racconti » Racconti brevi » Zia dina e le formiche
Zia dina e le formiche
Da ragazzo andavo spesso in campagna con zia Dina e la figlia Assunta. Era un po' la mia seconda nonna, anzi la controfigura della nonna materna.
Una fresca mattina di settembre zia Dina decise di andare a raccogliere i fichi sola con me. Si era procurato un asino con delle gradi sporte e si sentiva più baldanzosa del solito, anche se la gestione del quadrupede era problematica. Il terreno era molto distante dal paese, ma né io né lei osò salire sull'asino. Non so se perché c'erano le sporte o perché lei non si fidava di quella bestia che conduceva per la prima volta. Giungemmo che il sole era già alto. Legammo l'asino vicino ad una quercia in una radura, prendemmo due panieri e ci incamminammo lungo un ripido pendio, fino a raggiungere sparuti alberi di fichi ormai quasi rinsecchiti. Il terreno era stato da più anni abbandonato. L'erba era alta e secca, e zia Dina mi raccomandava di guardare dove mettevo i piedi per evitare di schiacciare qualche serpente. Ma era un raccomandazione che non potevo ascoltare perché non c'era alcun viottolo da seguire ed aveva l'effetto di mettermi addosso una maggiore paura, per quel terrore che avevo dei serpenti: li sognavo anche di notte.
Zia Dina riempì in fretta il primo paniere, gli alberi erano bassi e i fichi ormai tutti maturi e quasi secchi. Mi toccava di ritornare alla base per svuotarlo nelle sporte. Il paniere era pesante e scivolavo sull'erba. Le bacche secche mi si attaccavano dappertutto e i rovi mi graffiavano le gambe. Ma i primi viaggi andarono discretamente, anche se grondavo di sudore e mi sentivo braccia e gambe indolenziti.
Vicino alle sporte avevo notato alcuni formicai. Non ne avevo mai visti di così grandi. La tentazione era irresistibile. Mi fermai quasi ipnotizzato ad osservare le formiche che brulicavano sul prato. Vicino al formicaio più grande v'era un cumulo di granaglie, ed altre ne venivano trasportate. Dalla tana si dipartiva un sentiero in mezzo all'erba e formiche giganti lo percorrevano senza scontrarsi. A volte si avvicinavano come per scambiarsi delle informazioni. Portavano chicchi di frumento, steli di paglia più grandi di loro. Qualcuna a volte sembrava in difficoltà, allora subito qualche altra formica andava in soccorso. Tutto procedeva come se eseguissero precise istruzioni, delle specifiche tecniche; come se tutte fossero inserite in un gioco di squadra con regole prestabilite. Provavo a frapporre qualche ostacolo, ma ben presto, dopo un primo scompiglio, le formiche trovavano la soluzione. Era uno spettacolo stupefacente. Come potevano esseri così piccoli e leggeri creare strade battute dove l'erba non cresceva, come potevano comunicare ed organizzarsi, come sopportare fatiche così estreme sotto un sole che picchiava impietoso?
Zia Dina aveva riempito l'altro paniere e non mi vedeva arrivare. Chiamava a ripetizione, ma la sua voce non mi giungeva o io non la sentivo. Ero ormai in estesi vicino al mio formicaio e mi ero completamente dimenticato di lei e del mio compito. Preoccupata venne a cercarmi. Quando mi vide ebbe un sospiro di sollievo, perché era seriamente preoccupata, ma passato lo spavento dentro di lei ebbe il sopravvento la sua collera. Cominciò ad apostrofarmi in ogni modo, come un ragazzo molle e viziato. Lei non poteva capire cosa ci trovassi di così interessante a guardare le formiche. Le formiche per lei erano insetti fastidiosi ed invadenti, solo da eliminare in ogni modo. Le odiava come io odiavo i serpenti, perché rendevano inservibile ogni genere di frutta, si infilavano persino nel barattolo dello zucchero e in ogni angolo della casa, perché le formiche amano le case dei poveri.
Mentre si dimenava brontolando, io mi sentivo piccolo piccolo nei miei panni sudati, non riuscivo a guardare quella povera donna vestita di nero con il sudore che le solcava il volto scavato dal sole e dalle inumani fatiche.
Poi si calmò, improvvisamente, sembrava quasi pentita, mi fece una smorfia di sorriso che colsi come una carezza, una carezza dura di mano callose, ma consolatoria. Ed anche noi come le formiche tornammo in silenzio nella valle a riprendere il raccolto.
Mentre aspettavo che riempisse il paniere, mi sembrava proprio una formica, forte e gracile, che si affannava alla fine per niente. Basta una pedata, un soffio di vento per distruggere il formicaio e le fatiche di intere giornate, e loro stesse. Eppure continuano imperterrite a lavorare perché non è la vita della singola formica che conta ma quella del formicaio e della specie. Anche il formicaio fa parte di un'anima collettiva che per vivere ha bisogno del sacrificio di innumerevoli formiche.
Quando le sporte furono piene fino all'orlo, giunse il momento di riporle sull'asino.
Zia Dina diede una occhiata, come se si fosse ripassata nella mente la lezione, le varie fasi dell'operazione che doveva compiere. Poi diventò agitata, i suoi occhi ballavano da me all'asino passando per le sporte. Come fare? Cercai di aiutarla a sollevare la prima sporta. L'asino si muoveva un po' per il peso un po' perché disturbato da enormi mosconi. Batteva le zampe. Scodinzolava, vibrava la pelle. Ogni scossa ci faceva barcollare sotto il peso. Ma dopo enormi fatiche e borbottii riuscimmo a legare la prima sporta.
Il sole era alto e lucente, un raggio di luce sembrava avere scelto proprio noi come bersaglio. Tutto si appiccicava addosso e le idee erano annebbiate.
Come lasciammo la sporta, appena legata, per prendere la seconda, il peso si inclinò tutto da un lato, l'asino stava per cadere e si spostò lateralmente verso di noi dandoci uno spintone. "Aiutami! Non pensare alle formiche! Mi sembri un palo". Ma l'aiuto che potevo dare era veramente modesto.
Ricollocammo la sporta, ma il problema di come fare a caricare la seconda sembrava ancora irrisolto.
Poi all'improvviso mi venne una idea. Me la suggerì quella ultima invettiva. Un Palo. Serviva un palo.
"Prendo un palo", le dissi e mi allontanai. Tornai con un palo gigante. Puntellammo la sporta in modo che non si ribaltasse per il peso. L'unico problema era l'asino che assolutamente non doveva muoversi. Zia Dina accorciò la fune per ridurne la sfera d'azione. E di corsa sollevammo la seconda sporta. Era fatta! E zia Dina emise un profondo sospiro di sollievo. E i suoi occhi luccicavano sotto il sole, come gli occhi di una cerbiatta.
Da quel giorno accanto all'affetto cominciò a germogliare una profonda reciproca stima ed ammirazione, che crebbero negli anni.
12
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Qualosa d'interessante si coglie, in un racconto che sa troppo " di altri tempi."
- Grazie. nel titolo accosto zia Dina alle formiche per eprimere lo stupore che mi provocava e la grande ammirazione e simpatia che avevo per lei.
In fondo lei lavorava incessantemente come le formiche che mi lasciavano stupefatto.
- una delicata descrizione dell'incanto tipico della campagna
- Bel racconto! l'ammirazione x la collaborazione e la fiducia che fa sentire più felici


Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0