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Il Re di Cuori
Mi sono sentito dire spesso che ho lucidità, freddezza, razionalità non umane.
Nel corso della mia esistenza, se esistenza poteva definirsi lo squallido grigiore dei giorni che si susseguivano tutti uguali l'uno al precedente, non avevo mai manifestato particolari emozioni. Anzi, sarebbe più corretto dire che non avevo mai provato emozione alcuna.
Nemmeno alla morte delle persone a me vicine.
Nei miei ricordi non c'era spazio per le lacrime.
Non c'era spazio per i sorrisi.
Non c'era spazio per l'ira.
C'era solo, vago, lontano, un senso di irritazione crescente quando altri manifestavano sconforto, ilarità, ira.
Non provo invidia per nessuno. Non provo rancore. Non provo pietà.
La mia vita era solamente un eterno peregrinare verso il domani. Sapendo che nulla l'avrebbe sollevato dallo squallore dell'oggi e da quello di ieri.
Ma non m'importava.
Nella mia vita ho avuto numerose donne.
Non potrebbe certo dirsi che le ho avute per la mia bellezza.
Né tanto meno per la mia allegria, o simpatia, o estro.
Le amavo.
Loro si lasciavano amare.
I miei pensieri erano freddi anche in quei momenti. La razionalità non mi abbandonava in nessuna situazione.
Non provavo alcuna felicità, per quanto ne avessi sentito parlare e forse era quella che inseguivo, quando ero con loro.
Dopo… le abbandonavo nello stesso modo di sempre.
Non un arrivederci, non un addio. Semplicemente le riaccompagnavo a casa e, sempre senza proferire alcun suono, andavo via, verso il domani, sapendo che sarebbe stato altrettanto grigio, vuoto e squallido.
Ma non provavo alcuna tristezza. Né alcun rimorso.
Una volta una donna mi definì il Re di Cuori, poiché avevo sempre una chiave per entrarvi.
Non importava quanto fosse bella, intelligente, brillante.
Qualsiasi donna che io incontravo aveva una serratura. Ed io sapevo ricavare, anche dal nulla, la chiave giusta.
E quando hai la chiave giusta per entrare, hai anche quella per uscire.
Come un ladro di appartamento che irrompe senza forzare.
Ed esce esattamente come è entrato, senza sbattersi alle spalle la porta, ma lasciando l'appartamento vuoto.
Così io inaridivo i cuori delle donne che amavo, dopo averlo saccheggiato.
O perlomeno era tutto ciò che avrei voluto fare. Che mi illudevo di creare.
Il Re di Cuori.
È un appellativo che mi piaceva.
Beh, per uno come me esprimere piacere in qualcosa forse è eccessivo.
Ecco, diciamo che consideravo indicato quel nomignolo.
Ed intanto vivevo, giorno dopo giorno, la mia squallida esistenza.
Fatta di moti sempre uguali a sé stessi.
Giorno dopo giorno.
Settimana dopo settimana.
E così via per sempre, ma non saprei dire quanto tempo fa è iniziato.
E quanto tempo durerà.
So solo che questo è il destino che debbo compiere.
Ed infatti è ciò che farò finché avrò energia nel mio corpo.
Finché i miei circuiti neurali saranno connessi.
Finché mi muoverò in un mondo che sembra ostile.
Finché non troverò qualcuno che, attraverso chissà quali capacità, possa portarmi via dal grigiore della routine.
Ogni mio movimento.
Ogni mio gesto.
Persino ognuno dei miei pensieri sembrano meccanici.
Azioni oramai inconsulte, dettate da impulsi che non partono dal mio cervello, ma che, semplicemente, sembrerebbero l'esecuzione di un programma prestabilito.
So che è così che debbo agire e basta.
Ed infatti così agisco e così sempre farò.
Sono un essere che possa definirsi senziente?
Non potrei dirlo.
Comunque non potrei dirlo con certezza.
Non ho un Dio. Non ho una famiglia. Non ho un cuore che, tempo e tempo fa (non saprei dire quanto tempo fa) qualcuno avrebbe definito «umano».
Eppure ero il Re di Cuori.
Perché conoscevo il linguaggio giusto. Le azioni giuste.
Benché fosse tutto rigorosamente, stancamente, noiosamente meccanico.
Sapevo - sempre - come le cose sarebbero andate a morire.
Sapevo già prima ancora di incominciare cosa sarebbe successo.
All'inizio finivo con il meravigliarmi di avere sempre costantemente, meccanicamente ragione.
Ho anche sperato, per quello che per uno come me si possa definire «speranza» di sbagliare un giorno.
Ma niente.
Imprevisti, sorprese.
Non esistevano nella mia routine meccanica e grigia.
Gli ingranaggi della mia esistenza scorrevano arrugginiti ma funzionanti, come quelli di un vecchio orologio.
E, forse, anche dentro il mio corpo si faceva largo la ruggine di un'esistenza non vissuta, ma semplicemente passata.
Il mondo che mi circondava era sempre più degradato.
Sempre più fatiscente.
Sempre più logorato dal tempo.
Le persone che conoscevo un tempo, o perlomeno delle quali ho un (seppur vago) ricordo erano scomparse tutte. E presto erano finite nell'oblio dei reconditi meandri dei miei tessuti celebrali.
Nessun ricordo felice.
Nessuna emozione.
Non ricordo la casa nella quale avrei vissuto i primi anni della mia esistenza. Eppure dovrei, visto che riesco a ricordare i nomi ed i volti di tutte le donne con le quali sono stato. … e non sono poche.
Non ricordo i nomi né i volti di nessuno dei miei mentori.
Ma tutti erano diversi da me.
Io ero unico, in questo mondo.
Non avevo le medesime capacità di chi mi aveva «allevato» e mi aveva insegnato tutto ciò che so.
Non avevo le stesse abilità. Né la stessa intelligenza.
Ma spesso riuscivo a vedere situazioni che per me erano ovvie, banali, scontate perché… non potevano che essere così.
Intuito?
Mentre per tutti coloro che mi circondavano io sembravo qualcosa di alieno (e naturalmente in qualche modo lo ero, così differente da ciascuno di loro).
Avevo anche provato a sfruttare queste mie capacità per le mansioni che nel corso della mia esistenza mi erano state affidate.
Ma, nonostante tutto, ero sempre molto meno abile di tutti gli altri.
Nonostante avessi imparato, proprio da essi, la freddezza e la razionalità, non riuscivo sempre ad esprimere al meglio ciò che nei miei circuiti celebrali si manifestava in maniera così chiara ed distinta.
Io riuscivo a vedere le situazioni meglio e più lontano. Ed a capirle. Ma ero incapace di realizzare!
Quasi mai le mie azioni collimavano con i pensieri che avevo addotto.
Ma ciò non mi frustrava, né mi deprimeva.
Ci sarebbe stato senz'altro qualcun altro che avrebbe svolto meglio il mio compito.
Per questo io andavo avanti per la mia strada senza alcun rammarico.
Senza alcun sentimento di tristezza.
Continuavo ad amare... a fare sesso, intendo, con le donne che incontravo.
Conoscevo per ciascuna la giusta chiave.
Ed una volta trovata nessuna di esse si tirava indietro.
Come se rispondessero a degli ordini impartiti. A dei programmi prestabiliti.
Ma nessuna di esse mi aveva mai dato ciò che realmente avrei desiderato, benché nemmeno io sapessi cosa fosse.
Vivevo in un mondo che sapevo essere non mio.
Non ho alcun ricordo del passato del mio mondo. Ammesso che ve ne fosse stato uno prima della mia venuta su di esso. I pochi frammenti di storia che «gli altri» detenevano non mi aiutavano certo a capire chi fossi, o meglio, chi fossi stato.
Non m'importava, certo. Ma sapevo di essere diverso.
L'unico diverso in un mondo tutto uguale a sé stesso.
E quell'input perpetuo. Quella continua ricerca di qualcosa che sentivo dentro di me. Quel qualcosa che, puntualmente, non riuscivo a trovare in nessuna delle donne che avevo amato, benché fosse proprio lì che dovevo cercare.
Qualcosa che finalmente avrebbe fatto fallire le mie previsioni.
Qualcosa… un'anomalia. Un errore. Una falla del sistema.
Niente.
Niente.
Ogni giorno uguale all'altro.
Ogni giorno nessuna emozione.
Mi sono sentito dire spesso che ho lucidità, freddezza, razionalità non umane.
In realtà non ho mai compreso cosa significasse davvero.
Non ho un Dio. Non ho una famiglia. Non ho un cuore «umano».
Ma non ho mai capito cosa fossero Dio, famiglia e, soprattutto, cosa fosse un umano.
Mi ritrovavo in quel mondo che sapevo non essere il mio.
Dove esistevano compiti suddivisi per ciascuno dei sui abitanti.
Dove vi erano classi che ciascuno rispettava in perfetta armonia, come fossero prestabilite da secoli.
Ciascuno badava alla propria auto conservazione ed a quella dei luoghi presso i quali viveva.
Come se vi fossero, anche per essi, input impartiti da secoli. Nella speranza di preservare chissà che cosa.
Già… conservare che cosa, se di tutto ciò che c'era prima non si sa niente?
Tutto era meccanico, programmato, prestabilito, grigio.
Nessuno aveva facoltà proprie.
Nessuno agiva di impulso oppure secondo schemi non logici.
Ed anche io avevo imparato a fare così.
Nonostante quell'input (come altro non saprei chiamarlo) di volere a tutti i costi spezzare la routine, cercando una donna che finalmente fosse diversa, che non fosse raggiungibile semplicemente attraverso l'utilizzo della giusta chiave.
Che mi sapesse dire di no.
Che mi sapesse dare un'emozione diversa.
Che mi togliesse punti di riferimento, certezze, lucidità, razionalità.
Sentivo questo bisogno, dentro di me.
Eppure…
Non era possibile e lo sapevo bene.
Io ero diverso.
Non avrei mai potuto trovare niente del genere in quel mondo.
Loro mi avevano trovato in quel laboratorio abbandonato.
Dire che avevano trovato me forse è una forzatura.
Avevano trovato qualcosa dal quale mi avevano ricavato.
Non ho mai capito bene che cosa sia veramente successo.
L'esplorazione.
La scoperta.
Un embrione di uomo conservato in stato criogenico.
La clonazione (loro avevano i mezzi e gli strumenti per realizzarla).
Lo sviluppo.
Gli insegnamenti.
Avevano anche dovuto sostituire il mio cuore con un cuore meccanico, poiché il mio, una volta completato lo sviluppo della mia struttura, non funzionava come avrebbe dovuto.
Un trapianto.
Loro sapevano come fare.
Già… loro!
Le macchine.
I robot.
Che dominano questo Pianeta (lo chiamano Terra) da secoli.
Non si sa niente di ciò che c'era prima. Di chi c'era prima.
È molto probabile che le macchine ci siano state da sempre e da sempre l'abbiano dominato.
Il Re di Cuori io sono.
Perché in ognuna di queste creature meccaniche io cerco qualcosa che non troverò mai. Riesco a canalizzare questi input che partono dalla mia corteccia celebrale. Riesco a sopperire i miei bisogni fisici e fisiologici. Sesso, credo si chiami, del resto queste donne (la cui chiave evidentemente io conosco) erano state programmate proprio per questo.
Ma da chi?
E perché?
E perché tutti svolgono perennemente e costantemente il loro compito?
Chi gli ha detto di fare questo, per il resto dei secoli?
Auto determinazione?
Auto coscienza?
Io… io forse la possedevo.
Nel corso della mia esistenza, se esistenza poteva definirsi lo squallido grigiore dei giorni che si susseguivano tutti uguali l'uno al precedente, non avevo mai manifestato particolari emozioni. Anzi, sarebbe più corretto dire che non avevo mai provato emozione alcuna.
Nemmeno alla morte delle persone a me vicine.
Nei miei ricordi non c'era spazio per le lacrime.
Non c'era spazio per i sorrisi.
Non c'era spazio per l'ira.
C'era solo, vago, lontano, un senso di irritazione crescente quando altri manifestavano sconforto, ilarità, ira.
Certo: loro erano stati programmati per ridere, per essere tristi, per adirarsi. La perfezione biomeccanica.
Ma nessuno era stato in grado di insegnarlo a me.
Come si può insegnare qualcosa che non conosci?
Ed io.. chi ero realmente?
L'unico essere umano (per l'idea, seppur remota e vaga che io potessi avere sul significato di queste due parole) in un mondo fatto di meccanica e di robot.
Io, il Re di Cuori, alla ricerca, semplicemente, di una donna da amare. O forse, più banalmente, di una donna dalla quale essere amato. Era forse quello l'input che s'insinuava nelle mie sinapsi?
L'amore era la vita? La vera Vita?
Ma la mia vita era solamente un eterno peregrinare verso il domani. Sapendo che nulla l'avrebbe sollevato dallo squallore dell'oggi e da quello di ieri. Tutto sempre e per sempre uguale a ieri. Uguale ad oggi.
Ma non m'importava.
Ero solo.
Ed aspettavo.
Forse arriverà un giorno in cui non sarò più solo.
E che non aspetterò più.
Intanto ero solo.
La Regina di Cuori esisteva solamente nei miei pensieri.
Nei risvolti angosciati dei miei sogni.
La sua ombra si allungava su di essi durante la notte.
La Regina di Cuori.
Forse esisteva avvero.
Forse non sarei rimasto più solo. Forse esisteva davvero.
Un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, la incontrai.
Ne ero sicuro. Era lei.
La Regina di Cuori.
L'avevo trovata.
Non ricordo nemmeno come fosse stato possibile.
Né come né perché entrammo in contatto. Né quando.
So solo che un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, la incontrai.
Mi parlò di sé.
Della sua triste, e vuota, e buia esistenza.
Alla continua ricerca di qualcosa che fosse diverso da ciò che da sempre aveva avuto.
Mi raccontò che era stata trovata in un laboratorio.
Che il suo corpo fosse stato sviluppato grazie alle conoscenze ed alle capacità delle macchine.
E secondo i loro dettami ed insegnamenti era stata allevata e si era sviluppata.
La sua era un'intelligenza meccanica, come la mia.
Automatismi dettati da routine.
Ma, anche lei, dentro il suo animo (se di animo si poteva, anche per lei parlare), cercava qualcosa che… nemmeno lei sapeva cosa fosse.
E la cercava nelle altre creature. Nelle altre macchine.
Quelle che da secoli (forse da sempre) dominavano quel mondo.
Ma non l'aveva mai trovata.
Routine.
Grigiore.
La sua esistenza era squallida come la mia.
Ma forse… forse era arrivato il tempo in cui io non avrei aspettato più.
Forse non ero più solo.
Quell'input, quella forza che si sprigionava dal più recondito angolo delle mie viscere… era venuta fuori, parossisticamente e mi ave a travolto. Ed io mi ero cullato tra le onde di quell'impeto. Perché non volevo essere più solo. Perché non volevo aspettare più. Perché finalmente… finalmente «m'importava»!
La Regina di Cuori…
Il Re di Cuori.
Due creature… allevate dalle macchine.
Troppo simili alle macchine.
Troppo grigiore di una vita vissuta nello squallore della routine.
Nel buio dell'animo.
Un buio talmente profondo che è davvero impossibile scorgere il fondo dell'animo stesso.
Un buio che altro non è che specchio di un baratro.
Il baratro dei sentimenti, che ciascuno di noi due ignorava, perlomeno a livello conscio, ignorava di possedere.
Impossibile capire cosa fosse quel buio.
E quindi sentimenti abbandonati nell'oblio di quel baratro.
Ci trovammo.
Forse non eravamo più soli.
I nostri corpi si unirono.
I nostri animi si sfiorarono.
I nostri Cuori provarono ad essere i sovrani di un regno unico.
Un regno non avvelenato dall'inutilità di un'esistenza non vissuta.
Ma…
Ma…
Non era forse quello il momento.
Non era forse il luogo.
Avremmo potuto, avremmo voluto sospendere per sempre le nostre anime (se solo avessimo avuto consapevolezza e coscienza di possederne) nell'infinito. In un infinito che ci allontanasse da quel grigiore. Da quell'infinito incessante continuare di gesti l'uno simile all'altro. Ciascuno simile al successivo. Da quel grigiore. Da quella routine.
Avevo forse trovato la Regina di Cuori? Ero forse… non più solo?
Non era diverso. Non era differente.
Era uguale a tutte le altre volte.
Anche con lei.
Anche lei…
Dopo aver toccato il fondo dell'animo, dopo aver preso consapevolezza di quel baratro infinito ed impossibile da colmare che ottenebrava i nostri cuori… Niente era diverso.
Tutto sempre e per sempre uguale a ieri. Uguale ad oggi.
Ero solo. Ed aspettavo.
Io, il Re di Cuori, alla ricerca, semplicemente, di una donna da amare. O forse, più banalmente, di una donna dalla quale essere amato.
L'avevo trovata.
Forse non ero più solo. Forse non dovevo più aspettare.
Ma la Regina di Cuori…
Lei non era la regina del mio regno.
L'amore era la vita? La vera Vita?
Lei non mi aveva dato il calore della vita. Se non per un piccolo, infinitesimale istante.
Un istante di vita vissuta, finalmente, forse, intensamente.
Forse!
Ma la Regina di Cuori, lei non era la regina del mio regno. Era uguale a tutte le altre.
Non era meccanica come loro. Non aveva un cervello biomeccanico ed un programma che le dicesse cosa fare sempre. Lei era come me. «Umana». Se solo io avessi la consapevolezza di cosa significasse essere umani. Eppure…
Eppure…
Non era diversa dalle altre.
Io, il Re di Cuori, alla ricerca, semplicemente, di una donna da amare. O forse, più banalmente, di una donna dalla quale essere amato.
Ma la mia Regina in realtà… non esisteva. Non era mai esistita. Non esisterà mai… forse!
Ma la mia vita era solamente un eterno peregrinare verso il domani. Sapendo che nulla l'avrebbe sollevato dallo squallore dell'oggi e da quello di ieri. Tutto sempre e per sempre uguale a ieri. Uguale ad oggi.
Ma non m'importava.
Ero di nuovo solo.
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