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ANCHE LA MORTE DIMENA IL CULO
Uscii da casa con le lacrime di mia madre ancora fresche sul viso. Aveva pianto mentre la salutavo. Aveva pianto così tanto che quasi mi aveva convinto a restare. Ma il richiamo della mia prima avventura attraverso l’America era così forte che neppure le lacrime di Dio mi avrebbero fatto cambiare idea. Ormai avevo deciso. Sulle spalle uno zaino pieno di viveri e di speranze, e la strada invitante davanti a me.
Uscii da casa e mi misi in cammino. Gli anni settanta stavano per finire. Avevo quasi vent’anni e da sempre vivevo in Florida, sulla costa dell’Atlantico, dove il sole nasce dal mare. Volevo vedere che effetto fa un sole che muore nel mare.
Uscii da casa e mi misi in cammino. La California era lontana.
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Camminai per dieci minuti, finché non arrivai all’ultima fermata dell’autobus diretta ad ovest. La città dove avevo sempre vissuto era piccola, eravamo si e no tremila anime. Era talmente tanto piccola e malmessa da dare l’impressione di poterci crollare addosso da un momento all’altro. E soprattutto non c’era un cazzo da fare. Tampa e Miami erano dei miraggi lontani. Noi giovani ci spingevamo al massimo fino a Daytona City, soprattutto d’estate, quando migliaia di ragazze se ne stavano in costume sulla spiaggia chilometrica ad abbronzarsi al sole nato dal mare. Ce ne stavamo nascosti dietro le barche a guardarle mentre uscivano, luccicanti, sorridenti e così maledettamente sensuali, dall’acqua morbida dell’oceano. Ci masturbavamo velocemente e poi parlavamo del sole dell’ovest, dei romantici tramonti sulla spiaggia, dei falò illuminati da stelle bellissime e dalla complicità silenziosa della luna. Spesso ci lasciavamo prendere dalla fantasia, e i tramonti dell’ovest diventavano spettacoli incredibili. Il cielo bruciava di un fuoco maestoso e i riflessi sul mare arrivavano a riva sotto forma di splendide sirene sorridenti.
I nostri tramonti provenivano invece da dietro i palazzi, e nonostante la bellezza delle ragazze?"ci sarebbero sembrate belle anche al buio- di romantico non avevano proprio un bel niente.
Mi voltai a guardare la mia piccola città, e provai come un brivido. Tentai di scacciarlo.
Davanti a me la strada brillava sotto il sole mattutino.
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L’autobus fece una sosta a Jacksonville. Scesi per mangiare qualcosa, e mi soffermai a guardare una cartina della Florida. Avevo percorso le prime cento miglia della mia avventura, e anche se le avevo percorse verso nord, sentivo la California meno lontana. Lasciai la stazione, l’autobus mi annoiava, e mi misi in cammino sulla strada per Tallahassee. Avevo deciso di fare l’autostop. I miei diciannove anni si nutrivano di conoscenze, di racconti, di esperienze. Avevo voglia di parlare e di raccontare di me, della mia vita e dei miei sogni da adolescente. Volevo conoscere il mondo, e chi lo aveva vissuto più intensamente.
Un vecchio furgone bianco si fermò qualche miglio fuori della città.
“Dove vai ragazzino?”. “Verso ovest”. “Sali, ti do un passaggio fino ad Apalachicola”.
L’autista era un pancione vestito con una tuta di jeans. Puzzava terribilmente e teneva i finestrini del furgone completamente chiusi. L’aria era irrespirabile. Aveva comunque una faccia interessante, sembrava il tipo che di cose ne ha viste parecchie. Provai a parlare, gli chiesi di lui e gli raccontai di me. Ma il pancione non rispose mai. Solo quando gli chiesi perchè mi aveva preso su si voltò dalla mia parte e mi guardò in faccia: “Avevo un figlio della tua età, è morto su questa strada mentre faceva l’autostop, investito da un furgone come questo”. Rimise gli occhi sulla strada, e si tuffò di nuovo in un silenzio malinconico. Ero troppo giovane per sapere cosa dire. Feci finta di niente, e mi addormentai quasi subito. Mi svegliai all’arrivo, scesi con lo zaino sulle spalle salutando il pancione. Mi ero perso il golfo del Messico e avevo ancora una gran voglia di parlare e di ascoltare. Il mio primo autostop non era stato un granché.
Guardai il lato positivo. La California ora si era avvicinata davvero. L’Alabama era a un tiro di schioppo, poi sarebbe stato Mississippi, quindi Louisiana, New Orleans! Un brivido mi accapponò la pelle. Non ero mai uscito dalla Florida in tutta la mia vita, e adesso stavo attraversando l’America.
La città dove ero arrivato non mi diceva un bel niente. Entrai in un bar e chiesi un caffè. Avevo pochi soldi con me, ma per fortuna la mamma mi aveva imbottito lo zaino di qualsiasi cosa. Srotolai un fazzoletto di lino che odorava di casa e ne tolsi un biscotto grande come la mia mano. Lo inzuppai nel caffè e mi sentii rinascere. Fuori del bar l’aria era calda ma il vento di mare rendeva comunque piacevole camminare qua e là senza far niente. Notai che in città le ostriche andavano per la maggiore. Tutti i bar si chiamavano Oyster Bar Pub o Club, all’angolo di ogni strada potevi comprare cartocci di molluschi freschi, e tutte le ditte si occupavano dell’allevamento o del commercio delle ostriche. La città era piccola, ma se si fossero contate le ostriche avrebbe avuto più abitanti di Miami. Continuai a camminare verso ovest, col mare sulla sinistra. La strada andava verso l’Alabama.
Mi voltai indietro quando uscii dalla città. Un’enorme ostrica disegnata sul muro di una fabbrica mi salutò malinconica.
Sputai per terra e tirai dritto. Le fottute ostriche non mi erano mai piaciute.
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Trovai un altro passaggio poco fuori dalla città delle ostriche. Una grossa auto nera si fermò e mi fece salire, promettendomi almeno duecento miglia verso l’aggognato ovest. Il mezzo stavolta era più confortevole. Gli interni in pelle marrone erano più morbidi del mio letto, e odoravano di nuovo. Il conducente era un ometto sulla cinquantina, con un paio di occhialini tondi come la faccia appoggiati sulla punta del naso. A differenza del pancione, il mio nuovo compagno di viaggio aveva una parlantina infinita. Mi raccontò storie incredibili, parlò soprattutto di scopate con donne bellissime in posti dimenticati da Dio. Mi venne il dubbio che si stesse inventando tutto.
Il sesso l’avevo conosciuto una sola volta a sedici anni, quando i miei cugini più grandi mi avevano portato a casa di Rose. Era una puttana grassa e invecchiata nel fisico e nello spirito, aveva due tette immense che le tenevano costantemente i piedi in ombra. Tutte le volte che si muoveva lasciava intravedere cumuli di carne calante sotto il vestito svolazzante. Era la puttana più grassa che avessi mai visto, ma la tradizione voleva che fosse lei la “nave scuola” di tutti i giovanotti di Saint Augustine. Entrai nella sua vecchia casa di legno spinto dalle risate dei miei cugini, impaurito come un giovane che parte per una guerra già persa, ed uscii ancora più impaurito di prima. Se quello era il sesso non volevo più saperne. Col tempo rimossi quella esperienza, e la voglia di scoparmi qualche ragazza come si deve tornò a farsi sentire di brutto. Il problema era trovare una ragazza disponibile, in un paese piccolo e puritano com’era il mio.
In quei tre anni non c’ero riuscito, ma il mio compagno non doveva saperlo. Mi sarebbe sembrato di non essere un uomo. Così inventai a mia volta. Parlai di scopate fantastiche sulle spiagge di Daytona, di avventure romantiche con donne più grandi di me di almeno vent’anni, di amori durati il tempo di un sogno. Trasformai Rose in una Dea del sesso. Al mio nuovo amico, il commerciante di cacao Jonathan Coyle, venne il forte dubbio che mi fossi inventato tutto.
Si fermò per dormire in un albergo di Mobile. Ero così preso a parlare di sesso da non essermi accorto che per la prima volta in vita mia avevo lasciato il cielo della Florida. L’ometto occhialuto mi chiese se volevo dormire in camera con lui. “Le notti in Alabama sono fresche”, mi disse con un sorriso. Rifiutai. Non volevo essere troppo di peso. Mi sarei accontentato della macchina, oppure avrei dormito all’aperto. “Ho una coperta nel baule, prendila se vuoi”.
Scesi dall’auto e mi stesi sul cofano. Da lassù le stelle dell’Alabama mi coprivano meglio di qualunque coperta.
Le guardai e mi sembrò di vederle ammiccare.
Chiusi gli occhi e mi addormentai, sulla costa dell’Alabama, sdraiato sul cofano caldo di un’auto che inseguiva il mio sogno.
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Mi svegliai dentro l’auto avvolto nella coperta di lana. Le stelle se n’erano andate da un pezzo. Jonathan Coyle arrivò con un biscotto al cioccolato in una mano e un caffè fumante nell’altra. Lo ringraziai e ripartimmo. Mentre attraversavamo il Mississippi gli chiesi come mai stesse facendo tutto questo per me. “Non l’hai capito?”, mi chiese appoggiandomi la mano sul ginocchio. “No”, risposi. Fermò bruscamente la grossa auto nera e mi fece scendere. Ripartì rombando. Non ci avevo capito niente, ma mi rimisi in cammino sulla strada per New Orleans.
Circa dieci miglia dopo feci l’incontro che avrebbe cambiato la mia vita. Ero già entrato in Louisiana quando lo vidi. Era lì, sdraiato sotto un albero, a mangiucchiarsi con gusto una mela. Si alzò quando si accorse di me, e si presentò. Si chiamava Jack Webster, aveva diciotto anni ed era alla sua prima avventura sulla strada. Anche lui andava verso Ovest, voleva trovare lavoro come scrittore, o come attore, a Los Angeles. Decidemmo di raggiungere la California insieme, e ci mettemmo in cammino in silenzio. Mentre le miglia restavano dietro di noi, bagnate dal nostro sudore, cominciammo a conoscerci e a raccontarci le nostre vite. Jack era della Louisiana, viveva coi suoi in una vecchia piantagione di caffè. Mi parlò di New Orleans, e del jazz.
Trovammo un passaggio su un grosso camion che trasportava frutta. Su quel camion io e Jack masticammo tabacco, bevemmo whiskey da due dollari la bottiglia e soprattutto diventammo amici. Scendemmo a New Orleans che era già sera. Il grosso camion sparì nella periferia silenziosa, e fu come andarsene da casa un’altra volta.
Entrammo in un bar e lo sentii per la prima volta dal vivo. Il jazz. Jazz malinconico, jazz allegro, jazz che ti scuote la pancia, jazz che ti bacia le guance. Jazz. Jazz armonioso, poetico, bizzarro. Un be-bop. Jazz veloce, jazz rapido, note a tutta birra. Il jazz. Jazz antico, jazz nero, jazz bianco, jazz di mille colori. Jazz profumato, jazz aggressivo, jazz dolce come un sorriso rubato. Jazz.
Mi sedetti rapito su uno sgabello di legno. Mentre la musica mi scuoteva mi convinsi che quando il sole si sarebbe tuffato nel mare per me, Dio avrebbe messo su un vecchio disco jazz.
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Dormimmo nella sala d’aspetto della stazione quella notte. Dopo aver ascoltato quella musica bellissima mi ero convinto che rimanere qualche giorno a New Orleans non sarebbe stato poi tanto male. Del resto l’Ovest era lì, e non sarebbe scappato. Jack rimase con me. Facevamo lunghe camminate durante il giorno, guardando sorridenti le ragazze che passavano. Ogni tanto cercavamo di abbordarne qualcuna, e mentre Jack parlava io fissavo quei loro culi perfetti fasciati nei jeans attillati. Non avevamo più molti soldi, quindi mangiavamo solo cose economiche e nutrienti come grosse coppe di gelato alla crema e caffè zuccherati. Facevamo anche delle gare stupide, eravamo comunque dei ragazzi, che finivano sempre con un “vinco io” urlato a squarciagola. Insomma, la mia avventura sulle strade dell’America stava diventando bellissima.
Il jazz mi stava ammaliando. Eravamo a New Orleans da una settimana, e quasi mi stavo scordando il sole dell’Ovest. Tutte le sere mi chiudevo in quei locali pieni di fumo denso, e mi sorprendevo a fissare negli occhi socchiusi i musicisti di colore. Jack alcune volte spariva con qualche ragazza. Dio solo sa quanto lo avrei fatto volentieri anch’io. Ma ero timido, e con le ragazze non ci sapevo fare per niente. Così rimanevo seduto sul mio sgabello, incantato dal suono profondo di un sax e dalle mille melodie di una tromba.
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Poi decidemmo di partire. New Orleans mi era entrata dentro, ma la California mi stava chiamando. I soldi erano finiti del tutto, con quei pochi spiccioli rimasti volevamo comprare delle fiaschette da riempire d’acqua. Facemmo autostop fino a Beaumont, nel Texas. Qui riempimmo le fiaschette d’acqua fresca ad una fontana, e ci mettemmo in cammino su una strada secondaria che sembrava andare verso Ovest.
Dopo aver percorso quasi trenta miglia, eravamo stremati, ci accorgemmo che qualcosa non andava. La strada si era trasformata in una specie di pista desertica. Era ancora asfaltata, ma ogni traccia di civiltà era sparita da venti miglia circa. Il sole texano picchiava maledettamente forte, potevano essere anche quaranta gradi.
Decidemmo di andare avanti, prima o poi sarebbe sbucato un paese o sarebbe passata un auto. Tornare indietro non avrebbe avuto senso.
La strada era talmente lunga e diritta che non ne vedavamo la fine. Le righe gialle intervallate che si alternavano nel bel mezzo della carreggiata servivano solo ad aumentare la squallida monotonia del paesaggio. Una prateria sconfinata, talmente piatta da farci pensare che Dio l’avesse creata per giocare a biliardo nei momenti di relax.
Dannatamente, fottutamente, terribilmente piatta.
Camminavano affiancati, Jack e io, disidratati dal calore del pomeriggio estivo. Ogni cento passi ci guardavamo con sguardo preoccupato, sembrava di essere precipitati in un mondo alla fine del mondo. E invece era solo Texas, statiunitidamerica. Quindi riabbassavamo la testa, e le gocce di sudore tornavano a cadere sulla strada evaporando qualche attimo dopo.
Fili d’erba disobbedienti uscivano dalle crepe dell’asfalto cotto dal sole. Avevano un nonsocchè di eroico, sembravano voler sfidare un nemico invincibile. Ma non era tempo di sfide. Era tempo di uscire da quel maledetto deserto, era tempo di tornare nel regno dei vivi.
Ci guardammo increduli quando il rumore inconfondibile di un motore si fece sentire nel silenzio incontaminato della prateria. La strada sembrò contorcersi su se stessa, come una ragazza sverginata in un pomeriggio d’estate. Forse non era la prima automobile che passava di lì, ma era sicuramente la più rumorosa.
Risi, senza sapere quanto fosse assurdo, mentre col pollice reclamavo un passaggio. L’auto di grossa cilindrata passò a tutta velocità, ignorandoci incredibilmente in quel lembo di terra dimenticato da Dio.
Camminammo, bestemmiando, per altri due chilometri. Le speranze se ne andavano a braccetto con le nostre forze. Jack si sedette sull’asfalto grigio, e pianse. Aveva finito l’acqua comprata a Beaumont, e il suo fisico più esile del mio non rispondeva più ai comandi del cervello. Stramaledisse Dio, che sembrava volersi sbarazzare di noi. E il giorno in cui aveva deciso di lasciare la casetta dei suoi in Louisiana, torte di mirtilli e profumo di caffè, per vivere la sua prima avventura sulla strada. Aveva diciotto anni, e non aveva niente da bere in quel deserto del cazzo. Tirai fuori la mia fiaschetta. Dentro c’erano si e no quattro dita d’acqua.
“Dammela”. disse Jack.
Risi, e mi accostai la borraccia alla bocca. La lama di un coltello a serramanico mi penetrò nel rene. Jack sfilò il cotello dal mio corpo e la fiaschetta dalle mie mani. Bevve avidamente mentre cadevo sulle ginocchia.
“Vinco io”. disse.
Mi chiamavo Neil Wallace di Saint Augustine, Florida, e risi, quando vidi una gran fica con la falce dimenare il culo.
Morii lì, riscaldato dal sole del Texas, ridendo in una pozza di sangue mentre pensavo a quanto mi sarei scopato volentieri la Signora Morte.
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Quando il sole raggiunse la California e si tuffò nel mare, Dio mise su un vecchio disco jazz. Il cielo diventò di mille colori, prima di lasciar spazio al buio della notte e a quelle stelle bellissime. Milioni di falò si accesero sulle spiaggie, danzavano nel buio come ballerini armoniosi. I ragazzi cantavano e bevevano e si innamoravano intorno al fuoco.
Fu uno spettacolo meraviglioso.
Io non lo avrei mai visto.
-fine-
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- Ottima storia, coinvolgente e con un finale degno dei bassifondi di New Orleans!
Ottimo anche il jazz...
- la storiam è davvero bella, complimenti per la fantasia e per il modo in cui sei riuscito a realizzarla.
- stupendo racconto 'on the road'. Fantastiche le descrizioni e la capacità dell'autore di immergere subito il lettore nella storia. Come sempre, finale triste ma poetico. Caro Duccio, sta quasi diventando noioso dirti che sei 'eccezionale'.
- stupendo racconto 'on the road'. Fantastiche le descrizioni e la capacità dell'autore di immergere subito il lettore nella storia. Come sempre, finale triste ma poetico. Caro Duccio, sta quasi diventando noioso dirti che sei 'eccezionale'.
- AMERICA ANNI 30 - SERIE B
- noioso il racconto, bello il finale
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