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Una storia vera
Era primavera inoltrata e il profumo dell'aria nonostante l'inquinamento, tradiva la volontà della natura ad avere il sopravvento, ancora una volta. Passo dopo passo, senza fretta mi diressi nel piccolo parco davanti alla stazione degli autobus e mi accoccolai su una panchina soleggiata, raccolsi le gambe verso il torace abbracciandole, appoggiai il mento sulle ginocchia e osservai di quale mondo facevo parte.
Alle spalle della stazione due anziani signori, vestiti con l'abito buono, traslucido per le troppe stirature, sedevano su di una panchina all'ombra di un grande albero, pareva una splendida immagine, due anziani con gli abiti consunti come un'antica corteccia.
Appoggiavano le mani deformate sui loro bastoni, cercando un punto d'equilibrio, si scambiavano battute rapide che non potevo sentire, erano troppo lontani, uno dei due, forse quello che parlava meno, sembrava più intorpidito dell'altro, una specie di comparsa che pareva destarsi ogni tanto.
Nonostante la distanza capii che qualche cosa cominciava a turbarli, guardavano alla loro sinistra quasi all'entrata del parco, in preda ad una certa eccitazione.
Dovetti ruotare il capo alla mia destra per osservare quella ragazza.
Giovane, vestita con un abitino celeste, troppo corto e sudicio, avanzava come uno Zombi, incespicando nei suoi stessi passi, gli occhi persi chissà dove, si muoveva come un'automa nella direzione dei due vecchi.
A pochi metri da loro, uno dei due, il più arzillo, facendo un certo sforzo e aiutandosi con il bastone, riuscì a mettersi in piedi, l'altro nonostante l'esortazione dell'amico rimase al suo posto ad osservare la scena.
La ragazza ad un passo da lui si fermò, come fosse giunta a destinazione, sembrava un burattino senza fili appoggiato ad un muro.
Li conosceva bene quegli scellerati, tese una mano nella direzione del vecchio, una mano stanca, come fosse appoggiata su di un supporto invisibile e lui le rispose sussurrandole qualche cosa all'orecchio.
Poi, goffamente l'abbracciò, sostenendola con le sue mani malferme, premendo le sue luride labbra contro la bocca di quella disgraziata.
Sembrava una piovra, non contento dello scempio che stava compiendo le accarezzava i seni, e alla fine la mano s'infilò sotto la gonna, così, davanti a miei occhi, ridacchiando.
Tentò di esortare l'amico seduto ma questi alzò un braccio in segno di diniego.
Poi soddisfatto le tese una banconota da cinque mila lire, stropicciata come il suo corpo, e la spinse via come un fazzoletto sporco.
Meritava di morire, le aveva strappato un brandello di vita, un brandello di vita che non gli apparteneva, glielo aveva strappato a morsi, incurante del suo corpo, della sua anima, della sua condizione, affondando la sua dentiera ingiallita in quel corpo affamato d'eroina, ma la vita li avrebbe puniti duramente, sarebbero diventati più vecchi e più soli.
Li vidi allontanarsi sostenendosi a vicenda, appoggiandosi ai bastoni, ricurvi come i loro corpi.
La ragazza dall'abito celeste si allontanò a suo modo, trascinandosi fuori dal parco, pronta a farsi azzannare alla prossima occasione. Come si poteva comportarsi in quel modo? la vecchiaia non era certo una giustificazione, sicuramente erano dei pessimi individui anche da giovani, e ora che il peso degli anni si faceva sentire in modo stringente e la morte alitava sulla loro nuca, l'egoismo e l'indifferenza erano gli unici sentimenti che erano in grado di provare, ma la cosa che mi inorridiva più di ogni altra era la mancanza assoluta di pietà, come non potevano vedere in quella vittima una loro nipote, una loro figlia? Come si sarebbero potuti specchiare la mattina nell'atto di radersi? Cosa avrebbero visto? delle caricature, dei vecchi predatori dei mostri. Mi tornò alla memoria la storia tragica di quel reporter che fotografò una bimba molto piccola, forse di tre anni, in uno di quei posti terribili come è il Sudan, l'immagine che ne risultò fu particolarmente eloquente, induceva in chi la osservava, un insopportabile senso di colpa, una vicinanza con quel figlio di nessuno che avrebbe dovuto essere figlio di tutti, era un'immagine riuscita, aveva davvero centrato il cuore del problema. Vi era rappresentata questa piccolina, rannicchiata su se stessa, ormai priva di forze, assetata, affamata e rassegnata a morire, sullo sfondo, un po' fuori fuoco, l'immagine di un avvoltoio che aspettava...
Per quella fotografia il reporter vinse un premio, ma non si fermò, non fece l'unica cosa che avrebbe dovuto fare, prenderla con se, tentare di aiutarla, un fotoreporter testimone di un fatto così, forse poteva e doveva salvarla. Si seppe in seguito che quella bimba, distava soltanto pochi chilometri da un centro di accoglienza per profughi, tre mesi dopo quel reporter si suicidò.
Non si rese conto che fotografò la propria morte, in anteprima, fece l'unica fotografia che non avrebbe dovuto fare e rinunciò a fare la fotografia più bella della sua vita, quella che nessun altro avrebbe mai potuto vedere a parte i suoi occhi, che avrebbe conservato nel suo cuore gelosamente, come la cosa più bella della sua esistenza. Quei due vecchi del parco non ebbero nemmeno la dignità di quella morte.
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