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Un pappagallo per amico
Se ne stava appollaiato in una gabbia dalle dimensioni sconnesse, almeno per uno della sua specie. Una gabbia piuttosto lunga ma oltremodo appiattita, una di quelle per tenerci i pulcini quando non son più pulcini e non sono ancora galline. Era nervoso. Se ne stava girato di spalle, oppure a testa in giù aggrappato con i poderosi artigli alle sbarre superiori della gabbia - che sarebbe meglio chiamare stia - gracchiando bellicoso ogni volta che qualcuno osava disturbarlo. Faceva un baccano d'inferno, soprattutto quando qualche imbecille si avvicinava e faceva : uh! come se avesse visto un marziano, e poi non la smetteva più di motteggiarlo con suoni e parole sconnesse, anche per un pappagallo.
Addirittura si accalcavano, talora, più individui, poiché si sa che un imbecille tira l'altro come le ciliegie, fino ad oscurargli l'aria, di modo che la povera bestia, povera solo perché s'era deciso così, non ne poteva più e tirava fuori le più acute e stridenti note di cui fosse capace pur di levarseli dalle scatole. Cosa che puntualmente avveniva, essendo quelle grida insopportabili da udirsi a così poca distanza, e allora ognuno si allontanava, scandalizzato che una bestia potesse non gradire i suoi sciocchi salamelecchi.
Dopo simili affronti il pappagallo si voltava di spalle, e, non v'è dubbio, col preciso intento di voltar le spalle, poiché dimostrava un tal senso dell'orientamento da far impallidire una bussola.
Egli, con piena consapevolezza della situazione, e altrettanta consapevolezza della direzione da cui veniva il mal fatto, giungeva ad una perfetta determinazione della posizione da assumere, perché potesse essere ben chiaro a chiunque che tutto ciò che meritavano di osservare era il suo pennuto e variopinto posteriore.
Un ultimo borbottante gracchio concludeva la vivace conversazione, dopodiché seguiva un fiero e orgoglioso silenzio.
Mi avvicinai, presumendo di saperci fare, e dissi: ciao, bello! tenendo la voce sul tono più basso e carezzevole di cui fossi capace. Mi sembrò di non esser mai arrivata a tanto nemmeno con mio figlio.
Allungai una mano, ma mentre stavo per appoggiarla alla grata, un eh! eeh! Noo! Mi fu letteralmente urlato alle spalle.
Questo non è un pappagallo, signora mia, è un cornuto- disse il proprietario del negozio nonché del pappagallo stesso - guardi qua - fece mostrandomi l'indice fasciato di garza - e stavo solo a dargli da mangià, eh!
A guardarci bene il pappagallo era dotato di un becco niente male, direi anzi decisamente inospitale, per un dito umano.
Se non fosse che vale quello che vale - continuò - e che prima o poi qualche buon'anima se lo porterà a casa del diavolo, giuro che gli torcerei il collo con queste mani - fece mostrando le dita a mo' di artigli.
Sfido - avrei detto - vorrei vederci lei, con le sue gambette da ragno e il muso da cicisbeo stagionato, con le sbarre attorno giorno e notte, notte e giorno.
E lo dissi, ma senza il fatto delle gambette e del muso.
Fece le mostre di non aver udito e la cosa finì lì.
Comunque sia, il pappagallo aveva un pessimo carattere, scontroso e stizzoso oltre ogni dire.
Era, in compenso, bellissimo nel piumaggio verde intenso, con collare rosso e giallo, e screziature di blu sparse qua e là seminascoste, in un magico ti vedo non ti vedo, e il timone della coda dove l'ultimo arcobaleno delle sue isole s'era posato, al tramonto.
Il becco, solo, era nero. E gli occhietti, piccole capocchie di spillo profonde come abissi, dignitosi e fieri.
Di tanto in tanto faceva un mezzo giro con la testa come per guardarsi le spalle e veder se vi fosse nei dintorni qualche balordo che minacciasse le solite sconsideratezze, oppure dopo un paio di giri sull'asta più arretrata della sua sconveniente e disonorevole dimora, si metteva a pulirsi gli artigli, con una concentrazione che avrebbe fatto invidia a chiunque abbia necessità di concentrarsi.
Ma a volte era troppo nervoso per dedicarsi a simili occupazioni da passatempo, e allora si dava anima e corpo all'arrampicata della breve parete a grata che lo circondava, indugiando soprattutto ai piani superiori che, forse, gli rammentavano gli intricati rami e le alture della sua infanzia.
Se ne stava a lungo penzoloni o aggrappato ad angolo, una zampa al soffitto e un'altra di lato, dondolandosi e stirandosi come una fionda pronta a tirare e contorcendosi e gracchiando.
Era il suo modo di protestare, di manifestare a tutti l'assurdità della sua situazione, di quanto essa fosse disdicevole inadeguata e contro natura.
Pareva che dicesse : non vedete che ho le ali? A cosa servono le ali secondo voi, brutti figli di...
Ecco perché i pappagalli imparano volentieri le parolacce. Penso che sarebbero molte le bestie cui piacerebbe dirne qualcuna...
Ma quando le nubi erano basse, l'aria nera e minacciosa e nessuna soluzione appariva all'orizzonte, allora si metteva a passeggiare pensieroso e serio, quasi triste, avanti e indietro per le sozze bacchette. Le ali ben chiuse una sull'altra, incrociate sulla schiena come le braccia di un filosofo nichilista prima maniera, sguardo basso, testa china, silenzio assoluto. Assorbimento totale nei propri pensieri. Noncuranza completa del mondo circostante la gabbia. Schifo per il cibo.
Pareva quieto, invece era il quadro della disperazione.
Fu in uno di questi momentacci, di cui ancora sottovalutavo gli effetti, che mi avvicinai armata di una fetta di mela a tentare un approccio.
Neanche mi vide. Si rese necessario svegliarlo da quella specie di ipnosi in cui era cascato, così dissi : ciao, Coco! poiché m'ero ricordata del classico cocorito... chissà perché.
L'occhiata che mi arrivò non fu certo delle più incoraggianti, piena com'era di fiero astio e sdegnate inesprimibili domande.
Comunque sia, mi feci coraggio - in fondo c'era sempre una gabbia intorno alla sua ira - e mi avvicinai ancora un poco, lo guardai cercando di evitare le espressioni ridicole che tanto lo disgustavano e senza saper che dicessi buttai fuori qualcosa come ehi bello, che hai da esser tanto incacchiato?
Forse avevo esagerato, perché mi fissò leggermente stralunato prima di girarsi indignato dall'altra parte. Ma evidentemente la cosa ebbe un certo effetto, e da quel momento si chiuse in un solenne silenzio.
Se ne stava come in attesa, perché continuava a osservarmi di sottecchi come chi vuol far mostra di non essere interessato all'argomento ma pure è curioso dei suoi sviluppi. Probabilmente aspettava il la per passare al contrattacco.
Ma non volli dargli questa soddisfazione, e stavolta fui io a girarmi, sdegnata, dall'altra parte.
Un sordo prolungato craaaa... aaaa accompagnò la mia uscita.
In fondo le bestie sono come gli uomini e gli uomini come le bestie. Bisogna solo aver pazienza, aspettare e insistere. I risultati non tarderanno a manifestare la loro caparbia assenza.
A tutti gli ulteriori tentativi di pacifico approccio, Coco rispose allo stesso modo, opponendo i soliti grugniti sdegnosi, anzi caricandoli ogni volta di un punto di stizza, i suoi screanzati voltaschiena, le sue occhiatacce al fulmicotone.
Tuttavia avevo sempre l'impressione che in queste sue impertinenze si desse da fare più del lecito, come uno che si ostina a recitare una parte controvoglia, così per abitudine e per non farsi scoprire le carte... poiché non c'era occasione che non cogliessi di sorpresa le sue "straforate", lo sguardo dei suoi piccoli occhietti indagatore e, in fondo, timido, su di me.
Beh, era un buon segnale. Almeno per me che m'ero intestardita a rivolgergli la parola con più interesse di quanto quell'uccello scorbutico meritasse. Non perdevo occasione di avvicinarmi alla gabbia a sussurrargli le poche parole che aspettavo mi ripetesse. Ma invano.
Tutto quello che ottenni fu un notevole ridimensionamento dei suoi brontolii, dei suoi nervosissimi giri di gabbia e dei suoi irriverentissimi voltaschiena. In definitiva, mi sentivo di affermare che si era calmato. Almeno al mio cospetto.
La cosa meravigliò non poco il suo custode e provvisorio proprietario, al quale era ancora interdetto l'appropinquarsi al detestato volatile.
Tuttavia, poiché non amo darmi arie sanfrancescane e non ho mai predicato ai pennuti, giudicai opportuno non dar alla cosa eccessiva importanza e feci finta di niente, anche e soprattutto col pappagallo.
In breve fui capace di dargli da mangiare direttamente dalle mie mani, senza che mi artigliasse o mi beccasse le dita.
Le prime volte borbottava un po', in sordina, vedendomi avvicinare pericolosamente alla sua solitaria e inviolabile disperazione, e rifiutò il goloso boccone per puro principio di lesa maestà.
Poi, non so come né quando, dovette dare un qualche fondamento logico a quel mio gesto, giudicandolo interessante.
In fondo si trattava di un pezzo di mela appena sbucciato, candido e fragrante nel suo appetitoso biancore, quali sciagurate intenzioni potevano celarvisi?
E fu così che vidi il famigerato becco protendersi, nero e incombente, verso il pezzo di mela tremolante tra le mie dita. Quando lo afferrò quasi mi cascava, mandando tutto al diavolo, ma lui fu più lesto. Le dita se ne stettero ancora un attimo lì come basite, poi le ritirai meravigliandomi della loro assoluta incolumità.
Nel frattempo lui aveva preso a sbocconcellare la mela con gusto dopo averla afferrata tra gli aguzzi unghioni. Eseguiva l'operazione con una calma di cui nemmeno lo credevo capace, senza scomporsi e senza degnarmi della più scialba gratitudine.
Ecco l'antipatico che c'era in lui, lo snobismo.
Ormai Coco ha cessato quasi del tutto le ostilità. Non so con gli altri, con me sì. Non si avventa contro i miei approcci pacifici, non si lancia in gracchianti e insensate invettive quando gli rivolgo la parola e, soprattutto, dà licenza alla mia mano di introdursi impunemente tra le sbarre.
Mi pare proprio una bella soddisfazione, visto che ancora sono in giro i segni poco piacevoli delle sue beccate sulle dita incaute e troppo ottimiste di qualcuno.
Ma, come ho già detto, non me ne faccio un vanto. In fondo non ho fatto alcunché di straordinario per conquistarlo. Non ho usato tecniche addestratorie per uccelli ribelli, delle quali ignoro persino l'esistenza, non mi sono data ai manuali di psicologia per volatili, né ne avrei avuto la voglia, non ho nemmeno cercato di affascinarlo, nemmanco mi ricordavo di lui quando ne ero lontana.
Semplicemente l'ho trattato da pappagallo. Non da bestia, ma da pappagallo. Come un uomo può trattare un pappagallo. Da bipede a bipede. Ecco tutto.
In questo modo ci si intende meglio che in tutti gli altri modi, e si ottengono risultati insperati. Il pappagallo è un animale dalle indubbie capacità imitatorie, l'uomo lo è almeno il doppio. Non a caso l'uomo cicisbeo è detto appunto pappagallo.
Ora, non ci vuole la sapienza di Salomone per capire che, in breve, i due andranno d'accordo.
Basta lasciar fare alla natura il suo corso, lasciare che il simile cerchi il suo simile senza troppe smancerie, magari tra urli e beccate, dispetti e artigliate.
Alla fine si convince di non essere il solo pappagallo esistente al mondo. Ve ne sono altri, e ben più pappagalli di lui.
Ed è solo a questo punto che può ragionevolmente instaurarsi una pappagallesca amicizia. Ed è sempre grazie a questo che Coco ha accettato di passare i weekend da me, nella mia casa, in qualità di ospite estemporaneo, tra tanti altri ospiti in pianta stabile che non si sognerebbe mai di molestare, pena due notti all'addiaccio.
Impara tante cose da me, in quei due giorni, e io da lui. Sorveglia chi entra e chi esce, si occupa del grado di dormiveglia dei gatti, medita, anche, sulle domande fondamentali dell'umanità, parendogli assai simili a quelle della bestialità. Di questo mi accorgo a sua insaputa, mentre è intento a fissare lo spazio a righe metalliche del suo universo.
In più impara a dire, a replicare a spifferare e anche a sbeffeggiare. Inutile dire che manda a memoria molte parolacce, le quali sono le sue preferite e con le quali non perde occasione di impratichirsi, il più delle volte a sproposito, di modo che l'effetto ne risulta particolarmente efficace, nella sua sconvenienza.
Ha una straordinaria capacità di concentrazione delle energie con conseguente profusione di potenti getti di espressioni ad alto significato.
In parole povere, non perde occasione per farti sentire un fetente.
Io imparo da lui il gusto del non mi arrenderò mai, e prima o poi ti frego, volerò via da qui, dell'oggi dammi poca confidenza, che non ti reggo, del guarda che te lo dico in faccia, e chi s'è visto s'è visto, e una quantità di altre cose delle quali è inutile parlare se non si è stati almeno un giorno in gabbia.
Abbiamo stabilito una sorta di mutua alleanza, un patto senza intermediari, di cui noi due soli sappiamo e rispettiamo l'esistenza.
Non ci chiediamo il perché, né io a lui, né lui a me e nemmeno a noi stessi ciascuno per proprio conto. Ci contentiamo di farci buona compagnia, anche se inframmezzata da occhiatacce, voltaschiena e parolacce.
Il lunedì mattina lo riporto a domicilio, quello suo abituale, dove lui, senza saperlo, attenderà un compratore e io, senza volerlo, mi augurerò che non l'abbia trovato, per passare ancora insieme un tranquillo weekend di beccate.
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