede nulla, nemmeno mi dà il tempo di fare la finta di estrarre il contante, mi lascia solo il tempo di dire: “A buon rendere.”
Si scosta la giacca per rimettere il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni, mi fa un cenno con la testa come per dirmi di niente, sembra molto più tranquillo ora rispetto ad un quarto d’ora fa.
“Magari la latteratura serve ad alleviare, oltre che ad ammazzare il tempo, lei che è uno scrittore potrebbe insegnarmelo bene, eh sì, serve l’esperienza delle cose per poter scrivere vero?”
“È sempre meglio scrivere quello che si sa secondo me, ma magari mi sbaglio, anzi, mi sbaglio sicuramente, se si pensa agli scrittori di fantasia, ma non è un genere che mi appartiene.”
“Bravo, venditori di fumo, contaballe, ma che vogliono sapere?
Ci dirigiamo di nuovo verso la sala d’attesa, passeggiamo un attimo lungo la linea ferroviaria, l’aria si è fatta più respirabile, è fresca, piacevole nonostante il periodo, l’umidità si sopporta, ho visto di peggio; camminiamo appaiati, per qualche minuto nessuno dei due parla, è come se avessimo miracolosamente intuito reciprocamente che nessuno dei due è un chiacchierone.
“Faccio questa vita da tanto di quel tempo che mi sembra normale ormai…” È il rosso, la sua voce è quasi irriconoscibile, si è incupita di colpo, la sua figura si è fatta curva, affaticata da zavorre che fino a due minuti fa non sembravano potessero esserci: “Quello che mi fa più male è l’abbandono. Lontano da tutto. Ma cosa gliene parlo a fare, mi scusi, non voglio annoiarla.” Prova a darsi nuovamente un contegno, ma è tardi, ha scoperto le carte, lo ha fatto prima di me, e ora dovrò rispondergli solo se mi farà delle domande, cosa che dubito, visto che la gente ama parlare solo di sé. “Non ho una casa, né una donna. Se mi prendono non so che cosa mi faranno, l’unica cosa che posso fare è tenermi in movimento, in eterno, o almeno finchè posso.” Si siede su di una panchina, si mette la testa tra le mani: “Lei è una persona buona, si vede, ha una faccia buona. Non voglio annoiarla con le mie gabole, si figuri, non dovrei essere nemmeno qui, dovrei già essere ripartito, ma due chiacchiere, che sarà mai? In fondo è normale no? Intendo il voler parlare con qualcuno, così dicono almeno, no?”
“Se ne dicono tante di cose.”
La mia risposta evidentemente ha avuto un effetto devastante per la sua psiche: “Ha ragione, vero pure questo.” Dice in tono sommesso, abbassando il capo.
Provo a rimediare: “Dipende dalle persone però, penso che tutto abbia un senso diverso da una mentalità all’altra.” Ma niente da fare, il rosso è un irrimediabile malinconico, di quelli ossessivi, che, sono convinto, si crogiolano nel malessere, ne traggono una specie di insana voluttà.
“Sa a che ora passa il prossimo treno per… per una direzione qualsiasi?” solleva per un attimo lo sguardo, ha il bianco dell’occhio iniettato di sangue.
“Mah, provi a guardare in bacheca, magari trova anche un treno per l’estero, cambiare un po’ l’aria magari serve, vede gente nuova, sente cose nuove…”
“Non so, mi sono anche stancato di spostarmi… ma per ora non vedo alternative…” Ha ripreso un qualche tipo di calma, non so quanto durerà, spero quel tanto che basta perché possa sparire dai paraggi.
Mi allontano in buon ordine, ho ancora diversi libri da leggere, non so nemmeno da che parte iniziare, mi congedo dal rosso con un cenno, ma lui nemmeno mi vede, sta fissando le rotaie con il mento appoggiato alle mani. Mi ritiro verso la sala d’attesa, magari faccio quattro passi in centro, così vedo un po’ di vetrine. Se non altro i treni oggi sono tutti in orario, così quel tizio sarà libero di andare o anche di rimanersene lì impalato, ma almeno lo farà con puntualità.
1234567
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0