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Quello che comunemente noi chiamiamo amore
La mattina in cui Tobi ebbe la visita dal veterinario io non potei andarci.
Il caso volle infatti che proprio quel giorno, ad insaputa di mia moglie, avrei incontrato nel silenzio del suo negozio Carmen, la provocante lavandaia che da alcune settimane si era trasferita in centro al paese. Non si trattò in effetti proprio di un caso, tenendo conto che fu lei ad invitarmi ed io ad accettare.
Mi sistemai davanti allo specchio del corridoio la camicia stirata e pulita, aggiustai la cravatta e mi sorrisi, compiaciuto dei capelli in perfetto ordine.
Gemma, mia moglie, dalla camera da letto osservava i miei movimenti, studiandoli al dettaglio nei passi, nelle movenze. Forse aveva capito dove andavo. Da tempo litigavamo spesso, per motivi anche molto futili e la crisi che ci separava si era insinuata nel nostro rapporto come una macchia d'olio; a fatica trovavamo spirargli per uscirne, o anche solo la voglia di farlo.
Afferrai dal porta ombrelli un bastone da passeggio dall'elegante pomello d'argento, una delle poche cose di valore che mi ero concesso nel corso degli anni. In ghingheri, davanti al mio riflesso, constatai di avere un'aria elegante, distinta.
Mi avvicinai a Tobi sdraiato sul suo grande cuscino in camera da letto e con alcune carezze fugaci lo salutai. Incrociando il suo sguardo per un solo secondo e ripensandoci ora a distanza di anni, sono certo che in quel momento lui era arrabbiato con me. Nel suo occhio indagatore scrutai una certa riluttanza, ma al momento credetti dipendesse dalla stanchezza che aveva in quei giorni e che gli rendevano i movimenti lenti e pesanti.
Proprio per questo quella mattina Gemma lo avrebbe portato dal veterinario al posto mio.
Proprio per questo ero certo non avesse nulla di grave e io potessi continuare a rispettare i miei impegni, di lavoro e personali.
Proprio per questo vi racconto questa storia, per impedirvi di cadere nella trappola degli errori che in pochi attimi possono rompere un equilibro di grande valore.
Salutai Gemma con un gesto veloce e uscii.
Il mondo era invaso da un sole splendente. Tutto pareva sorridermi, anche l'edicolante che di solito non biascicava parola. Forse anche lui, come tutti i negozianti attorno, come ogni persona del paese, sapeva benissimo dove ero diretto e anziché lasciare all'invidia la forza di opprimerli preferirono tifare per me, nella speranza che poi raccontassi loro tutto nei minimi particolari.
Raggiunsi la lavanderia di Carmen intorno alle undici e trenta e quando entrai mi accorsi che fortunatamente era vuota. Non appena mi vide salutò, corse alla porta, la chiuse con un gesto veloce e dopo aver lasciato cadere la tendina e girato il cartello di chiusura, mi portò sul retro.
Non ebbi nemmeno il tempo di dire una parola che lei si sedette su un tavolo e mi attirò a se tirandomi per la cravatta. Fu tutto così improvviso che non trovai nemmeno il tempo di rendermene conto. Era desiderosa dei miei baci e mentre il mio mento grattava con la barba il suo collo sottile, lanciai uno sguardo verso la parete alle sue spalle. Una serie infinita di ritagli di giornale ricordavano miti del cinema, cantanti famosi e sportivi scomparsi che Carmen amava da quando era ragazzina. O forse semplicemente li aveva usati per tappezzare il muro dove, in alcuni punti lasciati scoperti, mostrava un colore chiaro e trasandato di pessimo gusto, pennellato dai vecchi proprietari della lavanderia. Fra un giocatore di calcio che alzava la coppa del mondo e un signore coi baffi che fumava leggendo un giornale, scorsi nella sua infinita bellezza Audrey Hepburn, indimenticabile diva del cinema degli anni cinquanta e sessanta. La mia mente si allontanò dalla lavanderia per qualche istante per tornare ai primi anni di matrimonio, quando Gemma pareva proprio una copia esatta di Audrey. La sua eleganza, il suo modo di porsi e di essere assolutamente perfetta in ogni genere di vestito indossasse. Erano passati solo dieci anni da allora eppure quell'infinita grazia che Gemma portava con se era andata affievolendosi. Per sposarmi e dedicarsi al nostro amore aveva rinunciato a tutti i suoi sogni nel mondo della carriera giornalistica e ora si sentiva abbandonata a un futuro dove non poteva più recuperarli, né sperare di vivere felice con l'uomo che aveva sposato e che, per quanto vivesse vicino a lei, era lontano con la mente e col cuore.
Dentro di me un leggero formicolio cominciò a farsi strada e la forza della ragione prese a poco a poco consistenza, facendosi largo nell'infinito mare dell'istinto. Era come se potessi guardarmi da fuori per rendermi conto di cosa diavolo stessi facendo, di dove fossi e di cosa stavo per fare. Una manciata di secondi in cui il fantasma di me stesso si alzava fluttuando e mi guardava da fuori scuotendo la testa.
Carmen mi tolse la giacca, lanciandola verso un appendiabiti sulla parete. Sfiorò il gancio e cadde a terra. Dalla tasca sinistra ne uscì qualcosa che a prima vista poteva sembrare un serpente arrotolato su se stesso, a guardar meglio anche una cintura; ma poi mi resi conto che era il collarino di Tobi.
Gemma doveva avermelo messo nella tasca di nascosto.
Fu allora che un temporale imperversò dentro di me, scatenando fulmini che scaricavano la loro forza elettrica fin giù nello stomaco, accompagnati dai rombi del tuono di un ricordo improvviso, passato, che tornava nel presente con violenza. Se Gemma avesse potuto insinuarsi nelle mie pupille e guardare al di là delle iridi avrebbe scorso un susseguirsi di immagini, episodi e situazioni, che raccontavano la mia vita con Tobi.
Il suo rendersi distinto e unico fra la massa di cento cuccioli del negozio di animali, semplicemente con una scodinzolata differente o un mordicchiare più sincero delle mie dita; la prima volta che restò a casa solo e scelse come nemico il rotolo di carta igienica del bagno, con il quale infuriò una lotta esasperata che si chiuse con mille pezzetti sparsi ovunque e la sua vittoria ovviamente.
Il giro lungo il viale alberato la sera prima di dormire, i versi a bocca chiusa per attirare l'attenzione, le zampe che sbattono sul bordo del tavolo in attesa di un pezzo di pane.
Ma soprattutto mi tornò alla mente quel giorno.
Non lavoravo da molto nell'azienda che ora gestisco e il tempo libero non mancava mai. Quella mattina uscii di buon ora con Tobi e seguimmo il vialetto di ghiaia che come una pista da corsa circondava il parco sotto casa.
Un leggero venticello soffiava fra le fronde degli alberi in fiore e piccoli petali bianchi si alzavano come batuffoli di cotone in balia delle leggere correnti d'aria. Il profumo del mattino, con i suoi mille odori differenti, dal pane appena sfornato alla terra umida del parco, portarono il piacere di un giorno che inizia sotto i migliori auspici.
Quando ci fermammo a una panchina dietro il chiosco di gelati, guardai verso l'altro lato del vialetto e scorsi una ragazza. Leggeva un libro; ne sembrava totalmente assorta. I capelli scivolavano sulla fronte e spesso doveva portarli dietro le orecchie con un gesto veloce e delicato.
Un gesto bellissimo pensai.
Tante, troppe volte allungai lo sguardo di sottecchi, ma il coraggio per dire o fare qualcosa non era al momento disponibile; un immenso passo da gigante per un omuncolo come me.
A un tratto Tobi si alzò, afferrò con la bocca il manico del guinzaglio e me lo portò fra le mani. Voleva andarsene pensai, ma poi lo vidi prendere l'altro cappio e tirarmi verso la panchina di fronte, lasciando il gancio argentato proprio fra le pagine del libro che la ragazza leggeva con tanto interesse. Galeotto fu Tobi perchè sorpresa della strana intrusione lei lo accarezzò sorridendo, poi seguì con gli occhi il guinzaglio, la mia mano, il braccio, fino al mio viso. I nostro sguardi s'incrociarono per la prima volta e quella che sarebbe diventata in futuro mia moglie si presentò chiudendo il libro e ravvivandosi i capelli.
Mi liberai dalle braccia di Carmen, afferrai la giacca, infilai in tasca il collarino e mi diressi verso l'uscita del negozio rivestendomi. Ci misi un attimo a essere in strada diretto verso casa più in fretta che potei e nelle orecchie le grida furibonde della lavandaia risuonavano indistinte e minacciose.
Corsi più che potei e mentre le mie gambe parevano possedute dal demone della fretta, ripensai a quanto ero stato stupido, all'errore assurdo che stavo commettendo. I miei occhi erano inchiodati sull'asfalto e su tutto quello che incontravo correndo, ma ciò che vedevo erano in realtà gli anni al fianco di mia moglie e del nostro cane, un essere privo di parola ma che esprimeva meglio di chiunque altro l'amore che aleggiava nella nostra casa quando io ero ancora me stesso.
Percorsi il grande viale fino alla palazzina sopra il negozio di dischi, entrai nell'androne e chiamai l'ascensore. È incredibile come qualcuno debba averlo progettato con lo scopo di non essere mai disponibile quando siamo di corsa. Barcollai leggermente, mi girai su me stesso e decisi di fare le scale, sicuro che dopo una ventina di gradini la porta dell'ascensore si sarebbe aperta per un passeggero ormai sparito.
Quando finalmente raggiunsi la porta di casa impiegai alcuni secondi per infilare la chiave nella serratura. Mi tremavano le mani all'idea che Tobi potesse essersene andato senza di me; che mia moglie potesse avere accompagnato l'incipit del nostro amore al patibolo senza avermelo fatto salutare un'ultima volta. Ma soprattutto ero terrorizzato all'idea che la nostra famiglia si sarebbe disintegrata per colpa della mia disattenzione e del mia ingenua stupidità.
Aprii la porta ed entrai nella penombra di casa. Un silenzio sottile aleggiava nel corridoio.
Passai stanza per stanza constatando che ero solo.
In camera da letto, vicino al cuscino di mia moglie, una grossa valigia era stata aperta e riempita quasi del tutto di vestiti, intimo e cianfrusaglie di ogni genere, tutti affetti di mia moglie. A terra, il grande cuscino di Tobi era lasciato in un angolo e le pieghe del tessuto dimostravano che fino a qualche attimo prima lui era li sdraiato.
Mi sentii prendere dal panico. Un calore improvviso avvampò lo stomaco e la gola si chiuse impedendomi quasi di deglutire. Gemma voleva andarsene e di Tobi non avevo notizie.
Corsi verso il telefono, nella speranza non fosse successo nulla di grave. Ero stato un incosciente, ma avevo capito la lezione e forse ero ancora in tempo per salvare ogni cosa.
Volevo sapere, anzi, dovevo, quando la porta d'entrata si aprì e la luce del corridoio mi illuminò. Il muso sottile di Tobi comparve annusando le piastrelle all'entrata, ispezionando un odore che forse a lui era famigliare. Si voltò verso di me e restammo immobili a guardarci alcuni secondi.
Dicono che i cani non hanno una mimica facciale completa come quella di un essere umano, che i loro muscoli sono predisposti in maniera differente e non permettono espressioni di rabbia, gioia o altro, ma che invece manifestano in tutt'altro modo con il resto del corpo.
Eppure sono certo che Tobi mi stava sorridendo.
Si insinuò fra le gambe e io lo subissai di carezze lasciando che si sentisse al sicuro fra le mie ginocchia. Mi chinai su di lui e lo grattai divertito dietro le orecchie, ammirando lo stato di trance affettivo nel quale entrava ogni volta che praticavo quel gesto così semplice. La sua coda che accelerava a ogni carezza e il suo muso umidiccio sul palmo della mano erano alcuni dei mille segnali per ricordarmi che quella mattina aveva solo paura di perdermi e che ora io ero lì, che mi voleva bene e che dovevo essere io ora a non avere più paura di perderlo.
Il suo affetto mi circondò come una nuvola morbida in cui eravamo solo io e lui.
Poi alzando gli occhi vidi entrare dalla porta Gemma e con lei sua sorella Miriam, il compagno Antonio e il piccolo Alex, mio nipote. Il bambino mi corse fra le braccia e ridendo si mise a giocare con Tobi, il quale parve stesse molto meglio di quando lo avevo lasciato la mattina.
Chiesi spiegazioni al resto della famiglia e mentre Gemma mi scrutava in serio silenzio, Miriam spiegò che la visita dal veterinario era andata piuttosto bene. Tobi soffriva di cuore e il caldo di quei giorni lo affaticava, soprattutto in certe ore del giorno. Avremmo dovuto seguirlo il più possibile, tenerlo in luoghi freschi, evitargli il caldo del primo pomeriggio e le corse sfrenate nel parco. Ma non importava, pensai, perchè Tobi era ancora con noi e questo era abbastanza.
Alex e i suoi genitori se ne andarono poco prima di pranzo e nel salotto di casa restammo io, Tobi e Gemma. Il cane, seduto sul divano con le zampe davanti a ciondoloni, ci osservava di continuo in attesa. Pensai che forse aveva fame, ma osservandolo meglio capii che aspettava qualcos'altro.
Guardai Gemma e nei suoi gesti istintivi, quasi meccanici, di voltare le pagine di una rivista senza degnarla di una sola lettura, anche fugace, compresi che non aveva la forza di affrontare l'argomento.
Forse era ancora convinta l'avessi tradita.
O forse non accettava l'idea che in un momento così delicato per il nostro cane io fossi stato da una lavandaia con le tette rifatte a scomporre il puzzle di una vita insieme, costruita pezzo per pezzo, giorno per giorno, sul tavolo della nostra esistenza.
Mi sentii quasi in imbarazzo. Sapevo di avere commesso un errore, di averlo impedito in tempo e di essere tornato alla mia vita con una lezione sulle spalle. Ma come fare per dimostrarlo?
Lasciai vagare la mente fra le mille parole e frasi che potessero comporre un discorso sensato, una spiegazione plausibile della verità e di quello che davvero era successo, ma le lettere e i numeri s'intrecciarono in un turbinio che attorcigliava la lingua e impediva di cominciare.
La vidi posare la rivista e lanciare un occhiata a Tobi. Lui ricambiò il suo sguardo, poi scese dal divano e sparì alcuni secondi.
Tornò con il manico del guinzaglio in bocca.
Quando lo presi fra le mani sorrisi e lasciai che lui afferrasse l'altro cappio e mi portasse con se verso Gemma. Lei fu titubante, impaurita forse da quel momento che temeva potesse succedere ma non immaginava sarebbe successo ancora. Poi prese fra le dita il gancio argentato del guinzaglio e accarezzò il muso di Tobi. Alzò gli occhi sul guinzaglio, poi la mia mano, il braccio e infine il mio viso. E mentre i nostri occhi furono di nuovo gli uni in quelli dell'altro fui certo che al mondo non può esistere una manifestazione più grande d'amore di quella che un animale può regalarti, senza pretendere nulla e senza chiederti qualcosa in cambio. Solo amandolo a tua volta.
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