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C'era una volta
C'era una volta un paese appollaiato nell'inguine di una collina, discosto dal mare da dove, si racconta, si rifugiarono i policastersi.
Una sera, all'improvviso, nei pressi della foce del fiume Bussento giunsero i Pirati. Erano agguerriti e feroci, dopo tante peripezie.
I Policastresi, atterriti, abbandonarono il loro mare, il loro fiume, le loro paludi; rinunciarono a difendere le loro mura e il loro castello e fuggirono dalle loro case.
Fuggirono e si sparsero come schegge esplose dalla paura.
Fuggirono ansimanti, da perdenti ed alcuni di loro si rifugiarono a nord tra i cespugli di un costone roccioso dal quale sgorgava un rivolo d'acqua pura.
Si appollaiarono in capanne di fortuna e costruirono, si racconta, la prima casa su una roccia, abbarbicata come una cozza su uno scoglio.
Si nutrirono di bacche e di caccia. Raccontano i vecchi del paese che di notte sognavano le barche, il mare e l'odore dei pesci sulla brace.
Per sopravvivere, furono costretti a cambiare le loro abitudini e da pescatori diventarono pastori, boscaioli e più tardi anche contadini.
Più di ogni cosa coltivarono nel loro cuore e nel loro animo il terrore e la paura; covarono un millenario rancore verso una qualunque cosa diversa da se stessi e dal loro modo di pensare.
Si nascosero e si isolarono dal resto del mondo pur piccolo dell'epoca. Maturarono un senso di altera superiorità morale e si gonfiarono di orgoglio; un forte senso di identità di popolo li univa sempre più forte.
Tutto questo non impediva ai santamarinesi di azzuffarsi tra di loro come galli in un piccolo pollaio, come leoni nella foresta.
Avevano le loro leggi e la loro morale; la vita e i rapporti si coniugavano su valori da tutti accettati: il rispetto per gli anziani, l'ubbidienza ai genitori, la riparazione dello sgarro verso una donna, la parola data che valeva più di un contratto, il timore di Dio.
Chi sbagliava pagava, e pagava anche con la forza e tutti si schieravano non con la vittima ma con il restauratore dell'ordine sociale.
Il ricorso agli avvocati fu una scoperta tarda e fu uno sconvolgimento delle antiche usanze, dell'antica morale, un qualcosa di estremamente abietto. Anche l'essere citato come teste era un neo, motivo di infamia, per essere stato presente agli accadimenti oggetto di processo. Ma io credo che ci fosse anche un senso di paura o quantomeno di ritrosia a schierarsi.
La cupola del cielo stellato che si accendeva la sera fissava il divenire del tempo in uno spazio definito e circoscritto, i riflessi della luna alimentavano le paure, creavano fantasmi.
Tutto fluiva lentamente con il mutare delle stagioni.
Dormivano in piccole case senza pavimenti, annerite dal fumo.
Dormivano in piccoli letti o in un pagliaio, in tanti; stretti si riscaldavano dal freddo, senza coperte.
Dormivano animali insieme agli animali domestici, galline, conigli e a volte finanche maiali.
Sotto la stanza da letto c'era la stalla dell'asino e delle capre, che sempre accompagnavano il padrone di casa.
Dalla stalla si espandeva un piacevole tepore e la mattina, presto, l'asino ragliava e dava la sveglia.
Le galline si ruzzolavano accecati da un flebile raggio di sole che filtrava dal soffitto o dalle imposte rotte. E tutti si stropicciavano gli occhi e sbadigliavano al cielo. Non c'era distinzione tra persone ed animali, c'era una commistione, un tripudio di istinti primitivi, di esigenze vitali primordiali. Le passioni, la carne, le paure avevano sempre la prevalenza sulla ragione.
Tata Michele, così chiamavamo il nonno paterno, scendeva le scale dagli alti gradini di pietra, come da un soppalco, con mamma Mela, quasi un'ombra discreta, e zia Raffaella che si dondolava paffuta nell'ampia gonna, ormai anziana.
Metteva il cancello all'asino, il capestro, un pugno di fichi e di castagne in tasca e partivano per la campagna seguiti dalla capretta.
Mio padre ci sbatteva due uova con un grosso cucchiaio. Metteva poco zucchero, meno di quanto ne metteva la nonna materna, che apparteneva ad un altro ceto sociale. Soprattutto non metteva solo il tuorlo ma anche l'albume. E sbatteva a lungo con vigore. Ma l'impasto era pur sempre scarso per sfamare tante bocche.
Un giorno tornò con mia madre da una fiera con un aggeggio, un frullatore meccanico che sbatteva le uova girando una manovella. Triplice vantaggio: meno tempo, poteva utilizzarlo anche mia madre o uno di noi, l'impasto si gonfiava come per magia. Mia padre era contento negli occhi azzurri, chiari come il cielo quando brilla di sole dopo la pioggia.
Ma erano veramente stomachevoli quelle uova imbottite d'aria. E la trovata geniale venne presto abbandonata, perché quell'uomo era comprensivo come tutti gli uomini miti.
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- "Chi sbagliava pagava, e pagava anche con la forza e tutti si schieravano non con la vittima ma con il restauratore dell'ardine sociale."
Ti segnalo questo piccolo refuso "ardine sociale"
Racconto piaciuto e bevuto d'un fiato: ottima la commistione tra fantastico e realismo
A rileggerti con piacere
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