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Ottagono
Stavamo viaggiando da molte ore. Eravamo partiti presto quella mattina, mi avevano svegliato all'alba dicendomi che dovevo essere pronto entro dieci minuti. In carcere non occorre molto tempo per radunare le tue cose, visto che non ti appartiene nulla. Ero però preoccupato per i libri, di cui ne potevo disporre in discreta quantità grazie alla generosità di alcuni amici.
- Non perdere tempo con quelli. Dove stai andando non ti serviranno. Aprite questa porta! -
Il tintinnio delle chiavi, gli scatti della serratura, il chiavistello che sbatte contro il fine corsa, il cigolio dei cardini che accompagna la porta mentre si apre. Rumori che ormai avevo codificato in una sequenza logica che ritenevo indissolubile dalla mia esistenza. Erano bastati diciotto mesi per fare di me un perfetto alienato.
Il direttore entrò nella mia cella con la solita aria di superiorità che adottava nei momenti ufficiali. Era così anche il giorno del mio arrivo; credo inoltre che indossasse lo stesso vestito. Un alienato anche lui, solo che non se ne rendeva conto. Prese un libro dallo scaffale guardandolo come se fosse trasparente, infine lo gettò sopra il letto dopo averne letto ad alta voce il titolo e l'autore.
- Io Claudio, di Robert Graves... di che parla? -
- Di un uomo che fu costretto a fare ciò che non voleva. -
- Curioso. Sembra quasi la tua storia. -
Ero l'unico ospite di quel furgone. Mi avevano fissato delle catene alle mani e ai piedi, e la tortuosità del percorso mi stava procurando una forte nausea. Il mio colorito doveva aver assunto una ben strana tonalità, considerato che l'agente di scorta fece fermare immediatamente il veicolo consentendomi di avvicinarmi al finestrino laterale per prendere un po' d'aria. Eravamo in una zona arida con poca vegetazione. Di fronte a me, ad una distanza di un paio di chilometri, una collina tonda e levigata come un teschio ospitava sulla sua sommità una costruzione di forma quadrangolare, lunga di lato e di modesta altezza. I miei occhi interrogarono in silenzio quelli del mio custode, che risposero affermativamente. Era dunque quello il posto in cui avrei trascorso i miei prossimi cinque anni.
Arrivammo con il sole che stava tramontando dopo aver percorso le ultime curve di quella strada maledetta. Ringraziai il cielo per la fine di quel viaggio, ma appena sceso dal furgone capii subito che forse ero stato precipitoso.
Fronteggiavo una lunghissima parete in mattoni la cui altezza appariva modesta solo se rapportata alla vastità della base. In effetti la costruzione raggiungeva un'elevazione di almeno una quindicina di metri. La facciata era del tutto priva di aperture, con l'unica eccezione della porta di ingresso. Guardai allontanarsi il furgone di cui ero stato passeggero e mi ritrovai solitario al cospetto di quell'edificio, la cui sinistra presenza si materializzava in modo preoccupante nell'oscurità che nel frattempo si stava impadronendo della scena. Mi avevano persino liberato delle catene, se avessi voluto avrei potuto tentare la fuga. Succube di quel posto, però, restavo lì ad osservare quell'immenso muro che stava esercitando su di me la medesima influenza con la quale il carnefice soggioga le proprie vittime.
Feci alcuni passi in direzione della porta di entrata e muovendomi mi resi conto di essere stato vittima di uno strano fenomeno ottico. Quella che mi era sembrata un'unica, gigantesca parete era in realtà la proiezione sul piano prospettico di tre lati dell'edificio, di cui quello centrale, sul quale insisteva l'unica apertura, era relativamente corto in confronto dei due laterali che dipartivano obliquamente dalle sue estremità estendendosi fino a perdersi nel buio. Mentre stavo cercando di raffigurarmi in pianta quella costruzione, udii dei rumori metallici provenire dalla porta di ingresso. Mi approssimai per comprenderne la natura, e venni investito dalla luce accecante di una lampada. Mi fermai coprendomi gli occhi con le mani.
- Dentro. -
A quell'ordine perentorio, pronunciato da una voce che sembrava provenire dall'interno, fece seguito un forte scatto. Accompagnai con lo sguardo la porta mentre si apriva fino a quando non si fermò in posizione normale rispetto alla parete.
Mi avvicinai.
Mi sentii perso. Le gambe divennero molli, sostenendomi a stento mentre entravo. Da qualche oscuro angolo della mia mente riemersero antichi versi che sinistramente mi parvero adeguati alla realtà che stavo vivendo.
" ... Le mura stesse della prigione sembrarono d'un tratto crollarsi, e il cielo sulla mia testa divenne come un casco d'acciaio scottante...".
Dall'entrata ci si immetteva direttamente in un vasto ambiente di forma ottagonale. I lati del poligono, uguali tra loro, avevano la stessa dimensione di quello su cui insisteva la porta. Nel ricordare l'ampiezza del resto dell'edificio a confronto con quest'ultimo smarrii il senso delle proporzioni.
Fatti alcuni passi che sentii risuonare nel silenzio, la porta si richiuse dietro di me. Sulle pareti insistevano delle arcate continue sia in linea che in colonna, conferendo a quel posto l'aspetto di un'arena. Il soffitto si chiudeva in una volta emisferica, con al centro un foro circolare che sembrava comunicare direttamente con l'esterno.
L'arditezza delle raffinate scelte architettoniche chiaramente rimandavano alle antichità romane e la vetustà dei luoghi facevano pensare che molto probabilmente quella costruzione risaliva a quell'epoca. Sapevo che era impossibile, ma ormai avevo smarrito anche il senso del tempo.
Quel luogo mi sembrava solitario, ma ero consapevole di essere osservato. Abituato alla consueta confusione del penitenziario da cui provenivo, il silenzio quasi ascetico che regnava in quel posto reprimeva in me ogni istinto di ribellione. Sembrava di essere più in un monastero che in un carcere, un luogo dove espiare le proprie colpe nella meditazione. Ma i miei sensi superstiti mi avvertivano che non poteva essere così.
- Mi segua, prego. -
Mi girai rapidamente. Vidi un uomo esile vestito di scuro incamminarsi verso la parete opposta all'entrata. Lo seguii rassegnato. Dal numero dei passi che dovetti compiere per andare da un lato all'altro di quella specie di arena poligonale, stimai la distanza in circa un centinaio di metri. Entrammo in una vasto ambiente quadrangolare il cui lato corrispondeva a quello della stanza ottagonale da cui venivamo.
Mi invitò a sedermi davanti all'unica scrivania esistente in quel luogo. Non ero mai stato trattato tanto dignitosamente finora, ero anzi abituato alle angherie delle guardie carcerarie. Inconsapevolmente mi rilassai, abbassando notevolmente il mio livello di guardia. Il tizio che mi aveva accompagnato in quel posto, sui sessant'anni, calvo, una leggera barba biancastra, occhiali con lenti leggermente brunite, mi stava osservando mentre io facevo lo stesso con lui. Decisi di rompere quel silenzio.
- Posso porle una domanda? -
- Certamente! Ad una sola condizione. -
- Quale? -
- Io risponderò a tutte le domande che vuole, ma prima dovrà rispondere sinceramente alla mia. -
- Va bene. -
- Guardi che io non la obbligo. -
Avevo accettato quella condizione con entusiasmo, ma ora quella puntualizzazione mi rendeva inquieto. Decisi comunque di proseguire in quello che ormai sembrava uno strano gioco.
- Avanti. La sua domanda, prego. -
- Bene. Al suo processo lei ha dichiarato di essere innocente. Giusto? -
- Sì! -
- Perché? -
- Perché!? Io sono innocente. Non ho commesso il reato di cui sono stato imputato. -
- Lei crede di essere innocente. Si è mai posto il problema del giudicare? -
- No. Io non ho mai giudicato nessuno. -
- Quindi, in estrema sintesi, lei si dichiara vittima di un errore giudiziario. -
Senza darmi tempo di rispondere, si alzò in piedi, andò verso una libreria addossata alla parete retrostante, ne trasse un libro che iniziò a sfogliare mentre ritornava verso di me, finché non trovò quello che stava cercando. Con aria soddisfatta richiuse il libro, segnando però la pagina con uno dei nastrini di seta di cui il volume, un'edizione ottocentesca, era dotato. La domanda che successivamente mi porse possedeva un'aria volutamente retorica.
- Conosce Voltaire? -
- Un poco. -
- Bene. Questo è il Trattato sulla tolleranza. L'ha letto? -
Non capivo bene quale fossero le sue intenzioni. Decisi di rimanere sulla difensiva.
- In parte, ma è trascorso molto tempo. -
- Lei sa, comunque, che fu Voltaire con il suo trattato ad introdurre il concetto di errore giudiziario. -
- Sì, ma quando scrisse il libro la giustizia era amministrata non certo liberamente, anzi con tutto il peso del giogo fanatico della religione confessionale imperante. -
- Guardi che Voltaire non ha bisogno di giustificazioni. Non delle sue almeno. -
L'ultima esternazione mi consigliò di usare maggiore prudenza con quel tipo. Si rialzò in piedi riaprendo il libro nel punto segnato.
- Voltaire sbagliava. Non esiste l'errore giudiziario. -
L'espressione che assunse il mio volto lo rese consapevole della necessità di spiegarsi.
- Così come il sacerdote, celebrando la messa, consente che il mistero si compia, il
giudice nel momento in cui celebra la legge permette il compiersi della giustizia.
Prima può macerarsi nel dubbio, non nel momento in cui celebra, non più. Tanto
meno dopo. -
- Non è vero! La giustizia contempla la possibilità dell'errore visto che prevede non uno ma addirittura tre gradi di giudizio!-
Pronunciai con enfasi l'ultima frase sicuro com'ero di quello che stavo asserendo, ma la staticità dell'espressione del mio interlocutore rese meno certe le mie convinzioni.
- No! Non la possibilità dell'errore! I tre gradi di giudizio postulano soltanto
l'esistenza di un'opinione laica sulla giustizia... un'opinione situata al di fuori!-
Terminò l'ultima frase in piedi con l'indice della mano destra puntato verso l'alto, una posizione statuaria che durò pochi istanti, riacquistando in breve la sua naturale compostezza.
- Le concedo ora due possibilità. Ritirare la sua presunzione di innocenza, dichiararsi colpevole e ritornare al penitenziario dal quale proviene per finire di scontare la sua pena o restare qui dove potrà avere tutte le risposte che vuole. Attenzione però, chieda solo ciò che è sicuro di volersi sentire rispondere. Le domande non sono mai pericolose; le risposte, a volte, lo sono...-
- Se scelgo di rimanere qui, quanto tempo...-
- Vedo che ha scelto la seconda ipotesi. -
Quella frase, pronunciata con voce gelida, mi precipitò nel terrore.
- No! Io non ho scelto niente. Volevo solo sapere...-
- La prego! Deve solo scegliere. -
- E se scelgo di non scegliere? -
- Anche questa è una domanda. -
Restai in silenzio per lunghi minuti, a pensare se quello che mi stava accadendo fosse reale o parto della mia fantasia. Poi guardandomi intorno ritornai col pensiero al momento in cui ero arrivato in quel posto, alla conformazione di quelle mura, di quel primo vastissimo ambiente in cui ero entrato, alla sua eccezionale struttura, e capii.
- Torno nella mia prigione. -
La mia improvvisa decisione sorprese l'uomo con cui stavo parlando.
- Quindi ammette la sua colpevolezza. -
- Io non ammetto niente. -
- Guardi che dovrà ritirare la sua presunzione d'innocenza. -
- Non sarà questo a rendermi colpevole. -
- E tutte le domande che aveva intenzione di farmi. Lo ammetta, l'ho vista con quale curiosità guardava le strutture della prima sala. Non vuole avere informazioni dettagliate? Sarò felice di risponderle. -
- Ne sono certo, ma le risponderò solo se mi consente una domanda. -
- E sia! -
- Quante persone, prima di me, hanno accettato di restare in questo posto?-
L'altro si alzò in piedi, si recò alla porta e dopo averla aperta rispose.
- Nessuno, come lei ha ben capito. Il furgone l'aspetta all'uscita. Faccia buon
viaggio. -
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l'autore Nunzio Campanelli ha riportato queste note sull'opera
Nello scrivere questo racconto mi sono ispirato al romanzo "Il contesto" del grande Leonardo Sciascia.
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0 recensioni:
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- Grazie Pesce
- Davvero bello. Bravissimo!
- Grazie di cuore Carla
Anonimo il 22/09/2011 11:26
complimenti di cuore edmond... sposo il commento di anto e la tua risposta...
bello lo scritto veramente bravo carla...
- Diciamo che... gli echi possono definirsi tedeschi in quanto pallidi imitatori (allora) di quel mondo infero di cui la costruzione del mio racconto costituisce la porta.
Grazie Vasily
- Bello, bella scrittura... anche questo ha degli echi tedeschi??
- Ho scritto questo racconto memore del monologo che Sciascia ha voluto mettere in bocca al presidente della corte suprema, di cui ho indegnamente trascritto alcune frasi. Hai ragione Antonino, di Sciascia si deve leggere tutto. Io da parte mia sono a buon punto. In effetti non credo si possa plagiare un'autore se di un intero romanzo si usano due o tre righe per costruirci intorno un racconto, tanto più se lo si dichiara apertamente.
Grazie Antonino.
Anonimo il 21/09/2011 16:07
Bel racconto. Come Sciascia ti alletta la riscrittura, come non dimenticare quel capolavoro che è "Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia", che si rifà chiaramente al Candido di Voltaire. Ecco questa si chiama intertestualità. Purtroppo non tutti sono in grado di comprendere tale concetto, e specie su internet non farebbero che rimarcarti che hai plagiato. Che ignoranza. Di questo autore, se già non l'hai fatto ti consiglio tutto, "Porte aperte, "Todo modo", "il cavaliere e la morte", "la scomparsa di Majorana", tanto per citarne alcuni forse meno pubblicizzati. Scritto come sempre con acume letterario, bravo Nunzio.
- Vi ringrazio per la vostra attenzione
Anonimo il 20/09/2011 16:09
È un piacere leggere un italiano così corretto e scorrevole. C'è stoffa in te, amico mio! La stoffa dello scrittore... Complimenti!
Anonimo il 20/09/2011 15:22
Bel racconto... molto ben scritto. Fa pensare... ciaociao.
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