Conobbi la morte quando avevo otto anni. A quel tempo per spiegarmi cosa mi stava succedendo usarono parole strane, discorsi illogici basati sulla magia e sulla religione. È strano come gli adulti parlino dell'argomento con i bambini; hanno la strana convinzione che non siano in grado di capire e quindi inventano strani modi che gli confondono soltanto le idee. Io, da parte mia, sapevo già tutto.
Il mio gatto Muffin era morto qualche mese prima cadendo dalla finestra del nostro appartamento. I miei genitori non avevano voluto dirmi la verità. Era giugno, uno degli ultimi giorni di scuola, e, come sempre, mia madre era venuta a prendermi a scuola. Quando ero salita in macchina mi aveva accolta con un forte abbraccio, più lungo del normale.
"Vedi Giulia è successa una cosa brutta." aveva esordito "Muffin è scappato di casa" .
"No, mamma." le avevo detto io, quasi per calmarla "Muffin non farebbe mai una cosa del genere. È troppo vecchio" avevo concluso fiera del mio ragionamento.
"Mi dispiace tesoro." Mia madre aveva scosso la testa e schioccato un bacio sulla mia guancia. "Ti va un gelato?" aveva poi proposto.
"Prima di pranzo?"
"Un piccolo strappo alla regola"
Avevo annuito entusiasta. Non ero preoccupata per Muffin. Non era scappato di casa, era troppo vecchio. Probabilmente era in qualche angoletto della casa che solo io e lui conoscevamo. Mamma e papà non lo avevano cercato bene. Ma tornata a casa neanche io lo trovai. Mi arrampicai sui mobili, spostai i divani, cercai ovunque. Solo pochi giorni più tardi sentii mio padre parlare al telefono con un suo amico che gestiva un piccolo negozio di animali di quanto fosse normale che, alla sua età, il nostro gatto avesse perso l 'equilibrio e fosse caduto.
Piansi. Piansi a lungo e piansi di vero dolore.
Una cosa mi rimase impressa nella memoria: Muffin, paradossalmente, valeva un gelato.
La morte la capivo, si. Quello che non capivo era da cosa dipendesse la mia eventuale morte. Per i miei genitori da una "brutta malattia" , per i medici dalla "leucemia" mentre per nonni, zii e prozii dal fatto che "non guarda proprio in faccia a nessuno".
Una volta, mentre i miei mi mettevano a letto, da quando ero malata mi riempivano di attenzioni, gli avevo chiesto come faceva la morte a guardare in faccia le persone e se lei aveva una faccia. Mia madre era scoppiata in lacrime ed era corsa in bagno dove trascorreva gran parte delle sue giornate a singhiozzare, certa che io non la sentissi, mentre mio padre mi aveva detto di non pensare a queste cose e di dormire.
Quel primo periodo della mia malattia lo associo al bianco. Il bianco dei camici dei dottori, il bianco delle pareti dell'ospedale, il bianco dei macchinari per "farmi tornare ad essere una bambina felice" , il bianco del mio viso e di quello dei miei genitori. Anche al bianco di tutte quelle lacrime versate. Si, perché per me le lacrime sono sempre state bianche. Di solito l ' acqua si dipinge con l ' azzurro, ma a me piaceva troppo l 'azzurro per associarlo al pianto, oppure si dice che è trasparente, ma come si può conciliare il dolore, la sofferenza con la purezza?
Una delle tante cose che non capivo era come potesse essere la morte la cosa che spaventava più di tutto chi mi stava intorno e il concetto dal quale tentavano di proteggermi. Per quanto mi riguardava avevo più paura della vita, o meglio, della durata di quella vita. Nausee, visite continue, falsi sorrisi, sguardi di compassione: era questo quello che odiavo e viverlo ancora a lungo era la mia paura più grande.
Quella "brutta cosa" che io avevo portò inoltre con sé un'altra brutta cosa: le litigate.
I miei genitori non avevano mai litigato, forse discusso, ma mai avevano urlato l'una contro l'altro. I loro piccoli battibecchi erano sempre finiti con un bacio sulle labbra e un sorriso. Dall'inizio della mia malattia invece uscivano dalla loro camera con gli occhi bassi e a stento si rivolgevano la parola; per lo più mio padre usciva sbattendo la porta e mia madre faceva scattare la serratura del bagno.
Così crebbero in me i sensi di colpa. Non parlavo più per paura di dire qualcosa sulla "brutta cosa" che potesse farli star male, mangiavo solo se costretta, dormivo male e poco per evitare di sognare e svegliarmi peggio di quanto già non mi sentissi e respiravo ormai solo per abitudine.
Ero entrata in uno stato di apatia che, tuttavia, mi proteggeva dalle urla, dagli sguardi compassionevoli, da quanto facevano male gli aghi nel braccio, dallo specchio che mi mostrava diversa da quello che ero stata, diversa da quello che dovevo essere.
Non so quanto tempo passò, mesi forse. Comunque un tempo infinitamente lungo, almeno per me; almeno per una bambina di otto anni.
Guarii. O almeno il mio corpo guarì. Io non fui più la stessa.
No, prima non ero una di quelle bambine sempre sorridenti, disposte a parlare con tutti, socievole e "assolutamente amabile" . Ma ero una bambina.
La mia infanzia era finita nel momento stesso in cui il dottore quella volta mi aveva fatto accompagnare fuori dal suo studio da un ' infermiera per parlare da solo con i miei genitori, era finita con quel urlo soffocato di mia madre udito dietro la porta.
La mia maestra convocò più volte mia madre e mio padre per mostrare la sua preoccupazione verso quella bambina che non parlava quasi mai, che non giocava, non disegnava, che se ne stava sempre in disparte, che mai aveva visto sorridere. Ma lei non poteva fare niente: sotto il profilo didattico ero un allieva impeccabile.
La mia adolescenza la ricordo proprio così: piena di numeri. Numeri alti, mai inferiori all'otto. E come poteva essere diversamente? I miei pomeriggi erano occupati interamente dallo studio. Era il mio modo per ripagare i miei genitori di non avere una figlia simpatica, vivace e allegra. Era l'unica cosa di cui si potessero vantare di me con gli altri.
Se non dovevo studiare leggevo o ascoltavo musica. Per lo più entrambe le cose. Durante le vacanze stavo per ore distesa sulla schiena sul letto con in mano un libro e le cuffiette nelle orecchie. Era la mia bolla impenetrabile dentro la quale rincorrevo una balena bianca sulle note dei White Stripes o agitavo bacchette in una strana scuola mentre risuonavano nell'aria le parole dei The Clash o lasciavo mio marito e mio figlio per seguire l'amore in una Russia elegante ma fredda ascoltando Axel che sussurava al mio orecchio.
Mia madre cercò più volte di parlare con me, di capirmi. Ma la cortina che mi avvolgeva era troppo spessa anche per lei e così se ne andava spazientita e delusa. Mio padre, che non era mai stato bravo con le parole, preferiva i fatti o meglio i gesti. Mi accarezzava velocemente i capelli, cucinava per me le crepe dolci, mi veniva a prendere a sorpresa a scuola per portarmi a pranzo fuori, mi consigliava dei libri e mi sorrideva. Nel suo piccolo mi rendeva felice più di quanto avrebbero fatto costosi regali e riuscì in qualche modo a creare una certa complicità tra di noi.
Questo innervosiva mia madre che prese ad accusarlo per cose sciocche e assurde ma fu costretta ad arrendersi quando divorziarono e io scelsi di stare con lui. Mentre preparavo le mie cose per seguirlo in un'altra casa lei si fermò sulla soglia della mia camera. Aveva ancora una volta gli occhi gonfi. Era anche per quello che me ne andavo: avrebbe sofferto di meno a vedermi andare via che a vedere tutti i tentativi falliti di instaurare una conversazione con me.
"Ti voglio bene" le dissi e mi avvicinai per abbracciarla.
"Anche io. Più di quanto tu possa immaginare" singhiozzò stringendomi a sé.
"Mi dispiace per tutto." Mi dispiace per come sono e mi dispiace per come non sono, mi dispiace che tu e papà abbiate divorziato, mi dispiace di essermi ammalata, mi dispiace di non riuscire a parlare con te, di farti piangere, di farti soffrire. Ma questo non glielo dissi. "Non è colpa tua"
"Ma neanche tua, capito?" sciolse l'abbraccio e mi prese il viso tra le sue mani per costringermi a guardarla "capito?" ripetè.
Osservai quegli occhi di caldo cioccolato, non le risposi e mi rituffai tra le sue braccia.
***
Ero preparata quando per la seconda volta fui seduta su quella sedia davanti a quella scrivania e sentii quella parola: tumore.
"Dottore lei si sta sbagliando. Non può essere, non ancora..." provò a ribattere mio padre seduto di fianco a me.
"No, è lui." Lo sapevo, lo avevo saputo dal primo malessere. La morte aveva ancora una volta poggiato la sua mano fredda sulla mia spalla. Non avevo nessuna intenzione di voltarmi.
"Vede le persone curate per la leucemia nell''infanzia sono molto più soggete a sviluppare un tumore maligno più avanti nel corso della loro vita"
"Sarà tutto come l'ultima volta?" chiesi
"Si, più o meno. Vedrai che..."
"Mi dica quando cominciamo e come" lo fermai prima di fargli sprecare le parole di consolazione che poteva riservare a qualcun altro.
Avevo diciassette anni a quel tempo e non ero cambiata di una virgola. La ragazzina taciturna e incomprensibile aveva soltanto acquistato un corpo più slanciato e formoso.
Non piansi. Avevo compreso che era qualcosa di totalmente inutile. D'altronde, tranne per il dolore fisico, non soffrivo. Ero arrabbiata ma non sapevo neanche io con chi. C'era un colpevole in tutta la mia storia? Qualcuno con cui prendermela per aver scelto proprio me come piccola bambolina da torturare? Dio? No, la mia mente fredda e razionale che aveva divorato libri scientifici rifiutava di accettare l'esistenza di quest'essere trascendentale che nessuno aveva mai visto. Il destino? Neanche lui andava bene in quanto troppo astratto per poter scagliare contro di lui la mia ira.
Ricominciò tutto daccapo. Fu come pagare il biglietto per rivedere lo stesso film su cui avevi scritto una recensione negativa. Alla fine del primo tempo pensai di non farcela, che tutto fosse inutile. Poi qualcuno entrò in sala. Non vi dirò il suo nome, in fondo lo diceva anche Giulietta che una rosa ha sempre lo stesso profumo anche se le cambiamo il nome.
Fu proprio la signora vestita in nero che ci fece incontrare. Sua madre era malata di tumore ed era seguita dal mio stesso medico. Era lui ad accompagnarla alle visite perché suo padre se ne era andato tanto tempo prima e lui non si ricordava neanche che faccia avesse e non avevano nessun altro.
Lo avevo già visto un paio di volte ma fu un freddo pomeriggio di novembre che scoprimmo veramente l'esistenza l'uno dell'altra.
Sua madre era dentro a farsi visitare e io aspettavo il mio turno dopo di lei. Ero sola come accadeva spesso dato che preferivo farmi visitare senza i miei genitori che avevano acconsentito se si trattava di visite di routine. Lui aspettava seduto di fianco a me sull'unica panca presente. Un posto vuoto ci separava. Aveva le gambe incrociate e muoveva su e giù il piede. Io leggevo e ascoltavo musica, come sempre.
"Che palle, eh?" mi disse lui Gli rivolsi un'occhiata totalmente priva di emozioni.
"Scusa... era solo per fare due chiacchiere. Non ce la faccio più..." alzò le mani e si appoggiò allo schienale.
Senza dire una parola aprii il mio zaino, tirai fuori una copia di "Vita e opinioni di Tristram Shandy" di Laurence Sterne e lo appoggiai sul sedile vuoto. "Però! Una cosina da finire in un'ora! " sorrise e iniziò a sfogliarlo "Grazie" mi disse sorridendomi per poi cominciare a leggere.
Quando sua madre uscì dallo studio e si dichiarò pronta ad andare mi porse il libro. Scossi la testa: "Tienilo pure, me lo ridarai"
"Sicura?"
Annuii "Trattamelo bene altrimenti me lo ricompri" gli dissi prima di entrare nello studio.
Me lo riconsegnò qualche giorno dopo quando lo rincontrai all'entrata dell'ospedale mentre usciva. Mi ringraziò velocemente perché doveva accompagnare sua madre a casa che aveva bisogno di riposarsi. In effetti non lo trattò particolarmente bene. All'interno aveva scritto una frase addirittura a penna: "Grazie. Non so neanche come ti chiami però, se vuoi, potremmo farci quattro chiacchiere. una volta o l'altra. Comunque questo è il mio numero." Accanto una serie di cifre indicava che era quello di un cellulare. Sospirai e spinsi la porta di vetro per dirigermi alla solita stanza. Ero profondamente indignata con quello sconosciuto che aveva osato rovinare uno dei miei libri preferiti per darmi per di più un ' indicazione che non avrei mai utilizzato. "Cafone" ripetei un paio di volte mentre a casa cancellavo la scritta con il bianchetto.
"Certo che vita orribile!" Mi voltai. Era uno dei giorni compresi nelle vacanze di Natale che era appena passato e io stavo aspettando mio padre che doveva venire a prendermi davanti l'ospedale. "Come scusa?" chiesi.
"Trismegistus, Tristram. Il tuo libro." Aggiunse meravigliato che non avessi capito.
"Ah, si. Il mio libro." risposi marcando sull'aggettivo " mio " .
"Bè però mi è piaciuto. Grazie di avermelo prestato." disse sorridendo.
"Tranquillo, non accadrà più."
Aggrottò le sopracciglie. "Ho detto qualcosa che non va?"
"Diciamo fatto" gli risposi guardandolo negli occhi. Per un momento mi persi in quel nero così scuro ma anche così vivace poi mi ripresi e, riconoscendo uno sguardo interrogativo, spiegai: "Hai scritto sul libro."
"Ah" esclamò lui con evidente sollievo. "Mi dispiace."
"Non mi sembra".
"Dai, scusa. Però non è così grave, no?" disse passandosi una mano tra i capelli e inarcando le sopracciglie.
"I libri sono fatti per leggere non per mandare messaggi. Potevi usare un biglietto."
"Quindi ti ha dato fastidio dove abbia scritto non cosa..."
Non capii ma non ebbi il tempo di chiedere delucidazioni in proposito perché una Ford grigio metallizzato accostò al marciapiedi.
Lui si girò "Penso proprio che sia arrivato tuo padre. È stato un piacere parlare con te."
Si infilò le mani in tasca e, dopo avermi rivolto un sorriso, si allontanò. Lo seguii con lo sguardo finchè non voltò l'angolo poi aumentai il volume dell'i-Pod e salii in macchina.
La notte non dormivo mai molto, forse perché inconsapevolmente pensavo di perdere tempo e non ne avevo certo da sprecare, ma quella notte proprio non chiusi occhio. Appena provavo ad addormentarmi si delineava subito nel buio degli occhi chiusi la sua figura e in particolare il suo sorriso. Non riuscirei mai a descriverlo con le parole, quel sorriso che era una specie di lampo di luce nel mio cielo buio, e quindi non ci provo neanche. La visita successiva sarebbe stata circa una settimana dopo e, per quanto allora mi sembrava sciocco da pensare, non vedevo l'ora. Era come se quei giorni che trascorrevano monotoni e indifferenti avessero acquistato di colpo un senso. Purtroppo non lo rincontrai il giorno della seduta successiva della chemioterapia e neanche quello dopo. Passarono quasi quattro settimane senza che sapessi nulla di lui e per quanto ero consapevole di quanto fosse stupido o inutile non riuscivo a non smettere di arrivare mezz'ora prima in ospedale o ad aspettare sempre qualche minuto in più dopo nonostante la spossatezza. Era ormai arrivato maggio con le sue giornate di sole splendente e un cielo così azzurro e limpido che sembrava chiedesse di essere toccato e io ero giunta davanti le porte scorrevoli di quella che era diventata una seconda casa. Sul muretto che delimitava il percorso che doveva essere seguito dalle ambulanze per il pronto soccorso era seduto lui: t-shirt, jeans e converse, sguardo basso e capelli arruffati. Quando alzò gli occhi vi lessi subito sofferenza e numerose notti insonni mascherate da un sorriso forzato. "Ciao" gli dissi avvicinandomi
"Ehi"
"Come... stai?" balbettai
"Ti va di fare una passeggiata?"
"Veramente io dovrei..." dissi facendo un cenno all'edificio alle sue spalle.
"Ah, giusto." I suoi occhi si abbassarono nuovamente.
Pensai che una seduta di chemio non mi avrebbe cambiato la vita, o forse si, forse l'avrebbe resa più lunga ma non migliore, mentre quel ragazzo poteva.
"Puoi aspettarmi qui un attimo?" gli chiesi.
Annuì leggermente stupito. Andai dentro e uscii poco dopo.
"Che hai fatto?" domandò alzandosi.
"Spostato l'appuntamento. Sai non mi sento tanto bene..." risposi.
"Sicura?"
"Si" Mai stata più sicura di qualcosa.
Non parlò ma cominciò a camminare e io lo seguii. Non parlammo per un bel po'. Camminammo solamente uno accanto all'altra mentre le macchine sfrecciavano sulla strada. Forse per caso o forse per sua scelta arrivammo ad un piccolo parco e lui si sedette su una panchina allungando le gambe per appoggiare i piedi su un tronco tagliato. Mi sedetti accanto.
"Scusa" disse fissandosi le scarpe.
Aggrottai le sopracciglia.
"Praticamente non ci conosciamo e io quasi pretendo che tu rinunci alla tua visita"
"C'è ancora a libertà di scelta e io sono capace di intendere e volere. Non ti preoccupare che di sedute di chemio ne ho fatte molte e ne farò tante anche in futuro."
Fece una smorfia. Oppure un sorriso. "Come fai?"
"A fare cosa?"
"Ad essere così" Sembrava quasi un complimento. "Si, voglio dire, tu sei... sei..."
"Malata?" suggerii.
"Si e sembra quasi che non ti importi. Per te curarti è come un compito per casa, un obbligo da assolvere"
"Bè, è così. A meno che non voglia morire."
Rise freddamente. "Sei assurda" decretò girandosi e guardandomi.
"Perché? Cosa dovrei fare secondo te? Mettermi ad urlare, pretendere che tutto il mondo sappia della mia malattia e mi compatisca? Servirebbe a qualcosa?" sbottai. Non avevo bisogno di qualcun altro che si mettesse a giudicare il mio comportamento.
"No, probabilmente no. Ma sarebbe più umano"
"Senti..." dissi alzandomi e facendo per andarmene.
"Mia madre è morta"
Ricaddi sulla panchina e lo fissai. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi vitrei. Non dissi niente.
"Anche lei diceva che era inutile lamentarsi"
"Mi... mi dispiace" sussurrai.
"Sai, molti mi dicono che forse è meglio così. Che ha smesso di soffrire però... io non riesco a pensarla in questo modo. Mentre stava male mi sono sentito talmente impotente, era qualcosa di infinitamente più grande di me e non potevo farci niente. È vero, soffriva, eppure c'era. Era lì con me. È tremendamente egoista, lo so, ma non posso farci niente. Mi manca." La sua voce tremava e parlava come se quello che stava dicendo fosse così tremendo da non poter essere udito.
"Non sei egoista."
"Sono stato inutile. Mi chiedo ancora adesso se c'era qualcosa che potevo fare per lei."
"Le sei stato vicino."
"E questo pensi sia servito a qualcosa? Io la accompagnavo in ospedale ma il fatto che dopo la chemio la vedessi pallida e fragile forse la faceva soffrire ancora di più e stare sveglio con lei quando vomitava la notte non la spingeva a fingere di stare invece bene per rassicurarmi?"
"Hai fatto quello che potevi e sono sicura che la tua presenza abbia fatto solo che bene a tua madre." Sembravo un libro stampato.
"Ne sei così sicura? Tu, che non vuoi nessuno vicino a te a diciassette anni?" Mi guardò dritto negli occhi più freddo che mai.
"Ma se l'hai detto tu che praticamente non sono umana!" mi sforzai di sorridere.
Lui mi fissò e scosse la testa. "Già e ribadisco anche che sei assurda. Ma sei anche l'unica persona con cui riesco a parlare da un mese."
Improvvisamente realizzai che era venuto a cercare proprio me. Me, qualcuno aveva bisogno di me. Sorrisi involontariamente.
"Che c'è?" chiese interrogativo.
"No, niente." Arrossii violentemente e presi a guardare i ciottoli per terra.
Rimanemmo di nuovo in silenzio.
"Dove pensi che sia?"
"Non lo so." risposi evasiva.
"Andiamo! Tranquilla, ricordo che non sei umana."
Storsi la bocca incerta se essere sincera. "È morta. Non penso che sia da nessuna parte."
Lo osservai per un secondo per cercare di capire la sua reazione poi abbassai lo sguardo.
"Niente vita dopo la morte, quindi?"
"La vera vita è questa, quella durante la quale ogni secondo è unico e non ritornerà. Se continuiamo a vivere dopo la morte è solo grazie ai ricordi degli altri ma anche questa vita non è immortale perché anche le persone che ricordano muoiono o dimenticano."
Quando rialzai gli occhi questi furono incatenati dai suoi, pieni di lacrime. "Io non voglio dimenticarla, non voglio ucciderla."
Forse per la prima volta nella mia vita capii quanto la morte potesse fare male. Lo abbracciai forte ma fu strano come fui io a trovare consolazione in quell'abbraccio. Lo sentii singhiozzare mentre mi bagnava un po' la camicetta, un po' i capelli. "Non lo farai. Non la dimenticherai."
Quando tornai a casa trovai stranamente mia madre seduta sul nostro divano rosso vivace, mio padre amava i colori vivaci.
"Mamma?" la chiamai stupita.
"Ma dove sei finita?" urlò lei di risposta venendomi incontro. "Ci hai fatto venire un colpo! Sei impazzita forse?"
"Calmati." disse la voce calma di mio padre
"Calmarmi?" Mia madre quasi tremava.
"Stai bene?" mi domandò mio padre posandomi due mani sulle spalle e fissandomi dritto negli occhi. Annuii. "Ok. Questo è l'importante."
"Cosa?" riprese a strepitare mia madre "Il medico ci chiama per dirci che nostra figlia ha saltato una seduta della terapia a cui ha deciso, a diciassette anni, di andare da sola, scompare per ore e tu non le dici niente?"
"Eravamo preoccupati che le fosse successo qualcosa e così non è, quindi..." Mio padre fece scorrere la sua mano sul mio avambraccio come per scaldarmi e poi si allontanò verso la cucina decretando che, per lui, la discussione era conclusa.
"Non ci posso credere..." Mia madre lo seguì incredula con lo sguardo. Feci anche io per andarmene ma lei mi afferrò per un polso costringendomi a voltarmi. "Non te la svignerai così, signorina. Vuoi dirmi dove sei stata?"
"In giro"
"In giro? Salti qualcosa di talmente importante per andartene in giro?"
Non le risposi ma neanche abbassai lo sguardo.
"Ma cosa credi? Che sia un gioco?" i suoi occhi dardeggiavano e la sua stretta si faceva più forte.
"Mamma, mi fai male."
"E tu pensi che in questo modo tu non ci faccia male?"
"Adesso smettila. Lasciala" Mio padre tornò nella camera rimanendo a leggera distanza tra noi due. La sua voce era però seria e autoritaria.
"No!" strillò mia madre con la voce rotta dal pianto "Ti abbiamo concesso tutto: di startene sempre per fatti tuoi, di isolarti, di lasciarci fuori da quello che provavi. Non puoi decidere tutto tu. Continuare a vivere non è qualcosa da scegliere. Questa cosa non coinvolge solo te. Ci siamo anche noi, ci sono anche io. Parlami, picchiami, sgridami ma fa qualcosa! Ti prego..." Ora mi stava supplicando e la sua stretta si era trasformata in un tenermi per mano.
"Mi... dispiace." Fu l'unica cosa che riuscii a dire. Ripensai a lui, al suo senso di impotenza e ritrovai quello sguardo di puro dolore negli occhi di mia madre. Mi lasciò andare.
Dopo aver afferrato la borsa dal divano se ne andò in silenzio. Rimasi a fissare la porta che si era chiusa alle spalle. Singhiozzavo. Ma non piangevo. Avrei voluto che invece sulle mie guance fossero scesi due fiumi di lacrime. Perché la mia vita doveva essere così, un eterno singhiozzo senza lacrime?
"Non è colpa tua." Mi si avvicinò mio padre.
"E invece sì"
"No. Non è colpa di nessuno, né di tua madre né tanto meno tua"
"A me dispiace davvero" sussurrai. Mi sentii cingere le braccia e avvicinare al suo petto.
Un abbraccio da dietro non pretende di essere ricambiato.
***
Era mattina presto quando successe, o meglio, quando me ne accorsi. La prima volta non era successo. La spazzola passava tranquillamente tra i capelli senza accorgersi che aveva portato con sé una sostanziosa ciocca di capelli. Quando la vidi ebbi un conato di vomito. La prima volta non era successo. Ma stavolta si. Per tutto il giorno pensai a quella maledetta ciocca e soprattutto alle altre che l'avrebbero seguita. Avrei dovuto sapere che il rischio di perdere i capelli era altissimo ma pensavo che dopo aver iniziato da un bel po' la chemio potevo ormai stare, ecco, tranquilla. Quando tornai evitai di pranzare e mi infilai sotto la doccia. Chiusi gli occhi mentre l ' acqua scorreva sulla mia testa e i capelli si raccoglievano a terra. Mi avvolsi nell'accappatoio e mi fermai davanti allo specchio del bagno. Si vedeva. Bagnati, si vedeva ancora di più. Afferrai le forbici e ciocca dopo ciocca mi liberai dei miei lunghi capelli prima che lo facesse la mia malattia.
Quando ebbi finito mi sdraiai sul letto. I miei capelli... una lacrima scese lungo la guancia. I capelli erano riusciti a concedere al mio viso di continuare ad avere un aspetto quasi normale. Ora coprivano a stento la mia cute... scese un'altra lacrima. Le occhiaie, quello sguardo vacuo, dono della chemio, le labbra secche e l'aspetto spossato ora risaltavano sul mio volto. Non uscii di casa per un bel po' evitando anche la scuola. Non mi ero mai sentita così... vuota.
"Tesoro, posso?" Mio padre si era affacciato sulla porta della mia camera.
Stavo sonnecchiando ma annuii.
"C'è un tuo... ehmmm... amico" disse pronunciando la frase come se fosse una domanda.
"Chi?" chiesi io aggrottando le sopracciglie.
"Si, dice di essere un tuo amico"
"Un mio... amico?" Quella parola aleggiava nell'aria come un estraneo ospitato in casa di sconosciuti.
"Posso?" da dietro la porta sbucò il suo viso. Un mio amico, ma certo.
Mio padre lo fissò piuttosto perplesso.
"Ciao" lo salutai.
"Ah, allora lo conosci"
"Si, papà"
"Bene" asserì. "Me ne vado allora... nell'altra camera."
Nell'andarsene continuò a mantenere lo sguardo su di lui poi accostò la porta facendo ben attenzione a non chiuderla.
"Che ci fai qui?" gli chiesi. Ero felice di vederlo, certo, ma non riuscivo a non pensare ai miei capelli. Eppure lui non disse niente a riguardo.
"Che accoglienza!" esclamò mentre si guardava in giro. "Carina la tua camera... ma non sarà il caso di fare un po' di luce? È una bellissima giornata oggi."
"No!" urlai inutilmente mentre tirava su le persiane.
L'ultima cosa di cui avevo bisogno era la luce. In effetti doveva essere una splendida giornata perché il sole inondò completamente la stanza.
"Meglio, no?" domandò lui voltandosi verso di me piuttosto soddisfatto. Lo guardai con puro odio e mi risdraiai sul letto.
"Ehi, ma si può sapere che fine hai fatto? Non sei andata neanche più a scuola?"
"E tu come fai a saperlo?"
"Bè, all'uscita non c'eri." All'uscita? Mi era venuto a prendere a scuola?
"Non sono stata tanto bene"
Uffa, perché continuava a guardarmi? Avrei preferito che avesse girato ancora per la mia stanza.
"Adesso come stai?" chiese. Sembrava preoccupato.
"Un po' meglio"
"Bene! Allora usciamo."
"Che? Io non ho voglia di uscire." Ma che diavolo voleva?
"Ho scoperto una gelateria buonissima. Dai, andiamo"
"No, non mi va."
"Andiamo! Non puoi restare chiusa qui tutto il giorno altrimenti ti deprimi."
"Sono già depressa"
"Meglio, il gelato è il primo medicinale consigliato per la depressione." Sorrisi.
"Vedi? Neanche te l'ho somministrato che già stai meglio."
"Non mi va di uscire, davvero. Un'altra volta." Scossi il capo irremovibile. Non mi andava proprio di farmi vedere in quelle condizioni da altre persone.
"Si può sapere che hai?" Si sedette accanto a me come per osservarmi con più attenzione.
"Niente" risposi evitando il suo sguardo indagatore.
"Ma se te ne stai qui, al buio, non leggi, non ascolti musica e dormi. Non è da te. Dimmi che c'è che non va, dai."
Feci un respiro e mi tirai su.
"Non mi vedi, forse?" dissi puntando un dito in direzione del mio volto.
Lui mi fissò perplesso. "Ti sei rifatta il naso e l'operazione è andata male? Mhmmm no, mi sembri uguale a prima."
Continuai a guardarlo. Si stava prendendo gioco di me?
"Ah!" esclamò improvvisamente. "I capelli!"
Annuii mestamente.
"Bè, in effetti al posto tuo cambierei parrucchiere, non è molto bravo"
"Li ho tagliati io. Stavano... cadendo." Mi veniva un groppo alla gola nel dire quella parola.
"Ah... io al posto tuo sarei andato da un parrucchiere. Con tutto il rispetto tu non sei un granchè nel taglio."
Quel ragazzo era assurdo.
"Stanno cadendo. Tra poco un parrucchiere non saprebbe che farci con me." Mi appellai a tutto il sarcasmo che conservavo. Avevo bisogno di uno schermo, qualcosa dietro cui nascondermi. Sentivo già le lacrime fare capolino nei miei occhi.
"Non voglio uscire in queste condizioni. Non voglio farmi vedere in queste condizioni, possibilmente neanche da te" Fu più forte di me ma una lacrima cadde dagli occhi ormai pieni.
Lui la scacciò con il pollice poi mi accarezzò velocemente la guancia. "Sei bellissima"
Lo guardai negli occhi. Era sincero. Non si può mentire a così poca distanza.
Lui sorrise "La tua faccia è sempre la stessa, non cambia per i capelli. Ok, allora andiamo? Ho voglia di gelato." Si alzò e si avvicinò alla porta. "Ti do due minuti per cambiarti e truccarti, cioè, per fare quella roba lì da ragazze... non che tu ne abbia bisogno. Se non vuoi truccarti ok. Vabbè ti aspetto di là."
Rimasi immobile per un bel po'. Due parole mi rimbombavano nella testa. Pensava davvero che fossi... bellissima? La cosa mi sembrava talmente assurda che quasi non si poteva dire ad alta voce. Feci un respiro e mi diressi all'armadio. Impiegai un quarto d'ora per diventare quanto meno presentabile poi andai in salone. Mi aspettavo di trovare due persone in silenzio, una delle quali squadrava l'altra. Mi ero sbrigata anche per questo. Invece sembravano amici di vecchia data: mio padre aveva anche preso i suoi vecchi quaranta giri e stavano discutendo tenendo in mano uno di essi.
"Io avrei fatto" annunciai.
"Ah, tesoro. Un attimo solo" mio padre mi fece un cenno come per scacciare la mia interruzione.
Li guardai sbigottita. Dopo qualche minuto i due "compari" finalmente si separarono e noi potemmo uscire.
"Tuo padre è proprio forte" commentò lui.
"Lo conosci da dieci minuti" gli feci notare.
"Appunto. Le persone si capiscono da subito."
Non ero affatto d'accordo ma evitai di dissentire. Ero ancora piuttosto perplessa. Mio padre era sicuramente più socievole di me ma non era mai stata la persona che ti racconta la propria vita dopo averti appena conosciuto.
"Crema e cioccolato. Mi aspettavo qualcosa di più originale da parte tua" asserì lui quando uscimmo dalla gelateria.
"È un classico. Mi piacciono i classici. E poi scusa ma brownie, zuppa inglese e kiwi non verrà esattamente proclamato l'abbinamento dell'anno" dissi fissando il suo cono.
Si strinse nelle spalle. "Però a me piace."
Ci fermammo ad una banchina su cui probabilmente qualcuno aveva sfogato un impeto di rabbia visto le condizioni.
"Sono originale nella coppetta."
"Vero." Confermò.
Rimanemmo a lungo in silenzio mentre mangiavamo.
Quando ebbi finito si offrì di andare a gettare il cartoncino che aveva ospitato il mio gelato.
"Buono, no?" mi chiese tornando. Annuii. Non era niente di speciale ma lui sembrava molto contento della scoperta.
Di nuovo silenzio. Cadeva spesso il silenzio tra di noi. Ma non era un silenzio imbarazzante, il classico silenzio in cui uno dei due cerca qualcosa da dire, era il silenzio di chi non ha bisogno di parole per stare bene.
"Come stai?" mi chiese lui improvvisamente.
"In che senso?"
Fece un respiro profondo. "Non lo so... è che non ti ho mai chiesto nulla della tua malattia. Di come sta andando. Non ti ho mai chiesto come stai."
"Continuo con la chemio. Sedute meno frequenti e meno intense." Riassunsi velocemente.
"Quindi va meglio?"
"Sssi, credo. I medici non si sbilanciano mai più di tanto"
"Già, me lo ricordo. "
Di nuovo silenzio. Solitamente mi dava fastidio quando qualcuno mi chiedeva qualcosa della mia salute. Quello che faceva lui invece non riusciva mai a suscitarmi fastidio, era tutto così normale con lui.
"Non morire."
"Cosa?"
"Non morire, ti prego." Stava fissando un punto lontano. Lo disse con lo stesso tono di chi chiede se può avere una penna in prestito.
"Non ho nessuna intenzione di morire" risposi io con la medesima voce.
"Ok. Perché non riuscirei a sopportare di perdere anche te."
Sorrisi guardandolo. Mai nel corso della mia malattia avevo pensato di mollare, di lasciar perdere, nonostante la Morte mi avesse mostrato quanto dolce potesse essere il suo abbraccio. Ma non avevo mai pensato di continuare a vivere per qualcuno.
"Ma guarda chi c'è! La malata... "
"Chi sono?" mi chiese lui facendo un cenno al proprietario dell'urlo che si avvicinava accompagnato da altri due ragazzi.
Sospirai. "Amorevoli compagni di classe"
"Che cavolo hai fatto ai capelli? Sono caduti? O è un nuovo look per sembrare malata davvero?"
"Andatevene " gli dissi senza neanche degnarli di uno sguardo.
"E perché? La strada è di tutti"
"Bene. Allora ce ne andiamo noi" mi alzai e trascinai lui con me.
"Tutto ok?" mi chiese.
"Si, tranquillo. Ci sono abituata: sono solo tre poveri idioti."
"Noooo. La nostra malaticcia ci abbandona. E io che volevo dirti che sei l'amore della mia vita! Con questo nuovo taglio poi! Non mi lasciare, dai!"
Continuai ad ignorarli ma presi a camminare più velocemente. Non me ne era mai fregato niente dei loro commenti cretini ma prima non avevano tanto su cui colpirmi.
"Ma quanto sei antipatica, eh? Lo sai che adesso sembri ancora più malata e brutta?" Respirai profondamente e trattenni le lacrime: non mi facevo certo ferire da quei tre. Al mio fianco lui però si era fermato tanto che dovetti tornare indietro.
"Che fai? Andiamo, ti prego"
"No. Adesso basta." Stringeva i pugni.
Assistetti come a una scena al cinema. Lui che tornava indietro, uno spintone, un altro spintone, urla, un pugno, un altro, tre contro due, dei passanti che si fermavano per fermarli. Quando mi scossi corsi vicino a lui.
"Andiamo al pronto soccorso" stabilii guardando il sangue colargli a fiotti dal naso.
"No, sto bene"
"Andiamo al pronto soccorso" ribadii.
"Microfrattura. Niente di che." Annuciò lui uscendo dalla stanza.
"Mi dispiace" dissi.
"Mica è colpa tua."
"E invece si."
"Ma che scherzi? Dai andiamocene da qui."
Facemmo un bel pezzo di strada senza parlare. Io mi sentivo terribilmente in colpa e lui continuava a toccarsi il naso.
"Scusa" bisbigliò lui mentre aspettavamo l'autobus.
"Che?"
"Adesso avrai problemi a scuola. È che proprio non sono riuscito a controllarmi."
Lo guardai e poi sbottai a ridere. "Poi quella strana sono io. Quasi ti spaccano il naso per colpa mia e tu ti preoccupi se avrò dei problemi a scuola?" Scossi la testa continuando a sorridere.
"La colpa non è tua. Smettila di dirlo." Scandì le parole una ad una. Era serissimo.
"Ah, no? Quindi probabilmente ti saresti spappolato il naso anche se fossi uscito da solo."
"Magari mi cadeva un mattone sulla testa." Era tornato normale.
"Si, certo."
"Comunque qualcosa gli ho fatto. Se eravamo uno contro uno gli avrei..."
"Oh, e volevi finire anche in galera a causa mia?"
"Ne sarebbe valsa la pena."
"No."
"E invece si." Stava di nuovo stringendo i pugni. Una mano aveva le nocche arrossate.
"No, non per me."
Mi guardò aprendo le mani. "Perché fai cosi?"
"Così come?"
"Ti comporti come se la tua vita fosse totalmente inutile e quasi un peso. Come se a nessuno importasse niente di te."
Mi strinsi nelle spalle. "Forse perché è così che la considero. Spesso penso che se non fossi mai nata molta gente starebbe meglio."
"Ti sbagli."
"Come fai a dirlo? I miei genitori si sono lasciati a causa mia e la mia esistenza non porterà alcun contributo alla società, quindi..."
"Non dovresti parlare in questo modo. Sono sicuro che sei la cosa più bella che poteva capitare ai tuoi e io sono contento che tu sia nata."
Mi voltai a guardarlo. Mi chiesi perchè, che motivo aveva di essere contento della mia nascita?
Lui era girato in direzione dell'autobus che velocemente si avvicinava.
"È il tuo" disse.
Annuii meccanicamente e, nello stesso modo, salii quando le porte automatiche si aprirono.
"Ti chiamo io, ok?" mi urlò mettendo il mignolo sulla bocca e il pollice sull'orecchio.
Lo fece quella sera stessa.
"È il tuo ragazzo" annunciò mio padre entrando in camera mia per portarmi il telefono.
"Papà!" gli urlai arrossendo violentemente.
"Che c'è? Sono un genitore aperto io!"
"Ma... ma..." balbettai.
"All'inizio si dice pronto" disse lui porgendomi il cordless e poi uscì sorridendo.
"Pronto?" risposi rassegnata.
Dall'altra parte sentii qualcuno riprendersi da una risata "Ehi! Come va?"
"Bene. Il mio naso è ancora intatto"
Sospirò "Uffa. Ancora con questa storia. Sai ti dovrei quasi ringraziare, meglio, dovrei ringraziare quegli str... quelli insomma: domani no school."
"Wow." Se non andava a scuola forse voleva dire che gli faceva male...
"Stavo pensando... E se non ci andassi neanche tu?"
"Ehmmm... per solidarietà?"
"No. Per uscire con me" disse in un sussurro.
Cadde un silenzio imbarazzante. Certo, eravamo usciti insieme ma non era un "usciamo insieme", non era un appuntamento. Sembrava tutto così normale... peccato che io non lo fossi.
"Non posso."
"Che secchiona" sbuffò.
"Non è che non posso saltare scuola, non posso uscire con te."
"Ah."
"No, è che... domani mattina ho una visita."
"Ah!" ripetè con tono decisamente diverso. "Bè magari dopo... se vuoi."
"Penso di si."
"Bene. Ti aspetto fuori l'ospedale. A domani."
Attaccò senza darmi il tempo di ribattere. Lo fece apposta. Sorrisi quando, pochi minuti dopo, ricevetti un suo messaggio nel quale mi chiedeva l'ora della visita.
Mi stesi sul letto a guardare il soffitto.
"Allora?" domandò la voce di mio padre.
"Cosa?"
"Ti ho chiesto se posso prendere il telefono."
"Ah, scusa non ti avevo sentito. Si, certo."
Lui lo afferrò e se ne andò scuotendo la testa e blaterando qualcosa del tipo "Per fortuna che non è il suo ragazzo..."
***
Non dimenticherò mai quel giorno. Si dice che non si possa stabilire il giorno più bello della propria vita senza averla prima vissuta tutta, ma io posso.
Posso dirvi che quella gioia che mi pervase il cuore quella mattina non può essere spiegata, può solo essere provata. Mai, mai avrei pensato che in quel edificio che avevo così odiato ma che, allo stesso tempo, era diventato quasi una seconda casa sarei stata tanto felice; mai, mai avrei pensato che un uomo vestito di bianco potesse regalarmi tanta vitalità; mai, mai avrei pensato che una sola parola avesse potuto restituirmi la vita. Certo, il dottore ne disse tante altre ma io mi fermai ad una, una sola: guarita.
Poi una serie di immagini ed emozioni susseguirsi velocemente, alcune sfumate, altre più nitide: mio padre che si prende la testa tra le mani, i suoi baci, quella voglia di chiamare mia madre dopo tanto tempo, quella consapevolezza di poterla finalmente rendere felice, il vento sul mio viso che sorrideva. La prima volta che ero guarita avevo sentito di aver perso qualcosa, adesso l'avevo ritrovata.
"Io devo aspettare..." dissi a mio padre quando uscimmo dall'ospedale.
"Si, lo so. Ci vediamo a casa." Aveva gli occhi lucidi. Ma quelle, ora, erano lacrime di gioia.
"Okay" Annuii.
Stava per andarsene ma invece mi abbracciò stringendomi forte a sé.
"Piccolina mia. Sai che io non sono mai stato bravo con le parole e comunque non ce ne sono per esprimere quanto sia felice. So che tu pensi di essere stata solo un peso per me e tua madre, di essere stata la causa della nostra separazione e so la poca stima che hai di te stessa."
"Papà..." biascicai
"No, fammi finire perché non credo che riuscirò mai più a parlarti in questo modo. Io so che tu hai sofferto anzi no; posso soltanto immaginare quanto dolore tu abbia provato. Vorrei potermi ritenere soddisfatto di quanto ho fatto per te ma non è così. Tuttavia penso che niente sarebbe stato sufficiente per lenire il tuo strazio. Quello che adesso voglio dirti è solo che ti voglio, anzi, ti vogliamo bene. È un bene che niente e nessuno, tanto meno una malattia, ha potuto e potrà mai intaccare, è nato con te e durerà tutta la vita."
Mi accarezzò dolcemente la guancia sciogliendo quel fardello che da troppo tempo mi portavo dentro.
Borbottò qualcosa riguardo al "mio ragazzo" e si diresse alla macchina. Mentre girava l'angolo lo vidi passarsi un braccio sugli occhi.
"Grazie" sussurrai al vento.
Feci un grande respiro. Provavo una sensazione strana, nuova: sentivo il mio corpo. Si, potevo sentire l'armonia di un corpo sano, o almeno, un corpo che lo stava diventando: il sangue fluire nelle vene, i polmoni acquisire ossigeno, il cuore battere. Quel battito che potevo percepire solo io come una colonna sonora personale, una musica dolcissima a cui il mio corpo rispondeva muovendosi a tempo.
Ero ferma lì nello spiazzo, gli occhi chiusi, quando udii la sua voce.
"Tutto bene?" Aveva le sopracciglia aggrottate ed era visibilmente preoccupato.
Non gli risposi, invece lo fissai. Lui era normale. E anche io.
Gli gettai le braccia al collo e scoppiai a piangere. Non avrei mai pensato che con tutta la sofferenza che avevo provato durante la mia malattia il mio pianto più forte sarebbe stato quello dopo la notizia della guarigione.
Mi strinse tra le braccia e affondò il viso tra i miei capelli.
Quando i miei occhi non riuscivano più a versare altre lacrime mi staccai da lui.
"Cosa ti hanno detto?" La sua voce tradiva l'inquietudine.
Io invece presi a ridere. Ridevo e continuavo a singhiozzare.
La gente che passava mi lanciava sguardi interrogatori. Ma non me ne fregava niente.
Lui aspettò finchè non smisi.
"Sono guarita!" gli annunciai allargando le braccia e riprendendo fiato.
Rimase immobile.
"Bè, diciamo che sto guarendo. Il dottore ha detto che le mie condizioni sono decisam..."
Le mie labbra si ritrovarono incollate alle sue, il mio mento alzato dalle sue mani, il mio cuore battere insieme al suo.
"Mi stavi facendo morire." Mi urlò quasi in faccia. "Piangi dopo una visita, non mi dici nulla, ho temuto..." Sospirò "Ti odio"
Sorrisi e guardando il nero lucente dei suoi occhi dissi altrettanto forte: "Io invece ti amo"
Lui mi fissò e poi sbottò a ridere anche lui.
Probabilmente se fossi stata un passante, vedendoci ridere cosi insieme, ci avrei definiti "due matti", oppure "due innamorati".
***
Da quel giorno sono passati tanti anni e ora quel ragazzo che mio padre aveva definito "mio" è diventato mio marito ed è anche il padre di due splendide bambine. Mi viene da sorridere a definirle ancora così. No, ormai devo imparare che sono delle donne. Non riesco a credere che quella ragazzina taciturna e chiusa abbia potuto creare due persone così speciali, che quella ragazzina malata abbia potuto donare la vita.
Il sorriso di quel giorno non mi ha mai più abbandonata e anche adesso è sulle mie labbra. Si, anche adesso che nuovamente qualcuno ha pronunciato quel suono terribile. Sorride anche Lei, ma non è il sorriso che ci si potrebbe aspettare dalla Morte, è un sorriso dolce, il sorriso di un'amica.
Lui mi ha stretto la mano quando ci hanno illustrato le nuove terapie che avrei potuto seguire. Sapeva quale sarebbe stata la mia risposta.
"No, grazie"
"Come, scusi?" domandò stupito il dottore.
"No, grazie" ripetei serena.
"Ma signora... Vedrà che andrà tutto bene. Lei deve lottare..."
Risi vedendo un medico molto più giovane di me che tentava di insegnarmi il valore della vita.
"Mi ascolti: io ho passato l'infanzia e l'adolescenza a lottare. Mi lasci almeno ciò che resta della vecchiaia per riposarmi."
"Ma..." Si oppose con poca convinzione.
"Sa, lei mi dice che sto male e io, invece, le dico che non sono mai stata meglio di così".
È vero: io mi sento bene. Sono un'anziana donna che aspetta nel parcheggio di un ospedale dopo una visita suo marito che è andato a prendere la macchina. L'esito della visita non ha importanza.
Lui non era d'accordo sul fatto che non lo dicessimo alle nostre bambine, anzi, alle nostre donne. Ma io non voglio vedere altri sguardi di compassione, non voglio veder soffrire anche loro. In fondo ho sempre pensato e lo penso soprattutto adesso, che il problema non sia la morte ma il dolore. Non ho paura del mio dolore ma del loro.
"Di me non hai paura?" sembra sussurrare teneramente una voce.
"No, di te no. Ora non puoi togliermi nulla. La mia vita l'ho già vissuta. E poi, come potrei aver paura di te? Mi hai accompagnata per tutta la mia esistenza, fedele al mio fianco"
Ora, finalmente, posso voltarmi verso di Lei. Ora posso afferrare quella mano che mi tende. Ora posso seguirla. E così allontanarmi con Lei, come due inseparabili amiche.
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